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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione: L'autobus sbagliato 11 1 La contadina di Yaoundé 17 2 Una dolorosa eredità 35 3 I pilastri del buon governo: lo sgabello a tre gambe 61 4 Gli aiuti e la sindrome della dipendenza 77 5 Indebitamento e commercio iniquo 99 6 La leadership 131 7 La macchina sociale 151 8 La cultura: l'anello mancante? 185 9 La crisi dell'identità nazionale 211 10 L'importanza delle micro-nazioni 241 11 La proprietà della terra 259 12 Ambiente e sviluppo 273 13 Salvare le foreste del Congo 297 14 La famiglia africana 313 Note 331 Bibliografia 349 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Per trent'anni ho lottato in prima linea, tentando insieme ad altri di abbattere il muro che separa i popoli africani dalla giustizia, dalla ricchezza, dalla pace e dal rispetto. Abbiamo cercato una via d'uscita dalla povertà, dall'ignoranza, dalle cattive condizioni di salute e dalle morti premature, dalle violazioni dei diritti più elementari, dalla corruzione, dal degrado ambientale e dai molti altri problemi che affliggono l'Africa. Ho svolto il mio lavoro attraverso il Green Belt Movement, aiutando le comunità a piantare alberi per accrescere le loro fonti di sostentamento, proteggere l'ambiente e rafforzare al tempo stesso il loro impegno e la loro perseveranza. È in seguito a queste esperienze fra la gente comune, insieme agli incarichi nel governo keniota e alla partecipazione a numerose iniziative internazionali, che si è formata la mia visione del mondo e sono maturati gli orientamenti, gli esempi, le analisi e le soluzioni che propongo in questo libro. Nei tre decenni trascorsi dalla nascita del Green Belt Movement, alcuni africani hanno abbandonato la lotta in prima linea per perseguire i propri interessi e le proprie ambizioni, altri si sono lasciati prendere dallo sconforto e dalla stanchezza. Alcuni languono nelle loro case o nelle prigioni, altri sono senza tetto o vivono nei campi profughi. Alcuni sperano di essere salvati dai propri governanti, altri aspettano finché non si rendono conto che devono salvarsi da soli, diventando essi stessi, per dirla con le parole del Mahatma Gandhi, quel cambiamento che desiderano vedere nel mondo. Eppure, come cerco di dimostrare, le sfide che l'Africa si trova ad affrontare non dipendono solo dalle politiche nazionali e internazionali (anche se queste, come in passato, giocano un ruolo importante nel futuro del continente) ma riguardano anche la sfera morale, spirituale, culturale e persino psicologica. Analogamente, la situazione africana non è scindibile da quella mondiale. Siamo un'unica umanità che vive su un unico pianeta: è una realtà alla quale non possiamo sottrarci. Ho scritto La sfida dell'Africa per tutti coloro che hanno a cuore il destino del continente africano: lettori comuni, attivisti, esperti in politiche di sviluppo e funzionari governativi, compresi i capi di stato. Spero di riuscire a spiegare, delucidare, coinvolgere e, cosa forse ancora più importante, stimolare tutti gli interessati a impegnarsi di fronte ai problemi che oggi l'Africa si trova ad affrontare. La sfida dell'Africa è diviso in cinque sezioni: i problemi attuali e le loro radici storiche e culturali (capitoli 1 e 2); il loro contesto economico, politico e internazionale e le loro dimensioni (capitoli 3, 4 e 5); il problema della leadership e della buona gestione delle risorse, sia ai massimi livelli sia alla base della società (capitoli 6 e 7); la relazione complessa e problematica fra identità etnica e stati-nazione nell'Africa contemporanea (capitoli 8, 9 e 10); infine, la centralità dell'ambiente nei problemi dello sviluppo del continente e nelle loro soluzioni (capitoli 11, 12 e 13). Il libro si chiude con un ultimo capitolo dedicato ai problemi degli africani in quanto individui, sia in patria che all'estero. Nel primo capitolo sviluppo una riflessione su una donna che vidi a Yaoundé, in Camerun, la quale praticava un'agricoltura di sussistenza con tecniche che causavano erosione del suolo e spreco di acqua piovana. L'agricoltura di sussistenza è l'attività con cui un'ampia maggioranza di africani si guadagna da vivere, e io faccio notare come i problemi di quella coltivatrice rappresentino sotto molti aspetti un microcosmo in cui si riflettono le innumerevoli sfide che interessano l'agricoltura africana in particolare e l'Africa in generale. Nel secondo capitolo tento di far luce su alcune difficili eredità con cui l'Africa deve fare i conti, primo fra tutti il colonialimo. Il mio scopo è dimostrare che il colonialismo che ha devastato il continente è divenuto un comodo capro espiatorio per conflitti, signori della guerra, corruzione, povertà, dipendenza e malgoverno della regione. L'Africa non può più continuare a imputare al colonialismo il fallimento delle proprie istituzioni, il collasso delle infrastrutture, la disoccupazione, l'abuso di droghe e le crisi dei profughi. D'altra parte, tali questioni non possono essere comprese appieno senza prima riconoscere quella che è la realtà della storia africana. Nel terzo capitolo propongo al lettore una metafora, secondo me efficace, di una società che funziona, vista in contrapposizione alla società africana dopo la Guerra fredda. Nel quarto e quinto capitolo prendo in esame i modi in cui gli aiuti, il commercio e il debito favoriscono la sperequazione tra l'Africa e il mondo industrializzato, mentre nel sesto analizzo la carenza di leadership nel continente e i modi per porvi rimedio. Nel quarto e quinto capitolo il mio intento non è semplicemente criticare la comunità internazionale per le pratiche di commercio iniquo e per il pesante fardello del debito che ancora opprime gli africani, ma anche di stimolare tutti i popoli dell'Africa a liberarsi da quella cultura della dipendenza che conduce alla passività, al fatalismo e infine al fallimento. Allo stesso modo, l'intenzione del sesto capitolo non è stigmatizzare o accusare, ma stimolare l'intera società africana, e in particolare la sua leadership, a liberarsi dalla corruzione e dall'egoismo presenti in ogni strato sociale. È necessario che ogni africano, dai capi di stato ai coltivatori di sussistenza, valorizzi tanto la cultura dell'onestà, del duro lavoro, dell'equità e della giustizia, quanto le ricchezze — culturali, spirituali e materiali — del proprio continente. Nel settimo e ottavo capitolo descrivo più nel dettaglio l'impoverimento culturale cui accenno nel secondo capitolo: la mancanza di rispetto per alcune culture africane e la conseguente devastante perdita di autostima da parte di molti gruppi etnici — quelle che io chiamo "micro-nazioni" — in tutto il continente. Come spiego con maggiori particolari nell'ottavo capitolo, aver riconosciuto l'importanza della cultura mi ha spinto a creare i Seminari di educazione civica e ambientale nell'ambito delle attività del Green Belt Movement. Nel corso di questi seminari ho elaborato un concetto che ho chiamato "sindrome dell'autobus sbagliato". Come passeggeri saliti su un mezzo sbagliato, molte persone e comunità hanno preso una direzione errata, consentendo così ad altri (spesso i loro stessi governanti) di allontanarli ancora di più dalla loro meta. La mia conclusione è che oggi gran parte dell'Africa è salita sull'autobus sbagliato. Nel nono e decimo capitolo investigo più a fondo i problemi dello stato-nazione africano, o di quella che io chiamo "macro-nazione". Per decenni gli africani hanno sminuito o ignorato la fondamentale importanza, sia culturale che psicologica, dell'identità micro-nazionale, strumentalizzando le differenze etniche per ottenere vantaggi politici. Io chiamo tutti gli africani a riscoprire e a far propria la loro diversità etnica, linguistica e culturale, non solo per dare modo a ogni stato-nazione di progredire politicamente ed economicamente, ma affinché possano guarire nell'anima, ferita dal ripudio di ciò che autenticamente sono. Così