Copertina
Autore Rosa Luxemburg
Titolo Scritti politici Vol. 1
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2012 [1967], Gli indimenticabili 9 , pag. 448, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-359-9194-6
OriginalePolitische Schriften
CuratoreLelio Basso
TraduttoreLelio Basso
LettoreGiangiacomo Pisa, 2013
Classe politica , movimenti , marxismo , storia: Europa
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Indice


Avvertenza                                                            7
Introduzione                                                         11

Riforma sociale o rivoluzione?
    Nota introduttiva                                               149
    Riforma sociale o rivoluzione?                                  163

Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa
    Nota introduttiva                                               239
    Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa         245

Prefazione a «La questione polacca e il movimento socialista»
    Nota introduttiva                                               271
    Prefazione a «La questione polacca e il movimento socialista»   285

Sciopero generale, partito e sindacati
    Nota introduttiva                                               325
    Sciopero generale, partito e sindacati                          339

Discorso al congresso del POSDR
    Nota introduttiva                                               427
    Discorso al congresso del POSDR                                 433


 

 

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Pagina 11

Introduzione



Il motivo che mi ha spinto a presentare al pubblico italiano questa antologia dei principali scritti politici di Rosa Luxemburg non è stato quello di fornire un contributo per la conoscenza storica del movimento operaio internazionale, in seno al quale Rosa Luxemburg occupò per un ventennio un posto preminente, bensì quello di offrire uno strumento attuale, perfettamente valido ancor oggi, per l'elaborazione e l'approfondimento di una strategia di lotta del movimento operaio. Perfettamente attuale ancor oggi, anzi sempre più attuale a misura che i militanti più seri e più impegnati, spezzate le catene del dogmatismo e abbandonate le illusioni perennemente risorgenti dell'opportunismo, riprendono contatto con la sorgente viva del pensiero marxista riscoprendone l'inesauribile ricchezza.

Di quel pensiero marxista che, secondo la nota definizione engelsiana, non è un dogma ma una guida per l'azione, Rosa Luxemburg è stata certamente fra i continuatori più efficaci e più creativi e nulla può apparire più naturale quindi che il suo nome sia stato quasi dimenticato durante i lunghi anni in cui l'opportunismo da un lato e il dogmatismo dall'altro fecero strazio del marxismo. Non è perciò forse superfluo ricordare ai lettori italiani alcuni fra i principali giudizi che uomini eminenti del movimento operaio ebbero già a pronunciare sul suo conto. Di questi giudizi il più noto è quello di Lenin che nel 1922 scriveva:

«Nonostante questi errori, essa era ed è rimasta un'aquila, e non soltanto la sua memoria sarà sempre cara ai comunisti di tutto il mondo, ma anche la sua biografia e la raccolta completa delle sue opere (nella pubblicazione delle quali i comunisti tedeschi ritardano incredibilmente, del che essi sono soltanto in parte scusabili per gli immensi sacrifici che devono sopportare nella loro dura lotta) offriranno un insegnamento utilissimo per l'educazione di molte generazioni di comunisti di tutto il mondo»; in ciò riecheggiando il giudizio che Karl Radek, allora leader bolscevico di primo piano, aveva espresso nella commemorazione di Rosa: «Ciò che Rosa Luxemburg fu ed è per il proletariato tedesco ed internazionale, non appartiene al passato, ma si farà valere soltanto nell'avvenire, quando larghi strati di comunisti studieranno profondamente la raccolta delle sue opere e faranno proprio lo spirito che emana da esse. Con ciò non è detto che noi dobbiamo condividere ogni sua opinione. Antonio Pannekoek criticò il suo libro sull'accumulazione del capitale, chi scrive queste righe prese atteggiamento critico di fronte alla parte positiva della Juniusbroschüre; ma nessuno che voglia parlare in nome del comunismo, che pensi da comunista, deporrà questi scritti senza aver acquistato la convinzione che con Rosa Luxemburg morì il più profondo spirito teorico del marxismo, che essa è la nostra guida, dalla quale gli operai comunisti avranno ancora da imparare per decenni».

Non stupisca questa affermazione che la Luxemburg fosse «il più profondo spirito teorico del comunismo» fatta, vivo Lenin, da un militante del suo stesso partito; già una quindicina di anni prima Franz Mehring, lo studioso e biografo di Marx, aveva potuto scrivere nella rivista diretta da Kautsky, che pure era quasi unanimemente considerato come l'interprete più autorevole del marxismo, che Rosa Luxemburg era «il cervello più geniale fra gli eredi scientifici di Marx e di Engels» e un giudizio analogo troviamo nella prefazione che Lukács scrisse nel 1922 per la raccolta di saggi pubblicata sotto il titolo Geschichte und Klassenbewusstsein nella quale definisce Rosa Luxemburg «la sola discepola di Marx che abbia prolungato realmente l'opera della sua vita sia sul piano dei fatti economici che sul piano del metodo economico e che, da questo punto di vista, si ricolleghi concretamente al livello presente dell'evoluzione sociale».

Ma, nonostante che i più illustri esponenti del pensiero marxista ne avessero messo in luce l'importanza, l'opera teorica di Rosa Luxemburg, disseminata in numerosi pamphlets e dispersa in centinaia di articoli e discorsi, doveva essere già pochi anni dopo la sua morte avvolta in una rigida cortina di silenzio che solo pochi studiosi osarono infrangere. Da un lato la destra socialdemocratica, che poche settimane dopo la sua ascesa al potere in Germania aveva compiacentemente favorito l'assassinio della Luxemburg per sbarazzarsi dell'avversario più pericoloso, non aveva certo interesse a ripubblicare i suoi scritti che sarebbero suonati come altrettanti capi d'accusa contro la politica socialdemocratica; dall'altro il rigido dogmatismo staliniano non poteva riconoscere diritto di circolazione a un pensiero non solo così vivo e così ricco come quello della Luxemburg ma che era, si può dire, tutto uno squillo di battaglia contro ogni tentativo di irrigidire il marxismo in schemi senz'anima. Era appena trascorso un anno dalla morte di Lenin che già l'esecutivo allargato dell'Internazionale comunista condannava alcune dottrine della Luxemburg e al principio degli anni '30 ogni ristampa di suoi scritti da parte comunista era diventata impossibile e il suo nome non poteva essere pronunciato se non accompagnato dalle più dure condanne: si arrivò a parlare di «lue luxemburghiana». Sicché l'edizione delle opere complete che Lenin aveva auspicato e che era stata allora iniziata, attende ancora, ad oltre quarant'anni dalla morte, la sua realizzazione: è comunque certamente un fatto positivo che si sia ricominciato da parte comunista a ristamparne gli scritti e che recentemente sia stata pubblicata in Polonia una bibliografia completa dei suoi scritti che costituisce una guida preziosa per ogni studioso e per un auspicato editore e che noi riproduciamo in questo volume.

