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| << | < | > | >> |Pagina 11Era appena calata l'oscurità quando Matthew Peoples lo vide per la prima volta. La sua figura massiccia si ergeva in mezzo al campo, il braccio girato all'indietro per grattarsi la spalla. Indossava una canottiera grigia e sporca e, in silenzio, si stava interrogando perplesso su quanto aveva appena visto. Sembrava la coda di un gatto arrotolata verso il cielo, sottile e grigia, come fumo confuso dal peltro delle nuvole. La notte scendeva lenta e nella luce del giorno morente avrebbe potuto non coglierlo, un fremito giallo che rivestiva con un bagliore dorato la campagna del Carnarvan. Tre figure umane nel campo e un trio di ombre che si restringevano accanto a loro. La puledra baia si era placata.Matthew Peoples era solito non proferire parola finché non aveva finito di lavorare, e non parlava molto neanche dopo; aspirava la sua pipa, si accomodava sulla sedia e faceva una battuta a bassa voce. Poi si schiariva la gola per parlare, ma le sue parole cadevano nel vuoto. Allora si piegava di nuovo per lavorare, i peli delle sue mani erano bianchi come l'ombra delle sue mandibole, gli occhi logori affossati nelle orbite lo facevano apparire più vecchio di quello che era. Mani arrossate che sollevavano pietre conficcate là da chissà quanto tempo, strette nella terra, che adesso giacevano ai margini del campo. Matthew Peoples stava camminando dietro al cavallo. Aveva otto anni, la bestia, e dentro di lei c'era qualcosa di irrequieto. Quella mattina, quando l'aveva fatta uscire dalla stalla, si era impuntata nel cortile cercando di scappare, annusando l'aria con intransigenza. Sta' buona, le aveva detto. E aveva creduto di percepire un'agitazione in lei, un sussulto sotto la sua pelle, e per un istante l'aveva osservata, sondando la sfera di vetro scura del suo occhio, in cui si allungava il riflesso distorto di sé stesso. Aveva sbattuto più volte le sue palpebre pesanti e abbassato lo sguardo come se stesse sognando qualcosa a occhi aperti, poi aveva piegato un ginocchio, come se ciò che la turbava fosse soltanto un'illusione. Non aveva alcuna esperienza con i cavalli, ma l'aveva raccontato a Barnabas Kane, che si era limitato ad accennargli un sorriso. Se un giorno non starà bene troverà il modo di fartelo sapere, aveva detto. Forse è proprio quello che ha fatto. Matthew estrasse dal terreno una pietra dalla forma strana e si soffermò a ripulirla dalla fanghiglia. Non gli sembrava una pietra come le altre, ci sputò sopra e se la strofinò sui pantaloni. Aveva quasi la forma di un disco, come quell'utensile del neolitico che una volta aveva visto estrarre da un campo. Si chiese se non fosse proprio quello, un oggetto piatto e liscio, modellato da antiche mani e quasi perfetto ai suoi occhi. Cercò con lo sguardo il figlio di Barnabas per mostrargliela, ma il giovane Billy era preso dai suoi pensieri e non l'aveva neanche visto. Il ragazzo se ne stava vicino al cavallo, con una mano avvolta in un lembo della camicia. Poco prima si era graffiato con lo spigolo di una bottiglia spezzata che sporgeva dal terreno. Matthew non insistette e si infilò la pietra in tasca. La corda blu che gli serviva da cintura si era allentata; strinse il nodo e riprese a lavorare. Un sentimento cominciò allora a tormentarlo, come una lingua sconosciuta giunta da un luogo in cui le cose sono presagite ma ancora indistinte, e il suo sguardo si volse un po' più in là, verso Barnabas, che si era fermato per sistemare le briglie del cavallo.
Tarchiato e con i muscoli tesi sotto la maglietta infangata, la
sua postura emanava un barlume di energia. La posizione di
un uomo solitamente inquieto. Un uomo incline a riflessioni
profonde ma incapace di esprimerle. Accanto a lui, la sagoma smilza di Billy,
nel pieno sviluppo dei suoi quattordici anni, col viso imbronciato.