come la diversità delle culture, anche la biodiversità è essenziale per la salute delle società umane. Nei capitoli 11, 12 e 13 sostengo la centralità che spetta all'ambiente in ogni discussione e avanzo una proposta su come affrontare i problemi dell'Africa. In particolare mi soffermo sulle questioni della terra, dell'agricoltura e della conservazione delle foreste, quindi analizzo l'enorme compito — e la necessità — di preservare l'ecosistema forestale del bacino del Congo nell'Africa centrale. Infine, nel capitolo 14, svolgo una riflessione sui problemi che devono affrontare le famiglie africane sia del continente che della diaspora. Esorto gli africani a sostenersi a vicenda negli sforzi per aprirsi una propria strada verso il futuro. E a credere che ce la faranno. Mentre sto scrivendo, il mondo attraversa una crisi finanziaria causata in gran parte dall'assenza di controlli e dalla deregolamentazione nei paesi industrializzati. Da troppo tempo i poveri pagano le conseguenze di tanta avidità ed egoismo. Per decenni l'Africa è stata esortata a far propri il sistema finanziario e le politiche del mondo industrializzato ma, mentre tutto questo ha arricchito l'Occidente, tali meccanismi fuori controllo non hanno fatto altro che impoverire gli africani. La crisi attuale rappresenta quindi per il continente un'utile lezione, e al tempo stesso la sua più grande sfida: nessuno ha in tasca la soluzione a ogni problema, e dunque, invece che seguire ciecamente ricette altrui, è indispensabile che gli africani pensino e agiscano autonomamente, imparando dai propri errori. | << | < | > | >> |Pagina 17Oggi l'Africa si trova ad affrontare sfide impegnative e di proporzioni enormi. Proprio quando ho iniziato a lavorare a questo libro il Kenya, mio paese natale, è precipitato in un assurdo e violento conflitto politico post-elettorale e in una crisi umanitaria che ha fatto più di mille vittime e ha lasciato centinaia di migliaia di persone senza tetto. Mentre scrivo, lotte intestine portano ancora distruzione nella regione sudanese del Darfur, nel Ciad, nella Somalia meridionale, nel Delta del Niger e nel Congo orientale. Nello Zimbabwe le ultime elezioni sono state pregiudicate dalle violenze e dall'impossibilità di effettuare un corretto conteggio dei voti e raggiungere così una soluzione politica negoziata. Nel frattempo, in Sudafrica, una serie di violenti attacchi contro immigrati provenienti da altri paesi africani ha provocato più di quaranta morti e costretto decine di migliaia di persone a fuggire dalle proprie case, e ora questo stato, faro politico ed economico della regione, rischia di dover affrontare quegli stessi conflitti che molte altre nazioni africane hanno già vissuto sulla loro pelle. Siccità e alluvioni affliggono molti paesi africani sia a est che a ovest. Le risorse naturali sono ancora molto ambite e sfruttate da potenze straniere che hanno scarsa considerazione per la salute dell'ambiente nel lungo periodo o per la riduzione della povertà; la desertificazione e la deforestazione, causate dal taglio delle foreste e dall'agricoltura slash-and-burn, taglia-e-brucia, stanno decimando le specie animali e riducendo riserve idriche, pascoli e terreni agricoli, così da favorire le ricorrenti crisi alimentari. L'irregolarità delle precipitazioni, conseguenza anche del cambiamento climatico globale, minaccia direttamente i mezzi di sussistenza della maggior parte degli africani, che ogni giorno fanno ancora affidamento sulla terra per soddisfare i propri bisogni primari. Al tempo stesso, i paesi dell'Africa sub-sahariana non sono in linea con i parametri di riferimento relativi a salute, istruzione, uguaglianza tra i sessi e sostenibilità ambientale inclusi negli otto Obiettivi di sviluppo del millennio fissati nel 2000 dalle Nazioni Unite. Nonostante il calo verificatosi nell'ultimo decennio, il tasso di povertà in Africa rimane cronicamente elevato. Il costo in vite umane per HIV/AIDS, malaria e tubercolosi — tutte malattie prevenibili — è ancora troppo alto. Nell'Africa sub-sahariana un bambino su sei muore prima dei cinque anni: in cifre assolute si tratta della metà della mortalità infantile mondiale. Troppe comunità sono devastate da conflitti fra gruppi rivali che si contendono il potere politico ed economico. E l'importanza che l'eredità culturale dell'Africa ha per l'autocoscienza degli stessi popoli africani non è ancora sufficientemente riconosciuta. Ciononostante, a mezzo secolo dalla conquista dell'indipendenza da parte di molti stati africani e a due decenni dalla fine della Guerra fredda, il continente ha compiuto significativi passi avanti in alcune aree critiche della politica e dello sviluppo economico. È aumentato il numero dei paesi che hanno un governo democratico e quello degli africani che ricevono un'istruzione. A molti stati è stata accordata una riduzione del debito e le politiche commerciali internazionali sono ora sottoposte a esami più severi per valutarne il grado di equità. Dai tempi dell'apartheid, il Sudafrica ha compiuto con successo una pacifica transizione verso una piena democrazia. Nel 2002 in Kenya si sono tenute le prime elezioni autenticamente rappresentative degli ultimi 25 anni circa. In Angola e Mozambico sono finite guerre civili durate decenni. La Liberia è uscita da una devastante serie di conflitti interni e regionali, nel 2005 ha eletto alla presidenza Ellen Johnson-Sirleaf, primo capo di stato donna dell'Africa moderna, e ora è in corso nel paese un processo di riconciliazione e ricostruzione. L'economia del Ruanda, quindici anni dopo il genocidio del 1994, è in crescita, e metà dei suoi parlamentari sono donne, la più alta percentuale al mondo. Dopo decenni di dittatura, instabilità, povertà estrema e un conflitto che ha causato più di cinque milioni di vittime, nel 2006, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, si sono tenute nella Repubblica Democratica del Congo elezioni giudicate in larga misura libere e regolari. Nel Sudan la fragile pace tra Nord e Sud regge ancora, e continuano gli sforzi per porre fine alla guerra civile nell'Uganda settentrionale. Dall'inizio del secolo, numerose economie africane sono cresciute a un tasso annuo superiore al 5 per cento (in alcuni casi fino al 10 per cento), e la società civile africana — associazioni non governative, sindacati, associazioni civiche, gruppi locali e cittadini comuni — leva la sua voce con sempre maggiore coraggio a sostegno dei diritti umani e di una migliore amministrazione pubblica. Queste sono conquiste reali, e smentiscono la convinzione che gli africani non sappiano farsi carico dei loro problemi. Certo, in tutto il continente ci sono ancora aree in cui a fasi di progresso si alternano momenti di stasi: gli sforzi intrapresi per sconfiggere la corruzione non sono sufficienti; e mentre il mondo riconosce sempre più che l'Africa sarà colpita duramente dai cambiamenti climatici, il trasferimento di tecnologie "verdi" dai paesi industrializzati al continente procede con lentezza, e le foreste continuano a scomparire. | << | < | > | >> |Pagina 20Oltre la sussistenzaAi primi di settembre del 2007 mi trovavo a Yaoundé, capitale del Camerun, perché in qualità di "ambasciatrice di buona volontà" per l'ecosistema forestale del bacino del Congo - titolo assegnatomi nel 2005 dai dieci governi dell'Africa Centrale - dovevo prendere contatti con la segreteria della Partnership internazionale per la salvaguardia delle foreste del Bacino del Congo e con la Commissione per le foreste dell'Africa Centrale, che ha sede a Yaoundé, e incontrare i ministri responsabili per l'economia e la gestione delle foreste. Yaoundé è una metropoli di 1,4 milioni di abitanti che sorge su sette colline, tra i fiumi Nyong e Sanaga, nella zona centro-meridionale del paese. L'albergo dove alloggiavo era molto bello, moderno e pulito, e anche la zona era incantevole, sul fianco di una delle colline che dominano la città. Da lì potevo vedere il Monte