Il problema centrale di Rosa Luxemburg, il problema attorno a cui ruota tutta la sua opera teorica e anche tutta la sua azione pratica, è il problema della rivoluzione socialista: «Perché e come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi?». Fu questo del resto anche il problema centrale di Marx come dev'esserlo per ogni socialista per cui il socialismo non sia soltanto un facile soggetto da esercitazioni domenicali nei pubblici comizi ma sia una scelta fondamentale, morale e politica, che dev'essere tradotta in realtà. All'impostazione corretta e alla soluzione del problema Marx aveva apportato un contributo decisivo, ma i suoi epigoni o non l'avevano compreso o ne avevano nella pratica tradito lo spirito, e a ritrovare questo spirito, sia sul piano del metodo sia sul piano dell'analisi come su quello dell'azione, fu volta tutta l'opera di Rosa Luxemburg.

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Pagina 147

Riforma sociale o rivoluzione?





Nota introduttiva



Lo scritto che segue di Rosa Luxemburg è il primo contributo teorico da lei dato come militante della socialdemocrazia tedesca dopo la sua venuta in Germania. Prima di allora aveva lavorato come socialista polacca e le sue collaborazioni a riviste e giornali tedeschi erano dedicate principalmente a problemi polacchi o, comunque, a problemi di politica estera, e anche la sua attività pratica, dopo il suo arrivo in Germania, era stata dalla socialdemocrazia tedesca indirizzata verso il lavoro in seno alle popolazioni polacche del Reich tedesco. Ma il Bernsteindebatte, il grande dibattito sorto in quel periodo attorno agli articoli pubblicati da Bernstein sulla Neue Zeit, doveva offrirle l'occasione di rivelare la sua preparazione teorica ma soprattutto il taglio dialettico della sua mente e la sua formidabile tempra di polemista.

Come è noto, il Bernsteindebatte fu l'occasione che obbligò la socialdemocrazia tedesca a porsi esplicitamente — non però a risolvere — tutta una serie di problemi che esistevano indipendentemente da Bernstein e che si possono riassumere nella frattura fra le formulazioni teoriche ufficiali della socialdemocrazia e la sua reale attività pratica. In teoria la socialdemocrazia riconosceva il marxismo come sua dottrina ispiratrice, soprattutto per merito di Engels che da Londra seguiva attentamente il movimento e di Kautsky che dal 1883 dirigeva la rivista Neue Zeit e attraverso di essa conduceva la battaglia per il trionfo dell'ideologia marxista. fra i capi del partito W. Liebknecht era di formazione marxista, e A. Bebel, che ne fu il leader fino alla vigilia della prima guerra mondiale, pur essendo di formazione lassalliana, si era poi convertito al marxismo. Tuttavia, anche per alcune deficienze proprie al vecchio Engels e soprattutto a Kautsky, il marxismo assimilato dalla socialdemocrazia tedesca aveva perso gran parte del suo mordente dialettico e del suo vigore rivoluzionario, e a seconda delle circostanze o dei temperamenti esso veniva interpretato come messianismo rivoluzionario o come la teoria che giustificava la partecipazione alle elezioni e al lavoro pratico quotidiano. Il programma approvato al congresso di Erfurt del 1801 aveva tentato di conciliare la duplice esigenza, ponendo una accanto all'altra una parte teorica contenente affermazioni rivoluzionarie e una parte pratica contenente un programma minimo d'azione, ma senza riuscire a realizzare un nesso effettivo fra le due parti. Il programma minimo non serviva affatto a preparare la crisi rivoluzionaria ma piuttosto ad attenderla, mentre la parte teorica non riusciva a definire una strategia proletaria e lasciava nel vago la conquista del potere.

Il risultato di questa incapacità di saldare i due momenti fu che mentre il partito si dedicava sempre più intensamente all'attività pratica quotidiana, la prospettiva rivoluzionaria appariva sempre più campata per aria e astratta dalla realtà. Ancora negli anni intorno al '90 questa prospettiva era sembrata ai dirigenti socialdemocratici molto vicina, addirittura calcolabile con «matematica certezza» e Bebel diceva al congresso di Erfurt: «Io sono convinto che la realizzazione dei nostri scopi è così vicina che pochi sono in questa sala che non vivranno quei giorni». Tuttavia, poiché nello stesso tempo la socialdemocrazia rinunciava all'insurrezione di strada, la prospettiva rivoluzionaria rimaneva legata o a un crollo del sistema capitalistico determinato da una grave crisi economica, cioè a un meccanismo indipendente dall'azione del proletariato, o alla conquista di una maggioranza parlamentare.

Senonché la prima di queste due alternative sembrava dileguarsi proprio in quello stesso torno di tempo: la Germania stava allora attraversando un periodo di prosperità economica. Dal quarto posto che essa occupava fra i paesi industriali nel 1870, passava al terzo intorno al 1890 e al secondo intorno al 1900. Il volto economico del paese mutava rapidamente: il processo di concentrazione celebrava i suoi trionfi nell'industria del ferro, dell'acciaio e del carbone, nonché nella chimica e nell'elettrotecnica, ponendo le basi di una politica imperialistica che doveva estrinsecarsi nel commercio estero, nelle conquiste coloniali, nella politica internazionale, nella corsa al riarmo. Contropartita di questa espansione capitalistica erano un aumento dei salari reali, che pur rimanevano bassi ma che comunque smentivano le teorie ancora di moda della miseria crescente, e lo sviluppo delle assicurazioni sociali, volute già prima da Bismarck, che presentavano alle masse la faccia paternalistica dello Stato. Le probabilità di una crisi economica catastrofica o anche di una crisi tout court apparivano sempre minori agli stessi socialisti: la teoria marxista delle crisi sembrava ricevere un duro colpo.