Nelle orecchie aveva la musica delle api e poi il silenzio della casa. Eskra Kane era nell'atrio, magra nel suo grembiule blu che ricordava quasi il colore dei suoi occhi. Si tolse il cappellino, una veletta da apicoltrice avvolta come un drappo da sposa, e lo appese in cima alla rampa delle scale; i capelli castani le scivolarono sul viso. La luce gialla risplendeva nel soggiorno e faceva brillare il legno scuro del pianoforte. Fece un sospiro. Giorni come questi prosciugavano l'umidità delle ossa, liberando il cuore dal giogo dell'inverno. Quand'era arrivata in Donegal insieme a Barnabas, il piccolo Billy stava appena imparando a parlare. La gente del luogo li guardava con diffidenza e il vento soffiava feroce, impetuoso. Soltanto Barnabas capiva cosa dicessero. Per lei non era altro che una regione povera e selvaggia, una visione molto più oscura di quella conservata dai suoi genitori, emigranti della contea di Tyrone che avevano fatto la traversata fino a New York per costruirsi una nuova vita. Attorno a sé non vedeva altro che desolazione e umidità, un tormento da combattere incessantemente. Le prime notti non riusciva a prendere sonno e ascoltava la pioggia e il vento accanto a Barnabas; altre notti, quando gli elementi sembravano cessare del tutto, nel silenzio sentiva un vuoto dentro di sé. Questo luogo dal quale suo marito, rimasto orfano, era stato cacciato. Aveva imparato a trovare conforto in rare serate come quella, a consolarsi guardando il figlio crescere come un autoctono in un paese che gli apparteneva di diritto. Il ticchettio del forno della cucina. L'odore di torba e il profumo di stufato che cuoce. Un tenue aroma di lavanda. Un mare di briciole rimaste come sempre dove aveva mangiato Matthew Peoples, con le sue grandi mani lente che si avvicinavano al pane nero per prenderne un pezzo. Ripulendo la tavola si accorse che la pagnotta era quasi finita. Presto sarà l'ora di accendere le lampade. Nella stanza, il crepuscolo cesellava ombre che si allungavano come un piccolo zoo di bestie scure al risveglio. | << | < | > | >> |Pagina 29La stalla era bruciata senza che avessero potuto far niente, ma prima che il fuoco raggiungesse la casa il vento aveva deciso di virare. Nessuno aveva accennato ai muggiti agonizzanti delle bestie, né aveva detto che le ossa di un uomo si erano mescolate a quelle degli animali. Il rogo aveva reso ancora più fitte le tenebre intorno a loro e, mentre l'oscurità aumentava, le bestie si erano placate. Gli uomini avevano cercato conforto nelle loro donne. Qualcuno aveva preparato del tè e le tazze erano circolate di mano in mano. Si erano dissetati rapidamente, pulendosi gli occhi dalla polvere e dal sudore con asciugamani anneriti. Eskra andava da una parte all'altra. Barnabas era rimasto in cucina sotto le cure del dottore. Tutti sentirono crollare la stalla, un suono simile all'ultimo rantolo di una creatura titanica, ormai svuotata della sua forza vitale. Le travi rimaste in piedi cedettero con un sussulto, e poi fu tutto finito. Si alzò un fremito di polvere scura e il bagliore ambrato delle scintille si fuse nel cielo consumandosi in una neve nera. Il boato di un muro che franava li fece indietreggiare e alcuni di loro rimasero senza fiato. Santo cielo, disse un uomo. Gli altri andarono a vedere. Pensarono tutti che nessun animale potesse essere sopravvissuto, ma i loro occhi erano stati colpiti da una visione di forme oscure e sfocate che affioravano dalla stalla, rischiarate soltanto dalle fiamme che le divoravano trasformandole in sagome spettrali, tra lo strano silenzio degli animali. Barnabas si era divincolato dal dottore per uscire