Camerun, la vetta più alta dell'Africa occidentale. Una mattina uscii dall'albergo e mentre ero fuori guardai per caso nella direzione opposta: su un'altra collina vidi un piccolo gruppo di contadini, uomini e donne, che lavoravano nell'unico punto non coperto dalla fitta vegetazione. Avevano piantato qualche banano e quelle che sembravano piante di manioca, e preparavano il terreno per un'altra semina. Cadeva una pioggia leggera, e notai che i contadini stavano scavando piccoli avvallamenti che poi modellavano in solchi paralleli al pendio della collina. Pensai fra me e me che non avrebbero dovuto lavorare su un terreno così scosceso, perché la pioggia molto presto avrebbe portato via tutto il concime. Mi voltai con una certa ansia per domandare ai custodi che erano all'ingresso dell'albergo come mai quella contadina stesse scavando i solchi verso il basso, invece che di traverso al pendio. "In questo modo la pioggia scende lungo i solchi e non rovina il raccolto", mi rispose uno di quei giovani, senza esitazione. La vista di quegli uomini e quelle donne sulla collina di Yaoundé non fu in realtà una sorpresa per me. È una scena tutt'altro che rara, cui si può assistere in molte altre città e villaggi del vasto continente africano, nel centro di metropoli come Yaoundé, Johannesburg, Dar es Salaam, Nairobi o nelle campagne. La storia non cambia: taglia e brucia, semina, uno o due raccolti e via, verso un nuovo pezzo di terra, a ripetere lo stesso insostenibile processo. Ciò che mi stupì, invece, fu la risposta del custode, anche se avrei potuto sentirla da un qualunque altro africano di un qualunque altro paese a sud del Sahara. Quel metodo di coltivazione contraddiceva ogni principio a me noto di conservazione del suolo e delle specie vegetali. Invece di scavare i solchi trasversalmente al pendio della collina, in modo tale che l'acqua piovana si raccogliesse in quelle piccole depressioni e penetrasse nel suolo, ricostituendo le riserve sotterranee, quella contadina faceva l'esatto contrario. In tal modo una delle sue più preziose risorse, la terra che con tanta cura aveva lavorato e di cui aveva un così disperato bisogno per il suo raccolto, sarebbe stata trascinata via dalla pioggia lungo il fianco della collina, nei solchi che lei stessa aveva appena scavato. Dunque quella donna non soltanto aumentava il rischio che il raccolto andasse perduto, ma stava anche creando le condizioni ideali per l'erosione di quel prezioso terriccio e per lo spreco di acqua piovana. Diventava sempre più improbabile che il fianco di quella collina potesse in futuro dare frutti, quali che fossero. Eppure le guardie dell'albergo non avevano idea dei danni che la contadina stava provocando: davano per scontato che quella fosse la corretta pratica agricola. La tragedia è che non sono i soli. Mi colpiva l'ironia della situazione: ospite del Camerun, alloggiavo in un albergo di lusso e attendevo l'auto che mi avrebbe portata agli incontri per la salvaguardia delle foreste del Bacino del Congo, un ecosistema che si estende per più di 1,8 milioni di km2 nell'Africa centrale - la più grande distesa di foreste vergini al mondo dopo quella pluviale dell'Amazzonia, spesso definita il "secondo polmone" della Terra. Avrei incontrato ministri, donatori internazionali e funzionari della COMIFAC, la Commissione per le foreste dell'Africa centrale, ognuno dei quali era responsabile della gestione sostenibile delle foreste a beneficio di tutti, compresi gli agricoltori di sussistenza che vivevano su quella collina. Indipendentemente dall'esito dei nostri incontri, di un fatto ero certa: qualunque iniziativa avessimo intrapreso, se tutti coloro che erano riuniti nella sede del COMIFAC non avessero collaborato con quella contadina - e con diversi milioni di altri contadini nel solo Camerun, e altri milioni nei dieci paesi del Bacino del Congo e infine in tutta l'Africa - non solo non avremmo salvato quelle foreste, ma non saremmo neppure stati in grado di arrestare la rapida desertificazione in atto in tutto il continente. Naturalmente quei contadini, e altri come loro, non rappresentano la principale minaccia all'ecosistema del Congo. Le concessioni minerarie e per lo sfruttamento delle foreste volte a soddisfare la domanda globale, apparentemente insaziabile, di materie prime, insieme ai conflitti residui e al taglio illegale del legname nella parte orientale della regione, esercitano un'azione distruttiva molto più intensa. Ma, una volta che i camion per il trasporto del legname e le compagnie minerarie hanno compiuto le loro scorrerie nelle foreste e le hanno disboscate, arrivano i contadini, che tagliano la vegetazione rimanente per ricavarne carbone o piccoli appezzamenti di terreno da coltivare, praticano il bracconaggio e il commercio della cosiddetta bushmeat, la carne degli animali della foresta, e completano così l'opera di distruzione. La gran parte del suolo delle foreste tropicali non è un buon terreno agricolo, e può essere lavorata solo per pochi anni. Se gli agricoltori di sussistenza non adottano tecniche adeguate, il suolo diventa presto improduttivo; le piogge, infatti, trascinano nei fiumi lo strato fertile superficiale e lasciano dietro di sé terre ormai sterili, costringendo i contadini a inoltrarsi ancora di più nelle foreste e nelle praterie. Il taglio degli alberi altera il paesaggio, incrementando il rischio di erosione e desertificazione. Tutto ciò mette in moto un meccanismo che non solo minaccia la sopravvivenza delle popolazioni che fanno affidamento sulle risorse di quegli ecosistemi - i bacini idrografici, le precipitazioni stagionali, la flora e la fauna - ma costituisce anche un potenziale pericolo per i sistemi climatici dell'intero pianeta. A dire il vero, è indispensabile che persone come me - ministri, professori universitari, attivisti della società civile ed esperti dello sviluppo - adottino politiche e leggi, a livello statale o coinvolgendo più paesi, atte a garantire un uso sostenibile e un'equa distribuzione delle risorse naturali. Ma a volte i nostri incontri ai massimi livelli non portano cambiamenti là dove sarebbe realmente necessario - nel nostro caso, la terra in cui quella contadina affonda la sua pala. Se non assistiamo quella donna, aiutandola anzitutto ad abbandonare le vecchie pratiche agricole, si compirà la distruzione iniziata dalla generazione precedente, diffusa dalla globalizzazione ed esacerbata da pessimi governi e dal fallimento di politiche di sviluppo a vantaggio di tutti i popoli africani. Io non accuso i contadini che tentano in qualche modo di sopravvivere. Grazie al mio lavoro con il Green Belt Movement, alla riforestazione praticata con le comunità del Kenya, comprese molte di quelle che vivono sugli altopiani centrali, so quanto sia duro far crescere una qualunque cosa sul fianco di una collina. Ma mentre ero là, in piedi, quella mattina, la donna sulla collina di Yaoundé divenne per me il simbolo delle sfide collettive che molti paesi africani sono chiamati ad affrontare. Mi domandavo quanta parte dei guadagni dell'albergo, proprietà di una multinazionale straniera, finisse nelle casse dello stato e, a sua volta, quanti di quei soldi fossero investiti dal governo nel settore agricolo, compresi servizi di educazione alla terra, per assistere quella donna nell'adozione di corrette tecniche agricole. Pochissimi, fu la mia conclusione. Cercai di immaginare quale avrebbe potuto essere la condizione di quella contadina cinquanta o cento anni prima, quando la popolazione era meno numerosa, il tessuto sociale e comunitario era più robusto, e non c'erano alberghi, e se una donna di quella generazione - una donna non molto diversa da mia madre, che per quasi tutta la vita trasse dalla terra il suo nutrimento - si sarebbe considerata più felice o più ricca rispetto ai coltivatori di sussistenza dell'Africa odierna. Se nei decenni successivi alla conquista dell'indipendenza i paesi africani non avessero trascurato i servizi di