Copertina
Autore Niccolò Machiavelli
Titolo Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
SottotitoloDell'arte della guerra e altre opere
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006 [1999], Classici italiani , pag. 1674, vol. 2, cop.fle., dim. 12x19x(5+4) cm , Isbn 978-88-02-07262-3
CuratoreRinaldo Rinaldi
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe classici italiani , politica , citta': Firenze
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Indice

   7    Introduzione

  53    Nota biografica

  57    Nota bibliografica

  85    Nota critica


        DE PRINCIPATIBUS

 105    Nicolaus Machiavellus magnifico Laurentio Medici iuniori salutem

        [...]

 401    APPENDICE: LE DEDICHE EDITORIALI


 411    DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO

        LIBRO PRIMO
 413    [Proemio]

        [...]

        LIBRO SECONDO
 723    [Proemio]

        [...]

 945    LIBRO TERZO

        [...]

1198    Niccolò Machiavegli a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai salute

        APPENDICI

1203    Prima redazione del proemio al libro I
1207    Le dediche editoriali


        DELL'ARTE DELLA GUERRA

1217    Proemio di Niccolò Machiavegli cittadino e segretario fiorentino,
        sopr'al libro Dell'Arte della Guerra a Lorenzo di Filippo Strozzi
        patrizio fiorentino

1223    Libro primo

        [...]

1468    Niccolò Machiavegli cittadino e segretario fiorentino a chi leggie

1473    APPENDICE: I DIAGRAMMI CORRETTI


        DALLE LEGAZIONI

1485    Dalla prima legazione in Francia (luglio-novembre 1500)
1569    Dalla seconda legazione al Valentino (ottobre 1502 - gennaio 1503)

1653    Indice dei nomi
1669    Indice dei luoghi


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE


I



La frattura che divide in due parti l'esistenza del segretario della Repubblica fiorentina Niccolò Machiavelli, escludendolo nel 1512 dalla vita pubblica dopo quindici anni di frenetica attività e costringendolo a comporre i suoi capolavori in un isolamento più o meno completo, non è solo un evento inscritto nella diacronia biografica ma anche il destino profondo del suo scrivere: un'illustrazione del posto di Machiavelli nella storia della cultura cinquecentesca. Questo posto, rispetto alle grandi linee di tendenza della nuova letteratura, appare irrimediabilmente periferico.

Da una parte il totale impegno di Machiavelli nel lavoro e nella riflessione politica sia prima che dopo il 1512 (poiché questa è la sua esclusiva vocazione, come egli confessa in una lettera del 1513) corrisponde a un profilo «forte» di intellettuale, che è tipico del Quattrocento. Quasi tutta la produzione machiavelliana è pensata infatti per una figura di committente e insieme destinatario politico che può variare nel tempo e perfino presentarsi in modi opposti e inconciliabili, ma che è tuttavia indispensabile e di volta in volta legittima le proposte dell'autore. Queste ultime nascono poi da un'idea dell'intellettuale come guida direttamente partecipe del potere, o in ogni caso come corresponsabile ideologico, che aveva stimolato le migliori energie dell'Umanesimo e della tradizione fiorentina in particolare. Alla catastrofica crisi storica che investe l'Italia nei primi anni del nuovo secolo prospettando modi completamente nuovi di organizzazione statale e strategia politica, Machiavelli reagisce insomma rimanendo ben dentro le strutture del sapere quattrocentesco: non sposta cioè la partita sul piano vincente dell'autonomia del lavoro culturale, né decide di ricomporre nell'ambito gratificante della letteratura volgare una totalità ormai perduta nella storia (cercando una sorta di compenso nazionale alla disgregazione degli stati italiani). Egli tenta sì di modificare alla radice la proposta dell'intellettuale-consigliere, rivoluzionando i contenuti e anche le forme del suo discorso, ma non rinunzia affatto alla sua giustificazione d'origine, cioè al vincolo che lo lega ad un'entità socio-politica determinata. Conserva quella che nel secolo precedente era stata (con intensità e qualità variabili e persino negative) la funzione ideologica dell'intellettuale, di fronte al progetto delle classi di volta in volta dominanti nelle diverse situazioni italiane; anche se ne incrina drammaticamente la consistenza e ne capovolge addirittura il senso. La rivoluzione machiavelliana è allora clamorosa ma si svolge tutta al di qua di quella separazione fra cultura e politica che rappresenta la vera novità del Cinquecento.