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Pagina 163

Riforma sociale o rivoluzione?
[1897]



Parte prima
Il titolo del presente scritto può a tutta prima sorprendere. Riforma sociale o rivoluzione? La socialdemocrazia può dunque essere contro la riforma sociale? O può contrapporre la rivoluzione sociale, il rovesciamento dell'ordine esistente, che costituisce il suo scopo finale, alla riforma sociale? Sicuramente no. Al contrario, per la socialdemocrazia la lotta pratica quotidiana per delle riforme sociali, per il miglioramento della condizione del popolo lavoratore anche sul terreno dell'ordine esistente, per delle istituzioni democratiche, costituisce la sola via per condurre la lotta di classe proletaria e per lavorare in vista dello scopo finale, che è la presa del potere politico e l'abolizione del salariato. Fra riforma sociale e rivoluzione sociale esiste per la socialdemocrazia un nesso indissolubile, in quanto la lotta per le riforme costituisce il mezzo ma lo scopo è la trasformazione della società.

Una contrapposizione di questi due momenti del movimento operaio noi troviamo per la prima volta nella teoria di E. Bernstein come egli l'ha esposta nei suoi articoli Problemi del socialismo nella Neue Zeit 1897-98 e particolarmente nel suo libro Presupposti del socialismo. Tutta questa teoria non conclude ad altro che al consiglio di rinunciare alla trasformazione della società, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e di fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un mezzo della lotta di classe. Bernstein stesso ha formulato i suoi punti di vista nel modo più preciso e incisivo quando ha scritto: «Lo scopo finale, qualunque esso sia, per me è nulla, il movimento è tutto».

Ma poiché lo scopo finale socialista è il solo momento decisivo che distingue il movimento socialdemocratico dalla democrazia e dal radicalismo borghesi e che trasforma tutto il movimento operaio da un'inutile rattoppatura per la salvezza dell'ordine capitalistico in una lotta di classe contro quest'ordine e per la sua abolizione, la domanda «riforma sociale o rivoluzione» nel significato bernsteiniano equivale per la socialdemocrazia alla domanda: essere o non essere? Nella controversia con Bernstein e i suoi seguaci non si tratta in ultima analisi di questo o quel metodo di lotta, di questa o quella tattica, ma dell'intiera esistenza del movimento socialdemocratico.

Comprendere ciò è doppiamente importante per gli operai, perché qui si tratta proprio di loro e della loro influenza nel movimento, perché è la loro pelle che qui si porta al mercato. L'indirizzo opportunistico nel partito, formulato teoricamente da Bernstein, non è altro che l'inconscia aspirazione ad assicurare il predominio agli elementi piccolo-borghesi affluiti al partito e a rimodellare secondo il loro spirito la prassi e gli scopi del partito. Il problema della riforma sociale e della rivoluzione, dello scopo finale e del movimento è l'altra faccia del problema del carattere piccolo-borghese o proletario del movimento operaio.


1. II metodo opportunistico

Se le teorie sono immagini dei fenomeni del mondo esterno riflesse nel cervello umano, bisogna in ogni caso aggiungere, quando si tratta della teoria di Edoardo Bernstein, che sono sovente immagini capovolte. Una teoria dell'instaurazione del socialismo mediante riforme sociali, dopo che sono state messe definitivamente a dormire le riforme sociali tedesche; del controllo dei sindacati sul processo produttivo, dopo la sconfitta dei meccanici inglesi; della maggioranza parlamentare socialdemocratica, dopo la revisione della costituzione sassone e gli attentati al suffragio universale per le elezioni al Reichstag. Ma il centro di gravità delle argomentazioni di Bernstein non sta, a nostro parere, nelle sue opinioni sui compiti pratici della socialdemocrazia, bensì in ciò che egli dice sul corso dello sviluppo obiettivo della società capitalistica, con cui quelle opinioni sono in strettissimo rapporto.

Secondo Bernstein un crollo generale del capitalismo diventa sempre più improbabile a mano a mano che esso si sviluppa, perché da un lato il sistema capitalistico dimostra una sempre maggior capacità di adattamento e dall'altro la produzione si differenzia sempre di più. La capacità di adattamento del capitalismo secondo Bernstein si manifesta in primo luogo nella scomparsa delle crisi generali, grazie allo sviluppo del sistema creditizio, delle organizzazioni imprenditoriali e delle comunicazioni come pure del servizio di informazioni; in secondo luogo nella tenace sopravvivenza del ceto medio in seguito alla costante differenziazione delle branche di produzione e all'ascesa di larghi strati del proletariato nel ceto medio; in terzo luogo infine nel miglioramento della situazione economica e politica del proletariato in seguito alla lotta sindacale.

Ne deriva, per la lotta pratica della socialdemocrazia, il concetto generale che essa non debba indirizzare la propria attività alla conquista del potere politico, ma al miglioramento della situazione della classe operaia e all'instaurazione del socialismo non attraverso una crisi sociale e politica, bensì estendendo progressivamente il controllo sociale ed attuando gradualmente il principio della cooperazione.

Bernstein stesso non vede nulla di nuovo nelle cose che espone, ed anzi pensa che esse concordino tanto con singole asserzioni di Marx ed Engels, quanto con l'indirizzo generale seguito sino ad ora dalla socialdemocrazia. A nostro avviso invece sarebbe difficile negare che la concezione di Bernstein sia in realtà in assoluto contrasto con l'orientamento del socialismo scientifico.

Se tutta la revisione di Bernstein si riassumesse nella tesi che il corso dello sviluppo capitalistico è molto più lento di quanto siamo abituati ad ammettere, ciò in realtà significherebbe soltanto un differimento della conquista del potere politico da parte del proletariato rispetto a quanto si prevedeva fino ad ora, e praticamente ne potrebbe derivare tutt'al più un ritmo più calmo della lotta. Ma non si tratta di questo. Ciò che Bernstein ha messo in discussione non è la rapidità dello sviluppo, ma il corso stesso dello sviluppo della società capitalistica e conseguentemente il passaggio all'ordinamento socialista.