divulgazione agricola e avessero stanziato fondi sufficienti, quella contadina non soltanto avrebbe appreso il giusto modo di preparare il suolo per la semina, ma avrebbe anche avuto accesso a informazioni, attrezzature moderne e sostegno da parte del suo governo per coltivare la terra in maniera più efficiente e meno dannosa. E forse i funzionari per la cooperazione e l'assistenza all'agricoltura l'avrebbero aiutata, invece di sfruttarla approfittando della sua povertà, la sua mancanza di istruzione, la sua impotenza. E se a loro volta gli operatori dello sviluppo e le agenzie internazionali che collaborano con i governi nazionali avessero dato priorità agli investimenti nell'agricoltura africana, questa forse non verserebbe oggi in condizioni così miserevoli, e quella donna non distruggerebbe la stessa terra che le dà da vivere. Se gli stati africani avessero privilegiato i bilanci e il lavoro dei ministeri dell'agricoltura e dell'ambiente, invece di puntare su quelli della difesa e della sicurezza interna e, soprattutto, se i governi avessero attuato misure concrete a favore dei loro popoli, invece di realizzare opere grandiose per la loro gloria personale e tentare incautamente di soddisfare le richieste degli investitori stranieri, sovente a spese dei loro popoli, forse quella donna coltiverebbe già da tempo una terra più generosa. Se i governi del continente nelle loro politiche di sviluppo avessero dato priorità a uno sfruttamento più saggio dei terreni coltivabili, alla conservazione delle risorse naturali, a una più adeguata pianificazione urbana, quella contadina non sarebbe stata costretta a lavorare su quella collina. Se si fossero occupati dell'iniqua distribuzione delle terre, eredità del periodo coloniale, non solo avremmo potuto evitare molti dei conflitti che hanno martoriato il continente, o comunque ridurne la violenza, ma quella donna forse ora non sarebbe là, a dissodare quel pendio così scosceso. Se avessero esercitato una maggiore pressione sui paesi industrializzati affinché riducessero i sussidi alle loro agricolture e si fossero battuti per termini di scambio più equi, forse la contadina avrebbe avuto accesso a un maggior numero di mercati e ottenuto prezzi migliori per i suoi prodotti. Se i leader africani avessero investito di più nell'istruzione, nella creazione di posti di lavoro duraturi e in un'economia solidale, e se si fossero preoccupati maggiormente del benessere delle loro popolazioni, piuttosto che dell'arricchimento personale, forse quella donna sarebbe andata a scuola. Forse non sarebbe stata una coltivatrice di sussistenza ma la direttrice di un'efficiente azienda agricola che l'avrebbe liberata dalla povertà che oggi la opprime. Un'altra cosa che mi domandai fu questa: quanti di coloro che si occupano dello sviluppo del continente - africani e no - avrebbero notato questa donna sul fianco della collina? Sebbene molti dei politici e funzionari che lavorano nei ministeri dell'ambiente, dei lavori pubblici, dello sviluppo, delle risorse umane o della salute siano persone intelligenti e colte, e possano essere fortemente motivati, quanti di loro hanno occasione di vedere contadini come quelli che ho visto io quel giorno? Trasportati avanti e indietro, fra alberghi e centri conferenze, a bordo di auto di lusso o costosi fuoristrada, abituati a riunioni al vertice con donatori o alti funzionari, molti politici forse vanno troppo di fretta per accorgersi di quanta fatica facciano i popoli africani per guadagnarsi da vivere, in circostanze sempre più difficili, un giorno dopo l'altro. Se ho notato quella contadina è perché ho lavorato con persone come lei nella campagna di riforestazione del Green Belt Movement. Sono assolutamente convinta che se vogliamo che l'Africa, e in particolare la parte a sud del Sahara, progredisca, che non dipenda più dagli aiuti della comunità internazionale, e cessi di essere un simbolo di povertà, conflitti e corruzione, allora è con donne come quella contadina e su colline come quelle di Yaoundé che dobbiamo lavorare. È qui che tutti coloro che hanno a cuore il destino dell'Africa e dei suoi popoli devono concentrare le loro energie, perché è qui che la grande maggioranza degli africani vive, ed è alle loro vite che noi dobbiamo dedicarci. Se quella contadina, e i milioni di altri come lei, non avrà ciò di cui ha bisogno per sviluppare le sue competenze e garantire un'istruzione a se stessa e i suoi figli, se non sarà incoraggiata a scegliere una nuova strada, fra cinquanta o cento anni le nuove generazioni si guarderanno indietro e disapproveranno il nostro operato. Vedranno i deserti avanzare, le terre inaridire, un numero crescente di migranti partire in cerca di cibo, acqua, pascoli più verdi, anche oltre i confini nazionali, e subiranno gli inevitabili conflitti che sorgono fra gli uomini quando non ci sono risorse sufficienti per tutti. | << | < | > | >> |Pagina 27La rivoluzione della leadershipLa sfida dell'Africa fissa una serie di princìpi secondo i quali sarà necessario cambiare la vita di quella contadina e del 65 per cento degli africani che come lei dipendono dall'agricoltura di sussistenza, evitare crisi future e assicurare agli africani un presente fatto di buon governo, libertà fondamentali, rispetto dei diritti umani, uno sviluppo equo e sostenibile e una pace durevole. Alcune delle misure che propongo per contrastare molti dei problemi dell'Africa sono concrete, come l'impegno per una democrazia dal basso e per il rafforzamento della società civile, in modo tale che le popolazioni possano con i propri sforzi determinare le loro vite e le priorità dello sviluppo, e i governi le supportino nel perseguimento dei loro obiettivi. Altre sono meno tangibili. Fondamentalmente, sostengo che il modo in cui l'Africa è governata deve essere rivoluzionato, non soltanto da parte dei politici, ma anche da parte di una cittadinanza attiva che metta il proprio paese al di sopra degli angusti interessi della propria comunità o del proprio gruppo etnico. Coloro che detengono il potere - presidenti, primi ministri, politici e altre élite - devono riconoscere che il modo in cui fino a oggi in Africa è stata gestita la cosa pubblica non ha né preservato né tantomeno promosso il benessere dei cittadini e non ha assicurato ai popoli stabilità e una crescita duratura. La nuova leadership africana non deve più tollerare una situazione del genere. La rivoluzione che io propongo richiede l'attuazione di politiche a beneficio di tutti invece che a vantaggio di pochi. È necessario opporsi a quegli interessi internazionali che cercano di assicurarsi le enormi risorse naturali che l'Africa ha la fortuna di possedere a prezzi inferiori al loro reale valore di mercato. Bisogna prendere decisioni che stimolino il dinamismo e le capacità imprenditoriali dei popoli africani, proteggendoli da concorrenze sleali, e promuovano quelle economie che valorizzano i beni tanto ambiti dal resto del pianeta. La rivoluzione esige che i suoi leader non si limitino a predicare onestà e trasparenza nell'amministrazione, dai massimi livelli - presidenziale e ministeriale - alla base, ma che esprimano questi valori anche nei loro comportamenti. I leader africani dovrebbero finirla di strumentalizzare l'etnicità per i loro giochi politici, di accaparrarsi terreni pubblici, di svendere le risorse nazionali e saccheggiare le casse dello stato, o di tollerare che altri facciano tutto questo. Devono farsi portatori di valori quali l'equanimità, la giustizia e il lavoro per il bene comune, invece che chiudere un occhio su violenze e sfruttamenti, o favorire meschini interessi personali e opportunismi. Forse la qualità più importante che i governanti africani devono far propria, e di cui c'è un disperato bisogno in tutto il continente, è lo spirito di servizio nei confronti dei cittadini. Troppi africani vivono ancora nella speranza che i loro governanti siano sufficientemente magnanimi per non approfittare della loro debolezza e