D'altra parte Machiavelli, pur nello sforzo di aggiornare il proprio messaggio e dunque di fornire al potere politico qualcosa che vada oltre la pacificante ideologia umanistica, viene a trovarsi in un particolarissimo isolamento. Anche se tutta la sua produzione è schiacciata sui fatti storici, per ragioni tecniche oltre che per intenzione precisa dell'autore, collegata cioè all'attualità e all'azione politica (se non a quella effettiva almeno a quella possibile, nelle grandi opere successive al 1512); essa perde progressivamente il suo destinatario d'origine senza essere capace di sostituirlo con uno nuovo. Infatti la classe politica a cui Machiavelli si rivolge, di volta in volta quella dei popolari o quella medicea o quella ottimatizia (con una serie di aggiustamenti delle proposte che rivela il vivace tentativo di adeguarsi alla situazione mutevole del momento), non è più il gruppo stabile e ben certo dei propri valori che era riuscito a traversare le trasformazioni quattrocentesche: si tratta ora, sia sul versante popolare che su quello ottimatizio, di una società e una dirigenza in preda a fortissime crisi di identità e confrontate alla più grave crisi della loro storia. Se il destinatario popolare rimane ostinatamente legato a un modo tradizionale e municipale di fare e pensare la politica, senza prendere troppo sul serio i suggerimenti che traspaiono nelle scritture tecniche e d'ufficio del giovane segretario (tanto che in esse trema un'ombra di impazienza); a sua volta il destinatario ottimatizio e soprattutto mediceo, nel suo faticoso adattamento ad una diplomazia ormai orientata verso le grandi unità statali europee, non ha più bisogno di un intellettuale-guida ma di un funzionario subalterno specializzato. Il messaggio machiavelliano cade dunque in un vuoto lasciato dall'eclisse dei suoi utenti privilegiati: paradossalmente isolato dal mondo, quanto più schiacciato sopra un mondo in evoluzione e in azione. Il paradosso non sta semplicemente nell'esilio biografico dell'autore ma attraversa tutti i suoi testi, costante incrinatura fra un messaggio progettato e un fruitore assente. Poiché il gesto rivoluzionario di Machiavelli non può prescindere da una base di ascolto e impiego pubblico che rimane quella quattrocentesca, esso appare dunque incompiuto, privo della sua funzione e del suo senso. Questa sospensione è addirittura più drammatica (per la sofferenza anche personale dello scrittore) della stessa riforma dell'intelligenza politica che rappresenta il contenuto del messaggio. Tutto ciò fa del segretario fiorentino un «minore», cioè un autore che non può più appartenere interamente al modello quattrocentesco ma che al tempo stesso non rientra nell'autentica rivoluzione culturale cinquecentesca. Perché di Machiavelli, così ferocemente attaccato alle lotte e alle illusioni degli uomini, non si può certo dire che abbia scritto per un pubblico inteso nel senso moderno del termine; al contrario di Guicciardini che scriveva la sua storia appartato e con un distacco dagli eventi diventato quasi metodo di lavoro, ma pensando proprio ad un'udienza larga, analoga a quella di Castiglione o Bembo. La marginalità di Machiavelli non è dunque una questione di fiorentinità o no, non è neppure un semplice anacronismo poiché egli mira precisamente ad una riforma dell'antico; essa è piuttosto uno stare in bilico tra due mondi, impossibilità di accettare il vecchio e di saltare nel nuovo. Tale scomoda posizione non è soltanto una dura critica dall'interno della funzione intellettuale quattrocentesca, ma anche un provocatorio rifiuto della soluzione che stava elaborando la grande letteratura volgare.

Come già per il suo antico collega Coluccio Salutati, i testi assolutamente fondamentali per intendere la proposta di Machiavelli sono le sue numerosissime lettere di negozio; scritte durante il suo servizio a partire dal 1498 (subito dopo la fine del Savonarola) presso la segreteria della Seconda Cancelleria e anche di quella dei Dieci di Libertà e di Pace. Nonostante la relativa semplicità ed eclettismo burocratico dei tempi, le competenze degli organi per cui Niccolò lavorava erano abbastanza specializzate e riguardavano soprattutto gli affari esteri, in particolare la gestione militare della Repubblica. Non a caso il problema centrale di tutta la corrispondenza ordinaria di Machiavelli tra il 1498 e il 1505 è quello dei rapporti con le truppe mercenarie e dell'organizzazione militare e logistica della guerra con cui Firenze tentava di riconquistare Pisa (passata dopo il 1494 dalla parte di Milano e Venezia). In questo quadro rientrano anche le prime importanti missioni diplomatiche o «legazioni» del segretario fuori dai confini dello stato: nel 1500 in Francia per assicurare a Firenze l'appoggio militare e diplomatico francese, nel 1502-03 presso Cesare Borgia per controllarne da vicino le mosse ed evitare possibilmente una pericolosa espansione nel centro Italia, nel 1503 a Roma per rappresentare Firenze presso il nuovo papa Giulio II e constatare da presso la rapida caduta del Valentino, infine nel 1505 a Siena presso Pandolfo Petrucci per prevenire eventuali colpi di mano spagnoli e decifrare il doppio gioco dell'infido alleato.