Se la teoria socialista ha ammesso fino ad ora che il punto di partenza della rivoluzione socialista sarebbe stato una crisi generale distruttrice, bisogna, a nostro modo di vedere, distinguere a questo proposito due cose diverse: l'idea fondamentale che vi è contenuta e la sua forma esteriore. L'idea fondamentale consiste nel ritenere che l'ordinamento capitalistico farà maturare da sé, grazie alle proprie contraddizioni, il momento in cui cadrà in sfacelo, in cui esso diventerà semplicemente impossibile. Che questo momento sia stato concepito sotto forma di una crisi economica generale e catastrofica non è accaduto naturalmente senza buone ragioni, ma nondimeno rimane per l'idea fondamentale un fatto marginale e non essenziale. La base scientifica del socialismo infatti si appoggia notoriamente su tre risultati dello sviluppo capitalistico: anzitutto sulla crescente anarchia della economia capitalistica, che porta inevitabilmente alla sua scomparsa; in secondo luogo sulla progressiva socializzazione del processo produttivo, che crea le condizioni positive del futuro ordine sociale; e in terzo luogo sulla crescente organizzazione e coscienza di classe del proletariato che costituisce il fattore attivo del rivolgimento immanente.

È il primo di questi pilastri del socialismo scientifico che Bernstein elimina. Egli afferma cioè che lo sviluppo capitalistico non andrebbe incontro a un crollo economico generale. Ma con ciò egli non nega semplicemente quella certa forma di rovina del capitalismo, ma il fatto stesso della rovina. Egli dice testualmente: «Si potrebbe obiettare ora che, quando si parla del crollo della società odierna, si ha in mente qualche cosa di più di una crisi economica generalizzata e più grave delle precedenti, cioè un crollo totale del sistema capitalistico per le sue proprie contraddizioni». E a ciò egli risponde: «Un crollo pressoché contemporaneo e totale dell'odierno sistema produttivo, non diviene, con l'evoluzione progressiva della società, più probabile, ma più improbabile, perché tale evoluzione accresce da un lato la capacità di adattamento e dall'altro, in pari tempo, la differenziazione della industria».

Ma sorge allora il grave problema: perché e come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi? Dal punto di vista del socialismo scientifico la necessità storica della rivoluzione socialista si manifesta anzitutto nell'anarchia crescente del sistema capitalistico, che lo spinge in un vicolo cieco. Se invece si ammette con Bernstein che lo sviluppo capitalistico non va verso la propria rovina, il socialismo cessa di essere obiettivamente necessario. Delle pietre basilari delle sue fondamenta scientifiche rimangono soltanto le due altre conseguenze dell'ordinamento capitalistico: la socializzazione del processo produttivo e la coscienza di classe del proletariato. Bernstein ha presente anche questo quando dice: «La concezione socialista non perde (con l'eliminazione della teoria del crollo) assolutamente nulla della sua forza persuasiva. Perché, che cosa sono, esaminati più da vicino, tutti i fattori da noi annoverati, che hanno contribuito ad eliminare o modificare le vecchie crisi? Fenomeni tutti che rappresentano al tempo stesso premesse, e in parte persino prodromi della socializzazione della produzione e dello scambio».

Ma basta riflettere un momento per dimostrare che anche questo è un sofisma. In che consiste l'importanza dei fenomeni indicati da Bernstein come mezzi capitalistici di adattamento: i cartelli, il credito, il perfezionamento dei mezzi di comunicazione, l'elevamento della classe operaia, ecc.? Evidentemente nel fatto che essi eliminano o per lo meno attenuano le contraddizioni interne dell'economia capitalistica impedendone lo sviluppo e l'inasprimento. Così la eliminazione delle crisi significa la soppressione del contrasto tra produzione e scambio su base capitalistica, il miglioramento della condizione della classe operaia, in parte come tale, in parte in quanto entra a far parte del medio ceto, significa un'attenuazione del contrasto fra capitale e lavoro. Ora, se i cartelli, il credito, i sindacati, ecc. sopprimono le contraddizioni capitalistiche, e quindi salvano dalla rovina il sistema capitalistico, conservano il capitalismo – e perciò appunto Bernstein li chiama «mezzi di adattamento» – come possono rappresentare al tempo stesso «premesse e in parte addirittura prodromi» del socialismo? Evidentemente solo nel senso che essi esprimono più nettamente il carattere sociale della produzione. Ma in quanto la conservano nella sua forma capitalistica, essi al contrario rendono in pari misura vano il passaggio da questa produzione socializzata alla forma socialista. Essi possono quindi rappresentare prodromi e premesse dell'ordinamento socialista in senso soltanto concettuale e non storico, in quanto cioè fenomeni di cui noi sappiamo, sulla base della nostra concezione del socialismo, che gli sono affini, ma che in realtà non solo non portano alla trasformazione socialista, ma anzi la vanificano. Resta dunque unicamente come fondamento del socialismo la coscienza di classe del proletariato. Ma anch'essa è, nel caso specifico, non un semplice riflesso spirituale dei contrasti sempre più acuti del capitalismo e della sua imminente caduta – la quale sarebbe ormai evitata dai mezzi di adattamento – ma un mero ideale, la cui forza di persuasione riposa unicamente sulla sua supposta perfezione. In una parola ciò che noi otteniamo su questa strada è una motivazione del programma socialista mediante la «conoscenza pura», cioè, in parole più semplici, una motivazione idealistica, mentre viene a cadere la necessità obiettiva, cioè la motivazione basata sul corso dello sviluppo materiale della società. La teoria revisionistica si trova davanti a un dilemma. O la trasformazione socialista continua ad essere la conseguenza delle contraddizioni interne dell'ordinamento capitalistico, e allora insieme con quest'ordinamento si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella forma, ne consegue a un certo momento inevitabilmente, ma in questo caso i «mezzi di adattamento» sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta. Oppure i «mezzi di adattamento» sono realmente in grado di impedire un crollo del sistema capitalistico, e quindi di rendere vitale il capitalismo e di eliminare le sue contraddizioni, ma in questo caso il socialismo cessa di essere una necessità storica, e può essere tutto ciò che si vuole, ma non un risultato dello sviluppo materiale della società. Da questo dilemma ne deriva un altro: o il revisionismo ha ragione a proposito dello sviluppo capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società non è più che un'utopia, o il socialismo non è un'utopia, ma allora la teoria dei «mezzi di adattamento», non può essere sostenibile. That is the question questo è il problema.