fuori a guardare. Aveva visto le bestie ancora vive riversarsi dal muro sfondato; alcune vacillarono prima di crollare a terra, altre fuggivano alla cieca, creature viventi sparpagliate nella notte come i detriti di un'esplosione al rallentatore. Le bestie in fiamme sbattevano contro i muri con un tonfo sordo e patetico, o terminavano la propria corsa in silenzio contro un albero. Una mucca era collassata su un cespuglio di ginestroni incendiato, emettendo bagliori gialli e purpurei, e quando l'arbusto si era spento la bestia aveva continuato a bruciare lentamente, mentre alcuni animali non correvano affatto, ma erano stramazzati a terra sotto il cielo muto, con la pelle arsa dalle fiamme. Barnabas si era girato verso il dottore stringendogli il braccio, e aveva cercato di dire qualcosa. Aveva sussurrato qualche parola. Come se i cancelli neri dell'Inferno si fossero appena spalancati.| << | < | > | >> |Pagina 44Disteso sul letto, rannicchiato su un fianco, tossì e lasciò vagare la mente sulla sua vita precedente. Pensò a com'era stato uno dei pochi a ritornare dall'America, quel vuoto che li aveva inghiottiti tutti. A com'era andato in senso contrario al movimento della Storia. Era tornato a trentatré anni portandosi dietro una moglie e un figlio, con la dura luce della conoscenza negli occhi. Erano trascorsi dodici anni ormai. Aveva imparato tutto sull'acciaio, ma sapeva ben poco del mestiere di contadino. Il suo ardore e i suoi ideali gli sembravano sufficienti. Tornare nel luogo delle sue origini. Costruire qualcosa di nuovo in questo paese, come aveva fatto a New York. Da giovane, sradicato dal suo universo familiare, si era imbarcato per l'America con i suoi immensi occhi scuri che gli segnavano il volto. Ogni tanto si poteva cogliere ancora un senso perenne di inquietudine nella sua anima, e sebbene cercasse di nasconderlo, forse ciò che la gente leggeva nel suo sguardo era il marchio indelebile del dolore. Sua madre si era arresa per prima alla tubercolosi, e suo padre poco dopo. Orfano, senza fratelli né sorelle, era stato ospitato da una zia che non aveva figli e che l'aveva sempre fatto sentire un intruso. Ben presto era stato mandato in America con una lettera indirizzata a suo cugino, nel 1915, mentre i ragazzi poco più vecchi di lui si dirigevano a oriente, dall'altra parte del mare, a combattere i barbari. A Brooklyn era andato a vivere da un parente che non conosceva ed era stato subito messo a trasportare sacchi di carbone finché le sue mani non si erano annerite, non era più riuscito a togliere lo sporco sul suo viso indelebile e dormire era diventato l'unico sollievo. In una mattina buia, a sedici anni, si era alzato dal letto in silenzio per avventurarsi tra le ombre della strada, dalle quali non avrebbe più fatto ritorno.Quando chiese il suo parere sulla causa dell'incendio, lei rispose che non lo sapeva. Lui insistette, Queste cose non accadono da sole, vero? Non c'era assolutamente niente che potesse innescarlo. Non riesco proprio a capire. Rimase in silenzio per un po', lo osservò gironzolare per la cucina, col pugno sulla guancia, tirando boccate dalla sua sigaretta. Come diavolo ha fatto quell'incendio a distruggere un'intera stalla e a cancellare tutto quello che avevamo? Le nostre bestie. Schioccò le dita. Così, dal nulla. Cosa abbiamo fatto per meritarcelo? Ho sempre rispettato le regole, facendo quello che mi avevano detto di fare per la sicurezza. Ho anche spostato il tiglio, quella catasta che avevo lasciato nella stalla. Matthew Peoples mi aveva detto che rischiava di essere infiammabile, in certe condizioni. Quel dannato bugiardo. Adesso è disteso