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Pagina 48

Molto più massiccio e ambizioso è ovviamente il progetto delle Istorie; oltre che collegato ad una diversa e più aggiornata idea politica (quella del governo «misto»). Misura di tale ambizione fornisce già la splendida dedica a Clemente VII, che corrisponde a quella del De principatibus ed opera una sorta di tour de force logico: qui infatti l'elogio dei Medici (Giovanni, Cosimo, Piero, Lorenzo) si unisce al rifiuto dell'«adulazione» e di ogni sospetto di retorica umanistica (Machiavelli adotta non a caso il volgare). L'elogio mediceo non è quindi fine a se stesso ma corrisponde a un programma; così come è funzionale nel successivo Proemio il motivo delle «divisioni della città» di Firenze, che l'autore si propone di studiare a differenza di quanto avevano fatto gli storici umanisti da Leonardo Bruni al Bracciolini. Le lotte interne municipali e la funzione unificante o conciliatrice del potere mediceo che lentamente si impone sulla città, dunque, sono i temi complementari delle Istorie svolti da Machiavelli con brutale sincerità e riproposti come chiave della futura storia fiorentina. Se è vero allora che il libro primo, con il suo panorama della storia d'Italia appartiene ad un progetto storiografio più antico, forse in relazione con il Decennale del 1506 (come suggerisce Martelli); non c'è dubbio che il nucleo iniziale e più impegnativo dell'opera siano i libri secondo e terzo: il secondo, in cui si rievocano le contese fra grandi e popolani fino al fallito tentativo di principato assoluto del duca d'Atene; il terzo, in cui l'autore presenta il conflitto fra popolani e artefici fino al Tumulto dei Ciompi cioè fino ad un altro tentativo di conquista del potere (riprendendo qui esplicitamente le tesi del De principatibus e trasferendole nella mirabile orazione che un anonimo ciompo tiene ai compagni). Il fatto che Machiavelli attribuisca a due parti opposte il medesimo disegno del «principe nuovo» che aveva marcato una sua precisa fase teorica, chiarisce la diversa e più larga prospettiva delle Istorie: una prospettiva che si identifica appunto nella conciliazione delle varie «ambizioni» sotto l'opera di un «legislatore» illuminato. Il progetto di governo «misto» è presentato indirettamente nei proemi ai libri terzo e quarto (collegati ognuno al libro che li precede). Paragonando infatti le lotte intestine di Firenze e Roma e la progressiva decadenza delle due città, l'autore ripete per Roma le tesi dei Discorsi sulla necessità di un «principe» per ovviare alla corruzione; ma per Firenze sostiene che «a quel grado è pervenuta che facilmente da uno savio datore di legge potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata». Poco dopo, in un'orazione di alcuni cittadini «mossi dallo amore della patria», Machiavelli fornisce un'acutissima analisi della decadenza morale e civile d'Italia invocando «migliori ordini» per «riformare» i «buoni costumi e civili modi»; con una forza allusiva che si applica certo all'attualità e ricorda la chiusa drammatica dell' Arte della guerra. Nel proemio al libro quarto si insiste poi ancora sulla necessità di «ordini e leggi» come strumento di conciliazione fra «popolani» e «nobili», ad opera di un legislatore che sia un «savio, buono e potente cittadino». Appunto questo elemento viene introdotto nel libro corrispondente, mostrando l'influenza e l'ascesa di Giovanni de' Medici: seguendo da vicino il filo fornito dalle Istorie fiorentine di Giovanni Cavalcanti (ma le prime filo-medicee e non le seconde), Machiavelli individua proprio nel momento mediceo la fase in cui le lotte interne vengono equilibrate da una terza forza. Questo è precisamente il messaggio lanciato dall'ex-segretario all'attualità politica e al proprio dedicatario.