2. Adattamento del capitalismo

I mezzi più importanti, che secondo Bernstein determinano l'adattamento dell'economia capitalistica, sono il sistema creditizio, il miglioramento dei mezzi di comunicazione e le organizzazioni imprenditoriali.

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Pagina 285

Prefazione a «La questione polacca e il movimento socialista»
[1905]



Habent sua fata libelli — è il motto che si può applicare veramente a questo libro, che è una raccolta di articoli da varie riviste, in diverse lingue e scritti in differenti periodi da diversi autori, sul problema polacco. Esso veramente abbraccia un periodo della storia ideologica del socialismo polacco e dà, di per se stesso, il quadro di un fenomeno abbastanza originale, cioè di un'ampia discussione della stampa internazionale sul problema del programma politico dei socialisti polacchi, discussione che avvenne particolarmente nel 1896 in occasione del congresso dell'Internazionale socialista di Londra.

Non è per caso che il problema dei socialisti polacchi venne portato in campo europeo e sottoposto al giudizio del socialismo internazionale, anche se il reciproco scambio di opinioni sulla tattica dei partiti operai dei diversi paesi diviene ultimamente un'abitudine dell'Internazionale socialista, come ha dimostrato p. es. la storia del Jauressismo, oppure lo sciopero generale del Partito operaio belga nell'aprile 1902, che hanno suscitato una vivace discussione nella stampa tedesca, olandese, russa ecc.

Anzitutto la corrente opportunistica rivelatasi alcuni anni fa in tutto il movimento internazionale, suscitando dappertutto fenomeni analoghi e analoghe azioni difensive dell'ala rivoluzionaria, creò una particolare comunione di idee fra i corrispondenti gruppi di diversi paesi e così, tendendo all'isolamento nazionale e locale e alla dispersione del movimento socialista, condusse, viceversa, al maggiore rafforzamento dei legami internazionali.

Il socialismo polacco però rimane, o per lo meno è rimasto per un certo periodo, in un particolare rapporto con il socialismo internazionale, e ciò a causa della questione nazionale polacca.

È chiaro che le insurrezioni polacche dovevano suscitare, nelle file dei democratici occidentali europei, le più calde simpatie. Ma il problema della democrazia in Occidente era connesso con il problema polacco non solo da sentimenti di simpatia, ma anzitutto da interessi politici. Da quando lo zar della Russia entrò, tramite la Santa Alleanza, nella politica interna europea come un gendarme della reazione internazionale, i democratici francesi, e ancor più quelli tedeschi, dovevano fare i conti con lui come con il proprio nemico, e paralizzarlo era condizione di successo della rivoluzione europea. Ma nella Russia stessa, nell'interno della società russa non erano ancora visibili fenomeni rivoluzionari. I primi sintomi del genere all'inizio e alla metà del XIX secolo e anche più tardi – il movimento dei decabristi e l'attentato di Karakozov – sembravano infatti scoppiare solo per diradare per un momento le tenebre senza speranza della stagnante barbarie sociale dello zarismo. È chiaro perciò che le insurrezioni armate polacche si presentavano agli occhi dell'Occidente come l'unico fattore rivoluzionario e ciò nel senso che impegnavano le forze dell'assolutismo russo e proteggevano la causa della rivoluzione democratica in Occidente.

[...]


Questo risultato immediato della nostra critica dimostra subito in quale larga misura nella questione polacca le tradizioni, sulle quali la corrente socialpatriottica aveva fondato la sua esistenza nel movimento internazionale, erano in fondo sopravvissute e in quale larga misura si sono trovate in contrasto con gli interessi reali del movimento operaio. Ciò si è rivelato anzitutto nel fatto che il porre il problema della ricostruzione della Polonia nel campo della politica pratica del proletariato toccava necessariamente tutta una serie di altre questioni internazionali e perciò ha suscitato una serie di problemi che non esistevano nei tempi precedenti, in quelli della Nuova gazzetta renana e della rivoluzione del 1848. Dunque sorgeva subito la questione: se il proletariato internazionale deve riconoscere come compito della politica socialista la ricostruzione nazionale dello Stato polacco, perché non dovrebbe riconoscere in uguale misura, come compito della socialdemocrazia, la separazione dell'Alsazia e Lorena dalla Germania e la loro restituzione alla Francia, ed anche appoggiare la tendenza nazionalista italiana, che voleva riacquistare Trento e Trieste, e le tendenze separatistiche in Cecoslovacchia, ecc.?

D'altra parte il riconoscimento della tendenza delle organizzazioni socialiste polacche a separarsi da quelle dei paesi occupanti, e reciprocamente la tendenza ad unire il proletariato dei tre territori polacchi occupati in un unico partito operaio hanno suscitato un'intera serie di problemi di natura organizzativa. In Germania si trovano, oltre alla popolazione tedesca, anche molti danesi, francesi, alsaziani, e, nella Prussia orientale, lituani. La conseguenza del principio della direzione socialpatriottica relativamente al proletariato polacco, sarebbe la frattura della socialdemocrazia unita della Germania in tanti partiti separati, secondo le frontiere nazionali. E le stesse conseguenze sorgerebbero in vari altri paesi, perché nessuna fra le più grandi nazioni moderne possiede un'unità nazionale effettiva. L'accettazione quindi del programma socialpatriottico provocherebbe una revisione fondamentale della attuale posizione della socialdemocrazia internazionale, un allontanamento nel programma, nella tattica e nei principi organizzativi da posizioni puramente politiche e di classe a posizioni nazionalistiche.

Bastava dunque indicare queste conseguenze e tutto questo conglomerato di problemi, legati al socialpatriottismo, perché il problema divenisse, da strettamente polacco, veramente internazionale e attirasse direttamente nella discussione anche i compagni tedeschi, italiani e russi.

[...]


Si parla spesso e molto del «dogmatismo» della scuola di Marx. Ecco, la revisione delle opinioni sulla questione polacca fornisce un esempio evidente di come questa accusa sia superficiale. Il socialpatriottismo polacco veramente si è sforzato per un certo periodo, di «trasformare» una particolare opinione di Marx che appartiene al campo della politica contingente in un vero dogma, immutabile in tutti i tempi, indipendente dallo sviluppo delle condizioni storiche e non sottoposto a dubbi né a critica, appunto perché «lo stesso Marx» l'aveva espressa una volta. Ma tale abuso del nome di Marx, per la santificazione di una direzione che rimaneva in tutta la sua essenza in lampante contraddizione con le idee e l'insegnamento del marxismo, poteva sussistere solo come una mistificazione temporanea, calcolata anzitutto per provocare l'abbrutimento mentale dell'intellighenzia nazionalista polacca.