laggiù, accanto all'orto, bagnato di pioggia e cosparso di fango. Non era abbastanza secco perché il fieno potesse incendiarsi. Sono stato fuori tutta la giornata e non ho visto neanche un fulmine nel cielo. Non lo so, Barnabas. Proprio non lo so. Secondo me non può essere stato altro che un incidente. Ma a che serve rimuginarci sopra? Ciò che è stato è stato. Bisogna andare avanti, non abbiamo altra scelta. Cominciò a tossire, poi si fermò e riprese a parlare. È stato qualcuno ad appiccare il fuoco, sono sicuro. Sta' zitto, Barnabas. Stai diventando pazzo. Come fai a dire una cosa del genere? Eskra sospirò. Barnabas, non possiamo fare niente per cambiare le cose. Guardandolo, sentì un nodo alla gola. Chiederemo un risarcimento all'assicurazione e ricostruiremo tutto, meglio di prima. Si voltò di scatto verso sua moglie. Non sono stato invitato a casa dopo i funerali. Tu invece avresti dovuto andarci, Eskra, con il ragazzo. No, Barnabas, ho visto come ti hanno trattato. Lui rimase a fissare il muro per un istante, come se si fosse aperto davanti ai suoi occhi per rivelargli una scintillante verità. Eskra, pensano tutti che sia stato io a ucciderlo. | << | < | > | >> |Pagina 54Troppo spesso passava le giornate stravaccato sulla sedia della cucina, perdendosi nella rete dei suoi ricordi o immergendosi in un sonno agitato. Eskra lo osservava sonnecchiare con la bocca aperta e la faccia riposata, e in quei momenti le sembrava quasi di guardare un altro uomo; ciò che irrigidiva i suoi lineamenti adesso scivolava via impercettibile. Avrebbe voluto parlargli. Una farfalla di luce proveniente dall'ingresso carezzò la sua guancia oscurata dalla barba, e d'un tratto lei lo rivide com'era da giovane. Un ragazzo di sedici anni che aveva iniziato a lavorare nei cantieri dei grattacieli, un mestiere pieno di pericoli; si comportava come una specie di uomo-divinità che non sa di esserlo e tira avanti come se niente fosse. Malgrado la sua inesperienza si era unito agli indiani Mohawk, i più coraggiosi tra gli uomini, e agli irlandesi che erano abbastanza spericolati da salire lassù. L'esplosione edilizia di New York. Con il loro acciaio rimodellarono il cielo, passeggiando sulle travi come gabbiani. Sotto di loro, le strade di Manhattan sembravano le immagini in rilievo di un libro illustrato che si sarebbe potuto richiudere con le mani. Lui ascoltava il silenzio del cielo sotto al frastuono dell'acciaio, la forza sibilante del vento simile al respiro delle stelle. Le nuvole mute che andavano alla deriva lastricando la città di ombre. Lavoravano come angeli impavidi, quegli uomini, e il rumore infernale che producevano si innalzava verso il cielo, un'entità demoniaca che deformava l'aria e intimidiva anche gli uccelli. I gabbiani si appoggiavano al vento per osservare quelle insolite creature a cavalcioni sulle travi, o che lavoravano in gruppi di quattro su impalcature che a malapena avrebbero sostenuto due di loro. Le aveva descritto tutti i loro gesti, il fuochista che gettava il carbone in una minuscola fornace dalla quale prelevava i chiodi fumanti, con il viso accartocciato dal calore, per poi lanciare in aria il pezzo d'acciaio incandescente che un altro uomo infilava in un barattolo di latta, mentre un altro ancora estraeva i chiodi provvisori. La trave con il suo orifizio aperto in attesa di essere arroventata e saldata. Il chiodo stridente che veniva afferrato con le pinze e inserito nella cavità. Come si prodigava con il suo martello pneumatico, il chiodo ammorbidito dal calore, la punta del gambo schiacciata per saldare tutto insieme. Inginocchiato sulla terra come se fosse sua.| << | < | |