Tale nucleo centrale dell'opera viene poi incorniciato da due sezioni dedicate in gran parte alle più generali vicende d'Italia. Il tono dei libri primo e quinto, entrambi provenienti da una stesura iniziale che al panorama italiano faceva seguire i fatti successivi al 1434 (secondo l'ipotesi di Martelli), risulta però molto critico e quasi apocalittico; come se Machiavelli volesse contrapporre il caos e la decadenza italiana all'ideale soluzione dei problemi di Firenze, come emergeva dalla storia stessa della città. Il primo libro narra infatti le vicende dalle invasioni barbariche alla fine del Trecento e insiste su due temi tipicamente machiavelliani, come la «mutazione» degli Stati e le gravi responsabilità della chiesa nella rovina d'Italia di fronte allo strapotere degli stranieri.

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Pagina 411

DISCORSI SOPRA
LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO
I-II



DISCORSI DI NICCOLÒ MACHIAVEGLI CITTADINO E
SEGRETARIO FIORENTINO SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO
A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLAI



LIBRO PRIMO



Considerando io quanto onore si attribuisca a l'antichità e come molte volte (lasciando andare molti altri exempli) un fragmento d'una antica statua sia stato comperato gran pregio per averlo apresso di sé, onorarne la sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di quella arte si dilettano; e come quegli poi con ogni industria si sforzano in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggiendo da l'altro canto le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano, che sono state operate da regni e republiche antiche, dai re, capitani, cittadini, datori di leggie et altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più tosto con maraviglia lodate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni parte fuggite che di quella antica virtù non ci è rimaso alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più quanto io veggo, nelle diferenzie che intra i cittadini civilmente nascano o nelle malattie nelle quali gli uomini incorrono, essersi sempre ricorso ad quegli giudicii o ad quegli rimedii che dagli antichi sono stati giudicati o ordinati. Perché le leggi civili non sono altro che sentenzie date dagli antichi iureconsulti, le quali, ridotte in ordine, a' presenti nostri iureconsulti giudicare insegnano; né ancora la medicina è altro che esperienza fatta dagli antichi medici, sopra la quale fondano i medici presenti i loro giudicii. Nondimeno nello ordinare le republiche, nel mantenere gli stati, nel governare i regni, nello ordinare la milizia e nel amministrare le guerre, nel giudicare i sudditi, nello accrescere lo imperio, non si truova principe né republica né capitano né cittadino che agli exempli degli antichi ricorra. Il che mi persuado che nasca non tanto da la deboleza nella quale la presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male che uno ambizioso ozio ha fatto a molte provincie e città cristiane, quanto da non avere vera cognizione de le istorie; per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggano pigliano piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini, fossero variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano anticamente. Volendo pertanto trarre gli uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quegli libri di Tito Livío che dalla malignità de' tempi non ci sono stati involati, quello che io secondo le antiche e le moderne cose giudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia a essi; acciò che coloro che questi miei discorsi leggeranno possano trarne quella utilità per la quale si debba ricercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimeno, aiutato da coloro che mi hanno ad entrare questo peso confortato, credo portarlo in modo che a uno altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.

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Pagina 418

I
QUALI SIANO STATI UNIVERSALMENTE I PRINCIPII DI QUALUNQUE
CITTA, E QUALE FUSSE QUELLO DI ROMA.



Coloro che leggeranno quale principio, fusse quello de la città di Roma, e da quali datori di leggi e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli mantenutati in quella città; e che di poi ne sia nato quello inperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere prima il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli uomini natii del luogo dove le si edificano o da i forestieri. Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in molti e piccoli parti non pare vivere securi, non potendo ciascuna per sé (e per il sito e per il piccolo numero) resistere a lo impeto di chi le assaltasse; et ad unirsi per loro difensione, venendo il nimico, non sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro lasciare abbandonati molti de' loro ridotti e così verrebbero ad essere subita preda de' loro inimici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da loro medesimi o da alcuno che sia infra loro di maggiore autorità, si ristringono ad abitare insieme in luogo eletto da loro, più conmodo a vivere e più facile a difendere.

Di queste, infra molte altre, sono state Athene e Vinegia. La prima, sotto l'autorità di Theseo, fu per simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata. L'altra, sendosi molti popoli ridotti in certe isolette che erano nella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì per lo advenimento di nuovi barbari (dopo la declinazione dello Inperio romano) nascevano in Italia; cominciarono infra loro, sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a vivere sotto quelle leggi che parevono loro più atte a mantenergli. Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro, non avendo quel mare uscita e non avendo quegli popoli che affliggevano la Italia navigii da potergli infestare: talché ogni piccolo principio gli potè fare venire a quella grandeza nella quale sono.