Perché l'essenza del marxismo sta non in questa o quella opinione sui problemi correnti, ma solo in due fondamentali principi: il modo dialettico-materialistico di studiare la storia, di cui una delle conclusioni cardinali è la teoria della lotta di classe, e l'analisi dello sviluppo dell'economia capitalistica. Questa ultima teoria – la spiegazione dell'essenza e della nascita del valore, del plus-valore, del denaro e del capitale ed anche della concentrazione dei capitali e della crisi – è essa stessa soltanto una geniale applicazione della dialettica e del materialismo storico all'epoca dell'economia borghese. L'anima dunque di tutta la dottrina di Marx, la sua radice, è il metodo dialettico-materialistico nell'esame dei problemi della vita sociale, quel metodo per il quale non esistono i fenomeni, i principi e i dogmi costanti e immutabili; che ha come motto, nelle questioni della società umana, l'osservazione mefistofelica: Vernunft wird Unsinn, Woblthat Plage; secondo cui ogni «verità è sottoposta a costante ed implacabile critica da parte del reale sviluppo storico».

Perciò la socialdemocrazia polacca ha considerato fin dall'inizio come suo compito non di ricercare nelle opinioni antiquate di Marx la sanzione delle vecchie parole d'ordine nazionaliste, ma di applicare il metodo stesso e i principi fondamentali della dottrina marxista alla situazione sociale in Polonia. Nel patrimonio teorico del socialismo polacco essa ha trovato a questo proposito tabula rasa. I primi promotori del movimento operaio polacco, Warynski e compagni, che introdussero le opinioni del socialismo scientifico nel nostro paese, si incontrarono pure con i residui delle ideologie nobiliari nazionali e con la teoria del lavoro organico come forma vigente dell'ideologia sociale. Come rappresentanti degli interessi della nuova classe del proletariato, dovevano anzitutto occuparsi dell'eredità ideologica delle classi dominanti ed hanno risolto il loro compito nel senso che, senza riflettere, hanno considerato le teorie e i movimenti nazionali polacchi fin allora esistenti come espressione degli interessi egoistici e di classe della casta dei nobili, ed hanno considerato la teoria del «lavoro organico» come espressione non meno materiale e strettamente di classe degli interessi economici della nostra borghesia industriale. In questa maniera i socialisti polacchi, alla fine degli anni '70 e agli inizi degli anni '80, hanno aperto la strada, nel nostro paese, alla teoria dei contrasti di classe, combattendo sia il nazionalismo dei nobili, sia l'«organicità» borghese, come le teorie dell'armonia degli interessi di tutti i ceti sociali. Questo fatto ha introdotto in Polonia l'analisi generale marxista della società capitalistica insieme con le sue conseguenze – la lotta di classe del proletariato e il programma socialista. Ed è questo il gran merito storico di Luigi Warynski, Dickstein e compagni.

Tuttavia contrapponendo in questo modo ai programmi politici delle classi dominanti in Polonia la rivoluzione socialista come compito diretto del proletariato polacco, essi lasciavano il movimento operaio senza nessun programma politico, e ponevano il socialismo sulla base dei complotti e dell'utopia, in altri termini condannavano il movimento socialista a vegetare nello stretto ambito di una setta e in breve a sparire.

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Questa meccanica e superficiale riduzione del complesso dei rapporti sociali e borghesi della Polonia, ad una questione di «mercati» di vendita e la riduzione della tendenza oggettiva del processo storico alle volontà, alle paure e preoccupazioni soggettive dei socialisti, hanno dimostrato che nelle teste dei socialpatrioti si riflettevano la teoria del marxismo storico e tutta la scienza di Marx nella stessa maniera caricaturale che nelle teste dei critici borghesi, i quali «annullavano» periodicamente la dottrina marxista per mezzo di proprie distorsioni e la trasformavano in un mostruoso fantasma. Che la sola esposizione di tal genere di argomenti nella stampa polacca e in articoli simili della stampa tedesca fosse possibile da parte della tendenza che voleva essere considerata in Polonia come la tendenza socialista, questo semplice fatto dava una terrificante testimonianza del livello mentale degli ambienti dell'intellighenzia polacca socialista. Qui ha trovato espressione l'educazione spirituale pluriennale della nostra intellighenzia «radicale» basata sulle volgari e meccaniche teorie di Limanowski, sulla insipida «zuppa da mendicanti» socialista, come dicono i tedeschi, che porta il nome di «teorie sociali del XVIII e XIX secolo» e sulla edizione grossolana e «ultrarivoluzionaria» del socialismo, coltivata particolarmente dopo l'anno 1885 sulle pubblicazioni fatte all'estero del fu «Proletariat»: su Walka Klas e su Przedswit. Ha trovato qui espressione il fatto che, nel caso migliore, si insegnava all'intellighenzia polacca a credere in maniera socialista, ma non a pensare nello spirito del socialismo scientifico.

Così come in Germania o in Francia, nelle discussioni tra i marxisti e gli avversari borghesi, si sente subito che i partecipanti alla discussione sono fra loro dei «barbari», cioè separati non da una differenza di singole opinioni, ma da tutto il modo di pensare, da una diversa visione del mondo, allo stesso modo la discussione con il socialpatriottismo poteva essere paragonata ad una torre di Babele. Le sue repliche fin dall'inizio erano caratterizzate dal tipico tono di irritazione e rancore, che risuona generalmente nelle risposte degli antagonisti borghesi del marxismo.