vulnerabilità, e che puntino a eliminare le cause per le quali tanti vivono ancora nella paura. La rivoluzione della leadership e la necessità di sollecitare uno spirito di servizio non possono tuttavia restare confinati a coloro che occupano i vertici delle società africane. Anche i cittadini più poveri e meno emancipati devono abbandonare una cultura che tollera la corruzione sistematica e l'inefficienza, le tendenze autodistruttive e l'egoismo. Devono cogliere le opportunità che si presentano e non restare in attesa di qualcuno che magicamente crei sviluppo per loro conto; devono comprendere che, per quanto le loro risorse e possibilità siano scarse, hanno i mezzi per difendere ciò che appartiene loro. Ogni cittadino africano, quale che sia il suo ruolo in società, deve ritenere se stesso e i politici che lo governano responsabili, preferire la sostenibilità nel lungo periodo ai guadagni nel breve e a gratificazione momentanee, e progettare con saggezza un incerto futuro piuttosto che adattarsi a un presente fatto di espedienti. Invece di mungere quella vacca che ha nome Africa fino a ucciderla, ognuno dovrebbe nutrirla, averne cura e amarla, in modo che possa prosperare e nutrire a sua volta. Per troppo tempo il continente è stato in ginocchio, nel periodo della disumana tratta degli schiavi, sotto il giogo coloniale, implorando aiuti dalla comunità internazionale, pagando debiti oggi non più legittimi o invocando miracoli. Tutti gli africani, dal primo all'ultimo, devono cambiare quella mentalità propria dei popoli colonizzati di ogni tempo e luogo. Devono tornare a credere in se stessi, nella loro capacità di aprirsi un proprio cammino e forgiare una propria identità, nel diritto di essere governati con giustizia, responsabilità e trasparenza, e nel fatto che non devono più sentirsi in debito - finanziariamente, intellettualmente e spiritualmente - verso coloro che un tempo li hanno governati. Devono alzarsi e camminare. Nell'affrontare queste sfide, al centro di qualunque decisione dobbiamo porre l'ambiente. Né l'Africa né il resto del pianeta possono lasciare che il continente seguiti a essere unicamente la risorsa alla base dell'industrializzazione e dello sviluppo di paesi fuori dai suoi confini, che siano in Europa, nelle Americhe o in Asia. Al contrario, gli stati africani e la comunità internazionale, insieme, dovrebbero mettere i popoli del continente nelle condizioni di proteggere i loro preziosi ecosistemi - terre, paludi, riserve di pesca, fiumi, laghi, foreste e montagne - attraverso un uso responsabile, equo e sostenibile. L'approccio allo sviluppo, alla sua progettazione e attuazione, deve essere olistico. | << | < | > | >> |Pagina 105L'indebitamentoNonostante gli sforzi della campagna Jubilee 2000, che ho co-presieduto in Kenya, e le conseguenti iniziative promosse con sincerità da personaggi celebri e cittadini comuni, su molti paesi africani pesa ancora l'enorme fardello di un debito iniquo, che impedisce ai governi di far fronte ai pressanti bisogni delle popolazioni con investimenti come quelli del programma Big Five e altri. Dal 1970 al 2002, l'Africa ha ricevuto in prestito dalla Banca mondiale, dal Fondo monetario internazionale e da singole nazioni ricche più di 500 miliardi di dollari, e ha restituito una somma pressappoco identica. Tuttavia, a causa degli interessi sul debito, nel 2002 restavano ancora da pagare 300 miliardi di dollari. Da allora la comunità internazionale ha concesso agli stati africani nuovi prestiti affinché potessero pagare i vecchi debiti. Più di recente alcuni di questi prestiti sono stati subordinati a "condizioni" di natura economica: la richiesta di tagliare la spesa pubblica, di aprire i mercati alle merci straniere e di ridurre la massa monetaria. Queste restrizioni hanno costretto i governi ad abbattere gli stanziamenti per la salute, l'istruzione e altri servizi essenziali alla cittadinanza. La questione della riduzione del debito esemplifica la differenza di prospettive che gli africani e la comunità internazionale sono chiamati ad affrontare. Quando una persona chiede un prestito a una banca sa che questa vorrà delle garanzie che attestino la sua solvibilità. Parimenti, la banca conta sul fatto che il cliente sia sufficientemente responsabile da sapere se sarà in grado di restituire il prestito. Se la solvibilità di questa persona non è sufficiente, è giusto che il prestatore imponga al beneficiario determinate condizioni, per indurlo a spendere il denaro in maniera saggia e ridurre le possibilità che ne faccia un cattivo uso. Dagli anni '70 in poi, tuttavia, i donatori internazionali erano consapevoli di avere a che fare con governi che in assenza di vincoli avrebbero agito in maniera del tutto irresponsabile; sapevano benissimo che i beneficiari non erano solvibili, eppure hanno rinnovato i prestiti più e più volte, o per sostenere i leader "amici" durante la Guerra fredda o per favorire vantaggiosi accordi commerciali fra i governi africani e i paesi donatori. La concessione o il rifiuto di aiuti internazionali ha rappresentato un utile strumento per controllare i leader africani a vantaggio del mondo industrializzato. Inoltre i capi di stato del continente contavano a tal punto sulla regolare concessione di prestiti stranieri da mostrarsi molto più responsabili nei confronti dei donatori internazionali che non dei loro popoli, una situazione resa possibile anche dal fatto che la maggior parte degli africani viveva sotto regimi oppressivi. Non solo le popolazioni erano ignare di ciò che stava accadendo ma, proprio a causa della repressione, la società civile non aveva la possibilità di protestare o di chiamare i propri governanti a rispondere delle loro azioni. Tutto ciò che riguardava i governi era coperto da segreto, e in effetti in swahili una parola per indicare il governo è sirikali, che significa "un grande segreto". La pratica di concludere affari sottobanco era un'eredità delle amministrazioni coloniali e, anche se la società civile o le stesse popolazioni non fossero state oppresse da regimi autocratici, sarebbe stato difficile per loro venire a sapere ciò che stava accadendo. I prestatori invece sapevano. In questa e in altre forme quindi, quando si trattava di governi africani e comunità internazionale, i normali rapporti fra prestatore e debitore erano in qualche modo sospesi. Inoltre, fette significative di prestiti e sovvenzioni finivano nelle tasche degli stessi leader, i quali in tal modo si facevano beffe del fatto che quei fondi erano concessi in nome e a favore dei loro cittadini. Molti dei soldi, dunque, non arrivarono mai alle popolazioni, ma divennero proprietà privata di governanti dispotici. Le somme sottratte al continente e le fortune personali accumulate da alcuni leader africani del passato sono sbalorditive. Un giornale francese ha stimato che dal 1989 al 1998 il leader nigeriano Ibrahim Babangida e il suo successore Sani Abacha abbiano accumulato in totale 8 miliardi di dollari. I liberiani Samuel Doe e Charles Taylor, nel corso di 16 anni, hanno messo insieme 5 miliardi di dollari. Si dice che Félix Houphouët-Boigny, presidente della Costa d'Avorio, nei suoi 33 anni di governo abbia accumulato 6 miliardi di dollari, mentre si ritiene che il defunto presidente dello Zaire Mobutu Sese Seko si sia appropriato di 5 miliardi di dollari. Alcune fonti riferiscono che fra il 1968 il 2004, nella piccola Guinea Equatoriale, che ha una popolazione di 500.000 abitanti (dato del 2005), Francisco Macías Nguema e il suo successore Teodoro Obiang Nguema Mbasogo abbiano sottratto alle casse statali un totale di 8 miliardi di dollari. Nel 2004, l'ex-presidente nigeriano Olusegun Obasanjo ha stimato che da quando la maggior parte degli stati africani è diventata indipendente, attraverso l'appropriamento di prestiti o aiuti allo stato e tangenti per corrompere funzionari, sono stati rubati all'Africa 140 miliardi di dollari. Simili cifre non fanno altro che confermare ciò