Autore Lamberto Maffei
Titolo Elogio della parola
Edizioneil Mulino, Bologna, 2018, Voci , pag. 156, ill., cop.fle., dim. 11x17,6x1,4 cm , Isbn 978-88-15-27910-1
LettoreLuca Vita, 2018
Classe scienze cognitive , linguistica , comunicazione , psicologia , salute , scuola












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Presentazione, di Luca Serianni                   7

Introduzione                                     15

I.    Il linguaggio della parola                 25

II.   Verso una lingua unica                     47

III.  Educare alla parola                        61

IV.   Innovazione o involuzione?                 71

V.    Il buon governo                            85

VI.   Questo non è un cervello                   99

VII.  Guardare vedere parlare                   115

VIII. La cultura, vi piaccia o no, è cervello   141

Conclusioni                                     155



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

In questo saggio mi propongo di analizzare l'era digitale per ammirarne le invenzioni e gli indubbi vantaggi che offre alla vita del cittadino, senza però ignorarne gli effetti collaterali sul comportamento soprattutto dei giovani (ma anche degli anziani), fino ad accennare ai possibili eventi patologici che potrebbero esserne conseguenza. In particolare mi preme analizzare e riflettere sulla fuga dalla parola, dalla conversazione, che molte statistiche descrivono come dilagante e non solo nei giovani. Mi viene spontaneo domandarmi cosa accadrà quando i giovani smartphonisti saranno genitori, e non ci sarà più il buffer, o modulazione mitigante, delle generazioni. Quali modificazioni potranno avvenire nei centri del linguaggio parlato dell'emisfero sinistro del cervello?

In questa parte del cervello - che nei destrimani ospita i centri di ricezione e produzione della parola - si aggiungerà forse un centro per la comunicazione digitale, o questa è in realtà solo un sottoinsieme del linguaggio nel senso tradizionale? Insomma, avverranno cambiamenti strutturali o funzionali nel cervello? L'osservazione sembra rivelare che cambiamenti funzionali sono già in atto (io sostengo che un cambiamento funzionale ha sempre alla base una modificazione transitoria o meno della struttura, in questo caso del cervello) e sarà interessante domandarsi se tutto questo sia un vantaggio o uno spiacevole effetto collaterale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 28

Nei primi ominidi, per esempio in Lucy, l'australopitecina che risale a più di 3 milioni di anni fa, il cervello pesava circa 500 grammi, molto meno di quello di Homo sapiens che pesa in media 1.400 grammi. Il peso del cervello, anche degli uomini più illustri, può variare da circa 1.100 grammi a 2.000, senza mostrare correlazioni evidenti con le capacità intellettuali.

È verosimile che questi antichi antenati comunicassero principalmente con gesti, che quindi per la ricezione afferivano, come avviene anche in Homo sapiens, al sistema visivo.

Il linguaggio implica l'uso di tempi molto più lunghi di quelli impiegati nei messaggi visivi, sia da parte del trasmittente per preparare e organizzare il messaggio, che da parte del ricevente per riceverlo e decifrarlo.

Nasce così un meccanismo cerebrale per pensare, riflettere, ragionare prima di passare all'azione; in una parola, nasce, come ho scritto altrove, «la lentezza», che è privilegio e condanna della condizione umana. Mi domando cosa potrebbe implicare tornare a una comunicazione più viva, rapida e meno verbale, forse essere più «animali», ma forse anche meno guerre, meno cemento, meno repressioni e magari la scomparsa degli psichiatri e degli psicoterapeuti.