Il secondo caso, quando da genti forestieri è edificata una città, nasce o da uomini liberi o che dependono da altri: come sono le colonie mandate o da una republica o da uno principe per isgravare le loro terre d'abitatori, o per difesa di quel paese che (di nuovo acquistato) vogliono sicuramente e sanza ispesa mantenersi; delle quali città il popolo romano ne edificò assai e per tutto lo imperio suo. Overo le sono edificate da uno principe non per abitarvi ma per sua gloria, come la città di Alexandria da Alexandro. E per non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi de' regni numerare. Simile a questa fu la edificazione di Firenze, perché (o edificata da' soldati di Silla, o a caso dagli abitatori de' monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel piano sopra Arno) si edificò sotto lo inperio romano; né potè, ne' principii suoi, fare altri augumenti che quegli che per cortesia del principe gli erano concessi.

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Pagina 451

V
DOVE PIÙ SICURAMENTE SI PONGA LA GUARDIA DELLA LIBERTÀ,
O NEL POPOLO O NE' GRANDI;
E QUALI HANNO MAGGIORE CAGIONE DI TOMULTUARE,
O CHI VUOLE ACQUISTARE O CHI VUOLE MANTENERE.



Quelli che prudentemente hanno constituita una republica, intra le più necessarie cose ordinate da loro è stato constituire una guardia alla libertà. E secondo che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perché in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Et appresso a' Lacedemoni, e ne' nostri tempi appresso de' Viniziani, la è stata messa nelle mani de' nobili; ma appresso de' Romani fu messa nelle mani della plebe.

Pertanto è necessario examinare quale di queste republiche avesse migliore elettione. E se si andasse dietro a le ragioni, ci è che dire da ogni parte; ma se si examinasse il fine loro, si piglierebbe la parte de' nobili, per avere avuta la libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo alle ragioni dico, pigliando in prima la parte de' Romani, come e' si debbe mettere in guardia coloro d'una cosa che hanno meno appetito di usurparla. E sanza dubbio, se si considerrà il fine de' nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare et in questi solo desiderio di non essere dominati; e per conseguente maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi. Tale che, essendo i popolari preposti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi. Da l'altra parte, chi difende l'ordine spartano e veneto dice che coloro che mettono la guardia in mano di potenti fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno più all'ambizione loro, et avendo più parte nella republica per avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; l'altra, che lievono una qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d'infinite dissensioni e scandoli in una republica, et atta a ridurre la nobilità a qualche disperazione che col tempo faccia cattivi effetti. E ne dànno per exemplo la medesima Roma che, per avere i tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un consolo plebeio, ché gli vollono avere ambedue. Da questo, ei vollono la dittatura, il pretore e tutti gli altri gradi dello inperio della città. Né bastò loro questo, ché (menati dal medesimo furore) cominciorono poi col tempo a adorare quegli uomini che vedevano atti a battere la nobilità; donde nacque la potenza di Mario e la rovina di Roma.

E veramente chi discorressi bene l'una cosa e l'altra potrebbe stare dubbio, quale da lui fusse eletto per guardia di tale libertà, non sappiendo quale umore di uomini sia più nocivo in una republica: o quello che desidera mantenere l'onore già acquistato o quel che desidera acquistare quello che non ha. Et infine, chi sottilmente examinerà tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d'una republica che voglia fare uno imperio come Roma, o d'una che le basti mantenersi. Nel primo caso gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come nel seguente capitolo si dirà.

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Pagina 492

XI
DELLA RELIGIONE DE' ROMANI.



Advenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo e che da quello abbi a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione sua; nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del senato romano di eleggiere Numa Pompilio per successore a Romolo; acciò che quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civilità; e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò qualunque inpresa che il senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare.

E chi discorrerà infinite attioni, e del popolo di Roma tutto insieme e di molti de' Romani di per sè, vederà come quelli cittadini temevono più assai rompere il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio che quella degli uomini, come si vede manifestamente per gli exempli di Scipione e di Mallio Torquato. Perché, dopo la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme e (sbigottiti della patria) si erano convenuti abbandonare la Italia e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare e col ferro ignudo in mano gli costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio Mallio, padre di Tito Mallio che fu di poi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco Pomponio, tribuno della plebe; et innanzi che venisse il di del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e minacciando di ammazarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giuramento; e quello per timore, avendo giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo amore della patria, le leggi di quella non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da uno giuramento che furano forzati a pigliare; e quel tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli avea fatto il figliuolo e l'onore suo per ubbidire al giuramento preso. Il che non nacque da altro che da quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.

E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a mandare gli exerciti, animire la plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo che più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi; e dove sono l'armi e non religione con fidducultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il senato, per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario della autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere domesticheza con una nympha la quale lo consigliava di quello che ellí avesse a consigliare il popolo; e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi et inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse.

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