I socialpatrioti polacchi hanno questo in comune con tutti gli utopisti piccolo-borghesi, che considerano la scoperta dei fatti storici sgradevoli per le loro utopie come una personale indegnità di coloro che fanno queste scoperte. Non sono capaci di capire a nessun costo che si tratta in questi casi anzitutto della «indegnità» del processo storico oggettivo e non di coloro che ne denunciano la sua tendenza, e che questo indegno processo non cessa di agire se si chiudono gli occhi. Non sono neanche capaci di capire che non si può qui trattare nemmeno della «indegnità» della storia, perché il processo storico dialettico ha questo in sé, che di solito minando e togliendo qualche tradizionale forma di soddisfacimento delle esigenze sociali, crea nello stesso tempo nuove forme per soddisfarle. Invece quegli «interessi» cui lo sviluppo sociale non dà assolutamente le garanzie economiche, sono in fondo, se guardati da vicino, interessi arretrati, falliti, oppure «interessi» immaginari.

Quando i democratici tedeschi e francesi, nel 1848, dichiaravano la loro posizione verso la questione polacca, essi prendevano in considerazione da una parte l'effettivo movimento nazionale della nobiltà polacca, dall'altra guardavano solamente agli interessi della propria politica democratica. Verso il movimento socialista polacco non avevano e non potevano avere riguardi, perché tale movimento allora non esisteva. Oggi, per noi come socialisti polacchi, anzitutto è importante, per prendere posizione di fronte a qualunque fenomeno sociale, la domanda come tale posizione reagirà sugli interessi di classe del proletariato polacco. L'analisi dell'oggettivo sviluppo sociale della Polonia conduce alla conclusione che le tendenze alla ricostruzione della Polonia sono oggi un'utopia piccolo-borghese, e come tali sono capaci solo di turbare e condurre su una falsa strada la lotta di classe del proletariato. Perciò oggi la socialdemocrazia polacca rigetta la posizione nazionalista per gli interessi del movimento socialista polacco, e cioè prende una posizione addirittura contraria a quella dei democratici occidentali di qualche tempo fa. Perché lo stesso processo di sviluppo storico ha fatto della ricostruzione della Polonia una utopia in contrasto con gli interessi del socialismo in Polonia, ha proposto per soddisfare gli interessi democratici internazionali, nuove soluzioni su questo punto. Se l'idea di fare della Polonia indipendente un cuscinetto ed uno scudo difensivo per l'Occidente contro la reazione dello zarismo russo è diventata irrealizzabile, allora lo sviluppo capitalistico, che ha seppellito questa idea, ha creato invece, in Russia come in Polonia, un movimento di classe rivoluzionario del proletariato unificato e con esso un nuovo molto più coraggioso alleato dell'Occidente che può non solo proteggere meccanicamente l'Europa dall'assolutismo, ma minarlo e distruggerlo.

Anche questa soluzione non è in contrasto con gli interessi nazionali del proletariato polacco. Gli interessi reali di questo, che esigono libertà, lo sviluppo nazionale della cultura, l'uguaglianza dei cittadini, l'abolizione di ogni genere di oppressione nazionale, trovano la sola possibile espressione, esauriente e nello stesso tempo efficace, nelle tendenze generali di classe del proletariato verso una più larga democratizzazione dei paesi occupanti, della quale l'autonomia nazionale è parte integrante e naturale. E il bisogno di avere inoltre un apparato statale indipendente e di classe, che è un'arma di oppressione della classe operaia, è, nelle condizioni esistenti, di fronte all'utopismo di questa tendenza, solamente un interesse immaginario degli operai, mutuato da una concezione piccolo-borghese del mondo, estranea tanto ai reali interessi di classe del proletariato quanto insomma al modo di pensare conforme al socialismo scientifico.

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Ma la socialdemocrazia non è criticata solo per il «dogmatismo», ma anche spesso per il «dottrinarismo», cioè per quella ristrettezza mentale che cerca di costringere per forza nella rigida cornice di uno schema il largo e infinitamente vario mondo dei fenomeni sociali e non riconosce altro che «gli interessi materiali», rimanendo sorda e cieca davanti ad altri fenomeni spirituali d'ordine più alto, come per esempio, i sentimenti nazionali.

La teoria marxista può rivolgersi a simili critici con le parole di Goethe: «Ihr gleicht der Geist, dem Ihr begreift, nicht mir».

Quelli appunto che brontolano contro il suo «dottrinarismo» trasformano la visione del mondo della socialdemocrazia in una dottrina limitata che soffoca lo spirito. Invece il marxismo nella sua essenza è una teoria universale che maggiormente feconda il pensiero e offre allo spirito le ali, una teoria ampia come il mondo, flessibile e ricca nei colori e nelle sfumature come la natura stessa, che spinge alla azione, che pulsa di vita come la giovinezza medesima. Solo questa teoria permette di capire gli indovinelli della storia passata e di indovinare il futuro sviluppo sociale e in questo modo, «sfiorando con l'ala sinistra il passato, con la destra il futuro», permette nel presente una feconda azione veramente rivoluzionaria.

Perché rendersi conto delle effettive tendenze dello sviluppo storico non ci libera dalla partecipazione attiva alla nostra propria storia sociale, e non permette, mettendo le mani fatalisticamente sul petto, di aspettare come il fachiro indiano, quello che ci porterà il futuro. «Gli uomini stessi fanno la loro storia, ma non secondo la loro libera fantasia» (aus freien Stücken), come dice Marx. Con pieno diritto si può rivolgere questa frase in direzione opposta: gli uomini non fanno la loro storia secondo la propria fantasia, la fanno però essi stessi. Il fatto di prendere in considerazione la tendenza del processo storico oggettivo non smussa e non paralizza l'attiva energia rivoluzionaria, anzi risveglia e tempra la volontà e l'azione, indicandoci le vie sicure per le quali possiamo efficacemente spingere la ruota del progresso sociale, difendendoci dallo sbattere la testa contro il muro in maniera inutile e disperata, cui segue, prima o poi, la delusione, la disperazione e il quietismo, difendendoci anche dal considerare come azioni rivoluzionarie quelle tendenze, che lo sviluppo sociale già da tempo ha trasformato in reazionarie.