Solo recentemente, quindi, nel corso dell'ominazione l'emisfero sinistro si è specializzato nel linguaggio, la cui produzione e ricezione sono, per loro stessa natura, processi lenti, tanto che altrove ho chiamato questo emisfero «emisfero del tempo», intendendo il tempo che occorre alle diverse componenti di una frase per diventare un messaggio di senso compiuto. Il linguaggio è alla base della comparsa della razionalità grazie alla quale, anziché mettere in atto reazioni veloci e immediate, si cerca di collegare i fatti alle loro cause e di produrre utili generalizzazioni. Oserei dire paradossalmente che il cambiamento della modalità di comunicazione, che si ha con l'avvento del linguaggio della parola, rappresenta un vero e proprio sconvolgimento dell'evoluzione che, in natura, opera secondo le ferree leggi della sopravvivenza; penso anche che la comparsa del linguaggio abbia dato luogo a quelle modificazioni del comportamento umano che hanno prodotto ciò che chiamiamo civiltà, una costruzione che oso chiamare innaturale in quanto fuori dalle leggi della sopravvivenza. Senza la comunicazione verbale la specie umana avrebbe continuato a sopravvivere come tutte le altre specie. La biologia è dominata da due leggi fondamentali alle quali non si può sfuggire e cioè la sopravvivenza dell'individuo (che è a dire la ricerca del cibo), e la sopravvivenza della specie (che è a dire il sesso).

Il resto, la civiltà, la scienza e anche la poesia sono giochi meravigliosi con i quali gli uomini si illudono di opporsi alla biologia, e che hanno il compito di evitare la noia, a volte la sofferenza del cammino della vita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 39

Un'altra osservazione che indica come il linguaggio della parola abbia preso una posizione direttiva nello sviluppo cerebrale dell'uomo per caratterizzarlo come animale particolare, è quella per cui, se in età infantile, fino a 3-4 anni, cioè in un'età di alta plasticità del sistema nervoso, una lesione traumatica o circolatoria danneggia le aree del linguaggio nell'emisfero sinistro, le funzioni linguistiche si trasferiscono nelle parti simmetriche corrispondenti dell'emisfero destro, come se non si potesse perdere questa caratteristica fondamentale del cervello che è proprietà essenziale di Homo sapiens.

La vera rivoluzione evolutiva nel lobo sinistro non è solo il linguaggio, ma i meccanismi nervosi che ne stanno alla base, capaci di generare stringhe di eventi, le parole, legati dalla logica in maniera tale che assumono significato solo se organizzate in una determinata sequenza. Le stringhe di eventi legati tra loro da regole nella loro evoluzione temporale sono la base del ragionamento e contrastano con la comunicazione visiva, dove gli eventi nervosi sono, anziché in serie, in parallelo, in quanto sono trasmessi e ricevuti simultaneamente, tutti insieme. Si potrebbe dire che l'informazione visiva, al contrario di quella linguistica, è atemporale. Queste mie riflessioni sul linguaggio come stringa di eventi legati dalla ragione non sono affatto originali perché già Charles Darwin aveva sapientemente scritto al proposito che

Non è il solo potere di articolare che distingue l'uomo dagli altri animali, perché, come tutti sanno, i pappagalli riescono a parlare; ma è la sua grande facoltà di poter riunire suoni definiti con definite idee, e questo dipende ovviamente dallo sviluppo delle facoltà mentali.

E Virginia Woolf proclamò nell'unica registrazione della sua voce che «le parole appartengono le une alle altre».

Per correttezza mi sembra doveroso aggiungere una nota concernente l'affermazione che il linguaggio sia una stringa di parole legate dalla ragione, perché questa sambra venir meno, particolarmente in tempi recenti, nel linguaggio dei politici, le cui parole sono spesso semplicemente suoni, magari brillanti e sonori legati dalla strategia del1'«acchiappaconsensi», detta anche strategia dell'«acchiappacitrulli».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 65

La scuola della parola

L'istruzione deve affrontare la cultura digitale, ma ovviamente non limitarsi ad essa. Il mondo moderno globalizzato e veloce, con i rischi di superficialità e di errore che inevitabilmente la velocità comporta (come ho discusso altrove), pone sul tavolo il problema dell'istruzione in un quadro profondamente modificato rispetto al passato: conoscenze scientifiche e tecnologiche in rapido sviluppo, ingresso nella scuola pubblica di grandi masse eterogenee per background socioculturale, stili di vita, esperienze vissute, che riproducono nel piccolo mondo della classe le complesse dinamiche del mondo moderno. In un simile contesto il compito principale della scuola rimane, a mio avviso, quello di preparare cittadini critici oltre che informati, consapevoli del proprio diritto a prendere la parola per esprimere il proprio pensiero in un confronto civile con quello dei compagni.