che tutti sanno: l'Africa non è povera, ma deve ancora imparare a proteggere da sola le proprie ricchezze. I soldi rubati ai popoli africani erano depositati in conti bancari esteri e diventavano quindi disponibili per ulteriori prestiti o investimenti da parte delle nazioni donatrici. Milioni di africani comuni, che portano sulle loro spalle il fardello del debito, pagano ancora le conseguenze di un simile furto. Persino oggi, le banche straniere che operano in Africa hanno profitti maggiori rispetto a quelli realizzati in patria, perché impongono sui prestiti tassi di interesse e commissioni sensibilmente più alti. Dobbiamo domandarci perché i leader africani permettono che banche e investitori stranieri facciano profitti così alti a spese dei loro popoli. Uno dei modi in cui le imprese straniere si assicurano simili guadagni è la cooptazione dei leader africani, nominati direttori o ricompensati con azioni. Ciò significa che, quando vengono presentati agli azionisti i rendiconti finanziari, tutti sono contenti. Tranne i popoli africani. Nel 1996, le pressioni da parte di attivisti delle nazioni industrializzate e non industrializzate costrinsero la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale a dare il via all'Iniziativa per i paesi poveri fortemente indebitati (PPFI), finalizzata a ridurre il debito dei paesi in via di sviluppo. In seguito a queste e ad altre campagne, alcuni stati africani, insieme a paesi di altre regioni povere, hanno visto i loro debiti ridotti o cancellati. Nel 2005, il governo del Malawi pagava annualmente 95 milioni di dollari su un debito di 3,2 miliardi; nel 2006 il pagamento è stato ridotto a 5 milioni di dollari. Il debito della Sierra Leone è stato ridotto da 1,6 miliardi di dollari a 100 milioni. Complessivamente, dal 2008, sono stati cancellati circa 88 miliardi di dollari di debito che gravavano sui paesi in via di sviluppo, sebbene ancora oggi, per ogni dollaro che ricevono in aiuti, i paesi poveri continuino mediamente a restituirne 5 in servizio del debito. Nonostante abbia un reddito pari ad appena il 5 per cento di quello dei paesi in via di sviluppo, l'Africa ha ancora due terzi del debito mondiale. Dal 2005, per ripagare il suo debito l'Africa sub-sahariana spende 14,5 miliardi di dollari l'anno. Secondo le Nazioni Unite, nel 2007 il debito dell'Africa era arrivato a 255 miliardi di dollari. | << | < | > | >> |Pagina 112Lo squilibrio del commercioNella sua critica alle politiche di sviluppo attuate dall'Africa sin dal raggiungimento dell'indipendenza, l'economista etiope Fantu Cheru prende in esame le cause che hanno impedito al continente di trarre profitto dalle sue risorse naturali, per le quali il mondo ricco ha sempre avuto buon occhio. Cheru punta il dito su un gran numero di problemi: la mancanza di volontà politica, istituzioni deboli, incompetenza, eccessivi legami con le ex-potenze coloniali e inadeguate reti di comunicazione, di trasporto e infrastrutturali. Oltre a ciò, le economie africane hanno sempre pagato la loro eccessiva dipendenza dalle commodities, materie prime, spesso agricole o minerarie, i cui prezzi sono fissati sul mercato mondiale e che sono qualitativamente indifferenziate (ossia: il petrolio è petrolio, il rame è rame e la canna da zucchero è canna da zucchero, indipendentemente dalla loro origine). Cheru e l'economista ghanese George Ayittey sostengono che la crescita del continente è stata ostacolata dal fatto che i governi africani non sono riusciti a diversificare le loro economie. Non hanno irrobustito il settore agricolo, ampliato la gamma delle esportazioni, sviluppato macchinari e industrie per conferire valore aggiunto alle commodities che producono né hanno sostenuto le iniziative imprenditoriali e la tradizione mercantile dei popoli africani. Al tempo stesso, nonostante la priorità data dalla società civile internazionale al commercio equo con l'Africa e con altre regioni in via di sviluppo, permangono ostacoli considerevoli. La capacità dei popoli africani di creare ricchezza con la loro creatività e intraprendenza economica viene frustrata dall'importazione di beni di consumo di massa, spesso venduti a prezzi più bassi rispetto a quelli delle merci locali, mettendo così al margine le attività commerciali del posto, non in grado di competere con le giganti corporazioni transnazionali e con le loro ingenti somme di capitali. È mancato anche l'accesso alle informazioni e alla conoscenza, nonché la capacità di trarne profitto, problemi che originano entrambi dalla scarsa istruzione e che combinandosi insieme inibiscono la creatività. L'Africa è ancora in misura preponderante una produttrice di commodities come petrolio, minerali e metalli. Nel 1960, nove di queste commodities - fra cui caffè, cacao, cotone e zucchero - costituivano il 70 per cento delle esportazioni agricole dell'Africa sub-sahariana. Negli anni '80 la percentuale era quasi invariata (76 per cento) mentre paesi di altre regioni avevano ampliato la loro gamma di esportazioni e le loro quote su altri mercati. Oggi buona parte dell'attività economica africana poggia ancora su quell'instabile combinazione tra aiuti, turismo, esportazione di risorse naturali e vendita di prodotti agricoli destinati al mercato - come caffè, tè, canna da zucchero, noci e altri generi alimentari - che caratterizza il continente da quando ha conquistato la sua indipendenza e, in alcuni casi, dal periodo coloniale. Non appena i paesi africani divennero indipendenti, le istituzioni finanziarie internazionali, alcuni governi donatori e alcune agenzie dello sviluppo li spinsero a espandere le loro economie puntando sui prodotti agricoli destinati alla vendita, che potevano essere esportati sul mercato mondiale, e a impiegare i proventi così ottenuti per coltivare altri prodotti essenziali. Di conseguenza, in molte parti dell'Africa i contadini (scarsamente informati) sono diventati quasi completamente dipendenti per tutti i bisogni della famiglia - come cibo, vestiti, tasse scolastiche e trasporti - dal reddito ottenuto con la vendita di questi prodotti agricoli. Nei tardi anni '70 e negli anni '80, i prezzi delle commodities crollarono, impoverendo ulteriormente molte nazioni africane. Se nel 1961 il 12 per cento delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo proveniva dall'Africa, nel 1980 questa quota era scesa a meno del 6 per cento. Fra il 1986 e il 1990, la drastica diminuzione dei prezzi delle commodities si tradusse per l'Africa in mancati guadagni pari a 50 miliardi di dollari, più del doppio degli aiuti che il continente aveva ricevuto nello stesso periodo. Le ragioni di questo brusco declino erano molteplici: una più dura concorrenza da'parte delle emergenti economie asiatiche e la nascita di nuovi mercati di materiali alternativi o sintetici; il crollo dell'Unione Sovietica, e quindi il venir meno di uno sbocco importante per i prodotti di alcuni paesi africani; e infine l'eccesso di produzione dell'economia africana, che fece scendere ulteriormente il prezzi. Fra il 1970 il 2005, la quota di mercato dell'Africa sub-sahariana è scesa dal 4 al 2 per cento a livello mondiale. Come la maggior parte degli africani, anche i kenioti sono produttori di materie prime, pagate molto poco, ed eccellenti consumatori di prodotti d'importazione - abiti, generi alimentari e altri beni essenziali - pagati a caro prezzo. Le nostre forcine e i pettini in plastica vengono dalla Cina e il petrolio per produrli viene dal Medio Oriente; il nostro sapone, il dentifricio e lo shampoo sono importati dall'Inghilterra; le nostre creme per il corpo vengono dalla Germania e anche i nostri abiti e le nostre scarpe, vecchi e nuovi, sono d'importazione. Persino i bottoni, che cuciamo con aghi cinesi su tessuti di cotone indiani, vengono dall'estero. Quando ero giovane, andavi in una bottega, mettevi il piede su un pezzo di carta e il calzolaio ti faceva un paio di scarpe, con pelle locale. Oppure c'era il sarto, che ti prendeva