Solo il marxismo è in grado di spiegarci, come il lettore vedrà da certi saggi contenuti in questo libro, sia la strana misteriosa storia della nostra società nell'ultima metà del secolo, sia le più sottili sfumature della sua fisionomia spirituale e della sua ideologia. Perché veramente solo per gli spensierati spacconi può non essere un indovinello il fatto che una società eccezionalmente soggiogata, maltrattata così sistematicamente nei suoi più elementari diritti nazionali, soffocata così brutalmente nella sua vita spirituale e culturale, non solo abbia rinunciato da cinquant'anni alla lotta armata per l'indipendenza, ma anche ad ogni tendenza verso le forme europeo-liberali dell'esistenza, ad ogni attiva opposizione contro il barbaro oppressore. Solo gli uomini «che fanno» la rivoluzione e «l'insurrezione» fra gli alunni di ginnasio possono sbrigare problemi storici di tale importanza attribuendo a certe classi e ceti della società il marchio di «conciliatori» e possono parlare di un «pugno» di rappresentanti della conciliazione, senza capire, che appunto questo «pugno» di conciliatori, e non un pugno di utopisti piccolo-borghesi, che discutono di cannoni e di insurrezione, rappresenta tutta la Polonia borghese e la sua attuale sorte nelle effettive condizioni dello sviluppo materiale della nostra società. Per un ricercatore marxista soltanto la comprensione precisa delle più profonde e interne molle di questo vergognoso passato e degli attuali tempi della società borghese polacca poteva dare la chiave per prevedere la direzione della via lungo la quale conduce la storia del nostro paese e la sua lotta di classe. La comprensione non velata e non oscurata da nessun utopismo romantico delle cause della caduta della Polonia nobile delle insurrezioni, e delle cause della vergognosa storia della Polonia borghese, capitalistica, ha dato la possibilità di prevedere questa rinascita rivoluzionaria della Polonia operaia, di cui oggi siamo testimoni. E la comprensione delle vie dello sviluppo del problema di classe e del problema nazionale ha dato e dà la possibilità di indicare oggi questo unico fatto veramente rivoluzionario consistente nell'impegnare la coscienza nell'impetuoso processo storico, cioè nella possibilità di abbreviare e affrettare il processo stesso.

Fra la lotta di classe del proletariato e il problema nazionale c'è da noi, senza dubbio, uno speciale rapporto storico. Ma non nel senso che vorrebbero i socialnazionalisti, che considerano il moderno movimento del proletariato come un capro espiatorio al quale si può imporre la rivendicazione dei debiti morali della nobiltà e della piccola borghesia vanificati già nella storia e il pagamento di tutti i debiti delle classi fallite. Questo rapporto ha tutt'altro significato, e nello spirito della lotta di classe del proletariato polacco il problema nazionale prende tutt'altra forma che nelle aspirazioni della nobiltà e della piccola borghesia.

Da noi, alla classe operaia il problema nazionale non è e non può essere estraneo, non può essere indifferente l'oppressione più insopportabile nella sua barbarie, l'oppressione della cultura spirituale della società. Il fatto constatato per l'onore dell'umanità in tutti i tempi è questo, che neanche la più disumana oppressione degli interessi materiali può suscitare così fanatica, infiammata ribellione e odio come l'oppressione della vita spirituale: l'oppressione religiosa e nazionale. Ma di eroica ribellione e sacrificio per difendere questi beni spirituali è capace appunto solo la classe rivoluzionaria, così dal punto di vista materiale come da quello sociale.

Adattarsi all'oppressione nazionale, sopportarla con l'umiltà del cane poteva da noi la nobiltà, forse la borghesia, cioè le classi possidenti e oggi radicalmente reazionarie nei loro interessi, le classi che sono una vera immagine di questo grossolano «materialismo» dello stomaco in cui si trasforma solitamente nei cervelli dei nostri pubblicisti casalinghi la filosofia materialistica di Feuerbach-Marx. Il nostro proletariato, come classe che non possiede nella attuale società «beni terreni», è chiamato dallo stesso sviluppo storico alla missione di rovesciare tutto il sistema esistente, cioè come classe rivoluzionaria deve risentire e risente l'oppressione nazionale come una bruciante ferita, come una vergogna fino a quando questa ingiustizia sia come una goccia nel mare della miseria sociale, della inferiorità politica, della diseredazione spirituale che è la sorte del mercenario del capitalismo nell'attuale società.

Non risulta, da quanto abbiamo detto, che il proletariato sia stato capace, come ancora lo desidera da noi lo spirito errante del debole nazionalismo piccolo-borghese, di assumersi il compito storico della nobiltà: rinsaldare la Polonia in uno Stato di classe a cui la nobiltà stessa ha rinunciato e che la nostra borghesia con il proprio sviluppo ha reso impossibile. Ma il nostro proletariato può e deve combattere in difesa della nazionalità, come una specifica, distinta cultura spirituale, che ha propri diritti di esistenza e di sviluppo. E oggi la difesa della nazionalità nostra è possibile non attraverso il separatismo nazionalistico, ma solamente attraverso la lotta per il rovesciamento del dispotismo e per ottenere in tutto il paese quelle forme di vita culturale e cittadina, di cui gode da molto tempo l'Europa occidentale.

Dunque lo stesso movimento puramente di classe del proletariato polacco, che è cresciuto assieme con il capitalismo sulla tomba dei movimenti di indipendenza, è la migliore e unica garanzia per acquistare, con la libertà politica, la libertà nazional-culturale, l'uguaglianza civile e l'autonomia per il nostro paese. Allora già dal punto di vista puramente nazionale tutto ciò che accresce e affretta questo movimento operaio di classe deve essere considerato come un fattore patriottico, nazionale, nel senso migliore ed essenziale. Invece, tutto ciò che pone barriere ed ostacoli allo sviluppo di questo movimento di classe, tutto ciò che è capace di ritardarlo oppure di deformarlo deve essere considerato come un fattore dannoso e nemico della causa nazionale. Da questo punto di vista la cura delle tradizioni del vecchio nazionalismo e lo sforzo di distogliere la classe operaia polacca dal cammino della lotta di classe per condurla sulla strada sbagliata dell'utopistica ricostruzione della Polonia, che è stata l'attività del socialpatriottismo per dodici anni, è, in fondo, una politica profondamente antinazionale, malgrado il suo carattere nazionalistico.

La socialdemocrazia, che naviga sotto le ali del socialismo internazionale, porta in Polonia, sulla sua nave, il tesoro della causa culturalnazionale e questo è il risultato attuale della dialettica storica, che appunto il metodo marxista dell'analisi sociale ha permesso di capire, prevedere e condurre nell'azione.

Berlino-Friedenau, maggio 1905

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