le misure e ti faceva un vestito; abiti di seconda mano o scarpe di plastica non esistevano. I calzini li cucivamo a mano; oggi anche questi sono importati dalla Cina. La vita è diventata più facile, ma anche molto costosa e fortemente dipendente dalle merci d'importazione. Il cibo che mangiamo può anche essere prodotto in Kenya - pollame o riso, o anche alcuni ortaggi - ma i ricavi che ne derivano in genere prendono una sola strada: l'estero. Di conseguenza, il denaro che arriva nelle aree rurali attraverso la vendita di commodities, come i prodotti agricoli destinati al mercato, torna nelle città da cui provengono i beni di consumo, e infine viene rimpatriato nei paesi produttori. Persino la maggior parte delle industrie del Kenya - turismo, coltivazione di fiori, caffè e tè - è di proprietà di società straniere. Poiché le commodities dipendono tanto dalla disponibilità quanto dalla domanda, sono soggette a occasionali, imprevedibili variazioni di prezzo. In anni recenti, il prezzo mondiale del petrolio e di alcuni minerali è salito e alcune economie africane ne hanno beneficiato. Secondo il Rapporto economico delle Nazioni Unite sull'Africa del 2008, la variazione del PIL dell'Africa è aumentata da poco meno del 4 per cento annuo nel 2001 a poco più del 6 per cento nel 2008. Nello stesso periodo, l'inflazione è scesa dal 10 per cento al 5 per cento circa. Se da un lato queste notizie sono ben accolte da quei paesi che hanno consistenti riserve di commodities, le loro economie sono ancora eccessivamente dipendenti da un numero troppo esiguo di industrie per poter superare indenni gli inevitabili alti e bassi del mercato. Al tempo stesso, sono ancora troppo pochi i paesi africani che hanno diversificato la loro base economica, o fatto passi avanti verso l'autosufficienza in settori essenziali come la produzione di generi alimentari. Ad esempio, fra il 2000 e il 2005, le esportazioni totali dello Zambia sono più che raddoppiate, da poco meno di 1 miliardo di dollari a quasi 2,1 miliardi; tuttavia, questo incremento è dovuto prevalentemente all'aumento del prezzo del rame, che nel 2005 rappresentava il 50 per cento delle esportazioni totali. Da quando si è resa indipendente dalla Gran Bretagna, la Nigeria basa la propria economia quasi interamente sul petrolio, che dalla metà degli anni '80 rappresenta più del 95 per cento delle esportazioni totali. Per quanto riguarda il tasso di crescita, il Fondo monetario internazionale prevede un divario ancora più ampio fra le nazioni dell'Africa sub-sahariana esportatrici di petrolio e quelle importatrici. L'eccessiva dipendenza da una sola risorsa naturale, e il conseguente mancato sviluppo di altre industrie o la mancata diversificazione dell'economia del paese, è chiamata dagli esperti dello sviluppo la "maledizione delle risorse". Si tratta di una situazione particolarmente problematica quando il paese non possiede la tecnologia necessaria per trasformare queste risorse, e dipende invece da altri per ciò che riguarda lo sfruttamento e la distribuzione dei prodotti finali. Per le nazioni africane esportatrici di petrolio che hanno da poco cominciato a crescere, una delle principali sfide consisterà nel superare la tipica, scoraggiante situazione in cui i cittadini di stati ricchi di risorse non riescono a uscire dalla loro condizione di povertà, mentre una piccola élite, gli speculatori internazionali e le multinazionali fanno enormi profitti. A tale scopo, l'ex-economista della Banca mondiale Paul Collier ha proposto una carta per i proventi delle risorse naturali stipulata a livello internazionale, che garantisca trasparenza nell'assegnazione dei contratti e nei pagamenti per lo sfruttamento delle risorse, assicuri una certa stabilità dei prezzi (evitando cicli di espansione e contrazione); renda trasparente la spesa pubblica e ne favorisca una migliore gestione quando i proventi delle risorse non sono costanti negli anni. La società civile, soprattutto in quei paesi colpiti dalla "maledizione delle risorse", avrà un ruolo centrale nell'adozione di questa carta. Tuttavia, il predominio economico di una sola risorsa naturale non sempre è una maledizione. Ad esempio, la Norvegia possiede un terzo delle riserve di gas e petrolio europee e nel 2004 è diventata il terzo esportatore al mondo di petrolio. Nel XIX secolo e agli inizi del XX, la Norvegia era così povera che il 15 per cento della sua popolazione emigrò in cerca di maggiori opportunità e di una vita migliore. Nel 2007 questo paese aveva il terzo più alto PIL pro capite al mondo, un'aspettativa di vita media alla nascita di 80 anni e si collocava al secondo posto in base all'Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. La pressione fiscale in Norvegia è molto alta e altrettanto alto è il costo della vita, il che significa che le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono relativamente piccole e nella società predomina uno spirito egualitario. A partire dal 1990, la Norvegia versa parte dei ricavi provenienti dall'esportazione di petrolio in un fondo sovrano di investimento. Al giugno del 2007, il valore di questo fondo era pari a 300 miliardi di dollari, cioè 62.000 dollari per ogni cittadino norvegese. L'industria del petrolio è largamente controllata dal governo norvegese, il che significa che non necessariamente un'impresa statale è un luogo di inefficienza e corruzione. Il basso tasso di inflazione dell'economia norvegese e l'importanza che il governo attribuisce alla ricerca e allo sviluppo in settori diversi da quello petrolifero dimostra la consapevolezza del fatto che gli alti proventi attualmente derivanti dal petrolio non devono essere sperperati. Ciò dimostra anche che la Norvegia si sta preparando ad affrontare il tempo in cui le sue riserve di petrolio finiranno, evitando così la "trappola" in cui sono caduti molti stati africani fortemente dipendenti dalle risorse naturali. I governi degli Emirati Arabi Uniti - sette piccole città-stato che si sono integrate economicamente e politicamente, elevando così il loro profilo internazionale - sfruttano le riserve di gas naturale e di petrolio per diversificare le loro economie, investendo nel settore dei servizi e in centri per il tempo libero. Quando li ho visitati, nel 2007, sono rimasta impressionata dagli investimenti che gli EAU avevano fatto nell'istruzione superiore, così da creare una generazione di uomini e donne in grado di mettere a profitto le future innovazioni in campo scientifico e informatico. I ministri degli EAU mi fecero capire chiaramente che si stavano preparando a un futuro senza petrolio. Le strutture amministrative della Norvegia e degli EAU non potrebbero essere più diverse, eppure i leader di entrambi i paesi comprendono che la stabilità e la sostenibilità delle loro economie nel lungo termine dipende da una sana gestione delle risorse. La Nigeria, da parte sua, offre un classico esempio di come una cattiva leadership può favorire lo sfruttamento di una risorsa, in questo caso il petrolio, a spese di gran parte della popolazione. In parte a causa degli scontri per i proventi del petrolio interni a una piccola élite, il paese ha conosciuto violenze politiche, tensioni sociali, lunghi periodi di dittatura militare, corruzione di massa, costante mancanza di servizi di base ed estrema povertà. Le disparità tra ricchi e poveri sono ancora ampie, e le infrastrutture di base, un efficiente servizio sanitario e un buon sistema scolastico agli occhi della maggior parte dei nigeriani rimangono un miraggio. Secondo alcuni, dalla proclamazione d'indipendenza la Nigeria ha incassato 400 miliardi di dollari in proventi derivanti dal petrolio, dei quali forse 380 miliardi sono stati rubati o sperperati.
Nel 1998 la Nigeria è tornata a un sistema di governo democratico, tuttavia,
a quanto si dice, molti nigeriani stanno perdendo la speranza che la democrazia
porti sviluppo, maggiori eguaglianza ed equità, e un più lungimirante uso dei
proventi del petrolio.
Un ulteriore, fondamentale ostacolo che ha reso difficile per l'Africa accedere ai benefici dell'economia globale è rappresentato dalle politiche della Banca mondiale, del FMI e dei paesi sviluppati. Negli anni '80, la Politica agricola comune dell'Unione Europea ha limitato l'accesso ai prodotti agricoli africani, mentre le politiche di adeguamento strutturale della Banca mondiale e del FMI hanno puntato più sulle commodities che sulla diversificazione. Una delle condizioni imposte dai programmi di adeguamento strutturale, e più di recente dalle iniziative per la riduzione del debito, è che i paesi poveri aprano ancora di più i loro mercati ai prodotti del mondo sviluppato, in modo tale da far entrare valuta straniera e attirare investimenti dall'estero. Ma questa richiesta di mercati più aperti è stata a senso unicò. Unione Europea, Stati Uniti e alcuni paesi dell'Est asiatico continuano a proteggere i loro produttori di cotone, grano, zucchero e altri beni concedendo sussidi alle loro industrie o imponendo dazi su questi e altri prodotti provenienti dall'estero. La riluttanza delle nazioni industrializzate a eliminare queste sovvenzioni, sommata alla crescente preoccupazione dei paesi in via di sviluppo per le possibili carestie legate agli alti prezzi del petrolio e dei cereali di base, ha portato nel 2008 al fallimento dei negoziati sul commercio globale. A volte, nel commercio, ciò che appare come una conquista è in realtà un ulteriore impedimento mascherato. Ad esempio, nel 2000 l'African Growth and Opportunity Act (una legge per la crescita e le opportunità dell'Africa), approvato dal congresso USA, ha dato al Kenya e ad altre nazioni africane la possibilità di confezionare prodotti in cotone e venderli sul mercato americano. Uno degli inghippi, tuttavia, stava nell'obbligo per i kenioti di usare filato americano, sebbene anche il Kenya coltivi cotone. Ciò significa che di fatto il Kenya stava sovvenzionando i coltivatori di cotone degli USA e chiudendo un mercato ai propri produttori. | << | < | > | >> |Pagina 185L'importanza che il patrimonio culturale dell'Africa riveste per il senso di identità degli stessi africani non è ancora sufficientemente riconosciuta. La cultura è il mezzo con cui un popolo esprime se stesso, attraverso il linguaggio, le conoscenze tradizionali, la politica, la religione, l'architettura, la musica, gli utensili, le formule di saluto, i simboli, le feste, l'etica, i valori e l'identità collettiva. L'agricoltura, i sistemi di governo, il patrimonio storico e l'ecologia sono tutte dimensioni e funzioni della cultura: ad esempio, "agri-coltura" indica l'insieme delle pratiche riguardanti le sementi, le colture, la raccolta, la lavorazione e il fatto di nutrirsi. Orale o scritta che sia, l'eredità politica, storica e spirituale di una comunità costituisce il suo patrimonio culturale, tramandato di genitore in figlio, attraverso un processo in cui ogni generazione edifica se stessa sulle esperienze della precedente. Questa autocoscienza collettiva guida una comunità in tempi di pace e di incertezza, la celebra o la consola con i riti di passaggio della nascita, dell'adolescenza, del matrimonio e della morte, o ne assicura la sopravvivenza nella fase di transizione da una generazione di leader a un'altra. La cultura contribuisce a formare l'identità e il carattere di un popolo, gli permette di essere in armonia con la sua dimensione fisica e spirituale, formando così le basi per la sua autorealizzazione e per una pace durevole. Rafforza la sua capacità di guidare se stesso, prendere le proprie decisioni e proteggere i propri interessi. Costituisce il punto di vista con cui interpreta il passato e le antenne con cui anticipa il futuro. Per contro, senza cultura una comunità perde la consapevolezza di sé e l'orientamento, e diviene debole e vulnerabile. Si disgrega dall'interno, poiché perde la propria identità, la propria dignità, il rispetto di sé e il senso del proprio destino. Un popolo senza cultura si sente insicuro ed è ossessionato dall'acquisizione e dall'ostentazione di beni materiali, che possono infondere un senso di sicurezza temporaneo, il quale a sua volta costituisce un baluardo illusorio contro l'insicurezza del futuro. È un fenomeno cui oggi assistiamo in molte regioni dell'Africa. Un esempio della distruzione delle culture africane prodotta dall'imposizione di arbitrari confini imperiali è rappresentato dal fatto che mentre la maggior parte di noi sa che cosa si intende con cultura francese, russa, cinese, giapponese o indiana, non ha senso parlare di una cultura sudafricana, congolese, keniota o zambiana. Il mio tentativo, che dura ormai da tempo, di comprendere quale ruolo abbia avuto tale genocidio culturale negli attuali problemi dell'Africa è stato in parte un viaggio alla scoperta di ciò che realmente sono, un viaggio iniziato il mio primo giorno di scuola, quando ero troppo piccola per comprendere la deliberata banalizzazione della mia cultura e gli effetti politici, economici e sociali prodotti dalle amministrazioni coloniali con l'imposizione della loro cultura a danno delle nostre. Ho assimilato un insieme di credenze magnificamente preconfezionato, volto a indottrinare e preparare la mia comunità a un lungo dominio coloniale che non doveva incontrare resistenze: una volta che noi africani avessimo accettato il nostro ruolo di secondo piano, saremmo stati al sicuro e ben protetti: schiavi felici nella nostra terra. Fu solo nel 1960, quando mi trasferii negli Stati Uniti per i miei studi universitari, che cominciai a interessarmi alle mie radici culturali. Ricordando la storia della nostra comunità così come mi era stata raccontata dai miei nonni, iniziai a capire che il passato precoloniale dell'Africa, diversamente da quanto mi avevano insegnato, era stato in gran parte felice. Con il rituale che segnava il ricambio del potere, l' ituika, i leader si comportavano responsabilmente nei confronti del loro popolo, che aveva cibo, vestiti e una casa. Nella tradizione orale, ricca e carica di significati, la gente custodiva le proprie pratiche culturali, le proprie storie e il senso del mondo circostante. Viveva in armonia con la natura e le altre specie animali, e proteggeva l'ambiente in cui viveva. La generazione dei miei nonni misurava la propria felicità, il proprio benessere materiale e spirituale, secondo parametri molto diversi dai nostri. Il loro mezzo di scambio era costituito dalle capre. Allevavano animali domestici, che usavano con parsimonia per la propria sopravvivenza e che trattavano umanamente, e coltivavano sulle loro terre una grande varietà di prodotti agricoli alimentari. Non si consideravano poveri, perché erano in grado di soddisfare la maggior parte dei propri bisogni primari. La vita nelle comunità era scandita da rituali, cerimonie, ed espressioni del legame con la terra e della cultura locale; non si sentivano alienati o alla deriva in un mondo profondamente materialistico che stabiliva il valore di ogni cosa in dollari e centesimi, perché il loro mondo era animato dallo spirito di Dio. Prendevano ciò di cui avevano bisogno per vivere dignitosamente ma non accumulavano né distruggevano, preoccupandosi invece di garantire la sopravvivenza e la prosperità delle generazioni future. Quando mia madre morì, nel 2000, la gente era ormai disposta a sacrificare qualsiasi cosa al denaro: foreste, terra, capre, valori morali e addirittura la persona umana. In un'economia monetaria, diviene necessario distruggere l'ambiente, possederne una parte e negare ad altri la possibilità di accedervi, compresi i discendenti di quelle famiglie che per generazioni erano vissute in simbiosi con l'ambiente.
Sono state le mie ricerche su questo retaggio culturale, che
porto avanti come altri milioni di esseri umani in Africa e altrove, a
convincermi che i dogmi della modernità – la convinzione
che i beni materiali, lo sviluppo tecnologico e il progresso a ogni
costo avrebbero risolto tutti i nostri problemi e soddisfatto tutti
i nostri bisogni – non bastano per dare una direzione morale alle
nostre vite. Infine cominciai ad accettare, e persino a desiderare
ardentemente, quella parte di me che era rimasta nascosta per
così tanto tempo, e che avevo ritrovato nel contesto culturale in
cui ero nata e in parte cresciuta. C'erano molte cose che aspettavano solo di
essere esplorate e comprese. Sospetto che questa
esperienza sia comune agli africani di tutto il continente e della
diaspora, e a molti altri le cui culture hanno rischiato e rischiano tuttora
l'estinzione.
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