La classe è la palestra ideale per sviluppare questa consapevolezza: la lettura di un testo, una poesia, le pagine dei grandi classici, così come un buon articolo di giornale, e specialmente la discussione dei risultati di un'esperienza di laboratorio, sono occasioni imperdibili per sbarazzarsi del preconcetto avvilente del suddito, che fa dipendere il suo pensiero e il suo comportamento da una qualche autorità. Giovani educati fin da piccoli alla parola, divenuti adulti, dovrebbero essere immunizzati contro l'idea umiliante secondo la quale coloro che gestiscono il potere politico, economico e culturale hanno un cervello migliore, preconcetto del tutto falso con indicazioni spesso del contrario.

E allora? Propongo la «scuola della parola». La proposta deriva dall'osservazione che i giovani sono spesso chini sul loro smartphone e non parlano più, o molto meno, occupati in maniera ossessiva a scrivere e ricevere un'infinità di messaggi. Questa nuova modalità di comunicazione, in voga nelle nuove generazioni, è un fenomeno collaterale negativo dell'educazione digitale che merita una gestione accurata, in quanto non se ne intravedono, almeno al momento attuale, i vantaggi educativi o di altro genere se non, ironia suggerisce, un risparmio delle corde vocali e una modesta diminuzione dell'inquinamento acustico. Si nota invece chiaramente un grave inconveniente e cioè quello di una comunicazione algida, senza il calore del contatto, della vicinanza, della mimica dell'amore o della rabbia.

[...]

Infine, oggigiorno, filosofi e letterati come Martha Nussbaum e Nuccio Ordine hanno mostrato come la cultura umanistica e la scienza dibattuta aiutino a costruire cittadini critici e consapevoli. L'alunno deve costruire la sua conoscenza e insegnare è fare un po' come Michelangelo, scoprire la figura, la forma nascosta, in questo caso le potenzialità conoscitive, a volte anche creative, nascoste nel cervello dell'alunno. La scuola della parola è la scuola dell'emisfero cerebrale del linguaggio, quello della razionalità, è la scuola della riflessione, quella del pensiero lento, direi, quella che insegna che occorre riflettere prima di decidere, e pensare prima di credere.

La ricchezza della lingua, nella storia,delle sue trasformazioni, nel suo valore di legame tra i cittadini e nella sua bellezza è componente importante della civiltà di un popolo: è un valore che deve essere curato con passione come hanno fatto e continuano a fare linguisti illustri come Tullio De Mauro o Luca Serianni. La parola, come sottolineato nelle pagine precedenti, è meccanismo del pensiero, è «pensiero vivente» come dice Vygotskij , e il pensiero va formato e curato nella scuola, nella scuola della parola.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 88

Globalizzazione senza fine

La globalizzazione rappresenta una vera e propria rivoluzione nella storia dell'umanità. Essa non subisce contraccolpi, correzioni, ripensamenti, aggiustamenti come è avvenuto per le Rivoluzioni russa o francese. La globalizzazione è in pieno, dinamico svolgimento e progressione: ha cambiato le relazioni internazionali, sociali, economiche e anche i comportamenti umani, i desideri e persino i rapporti familiari e il linguaggio.

La possibilità di comunicare con tutti via strumentazione digitale ha penalizzato la parola, la conversazione e paradossalmente anche il colloquio con sé stessi, la riflessione e, lasciatemi dire, l'eleganza del pensiero e la dialettica costruttiva con l'interlocutore.

La globalizzazione non è nata da una rivolta popolare o militare; ha un'origine nuova, storicamente originale: nasce dall'uomo ma in maniera indiretta e forse anche non prevista e cioè dallo sviluppo della tecnologia delle comunicazioni. È diventato facile ed economico comunicare con tutti, un grande mercato globale delle merci, del pensiero, delle idee e anche dei sentimenti con una tendenza all'omologazione generale, particolarmente nel mondo occidentale. L'omologazione vede la scomparsa o l'annacquamento di politiche di sinistra o di destra, divenute estremamente simili tra loro in quanto dipendenti entrambe da sistemi di comunicazione invadenti e controllate dal mercato.

La rivoluzione della globalizzazione in quanto rivoluzione tecnologica è fuori controllo, perché non si può fermare lo sviluppo della scienza di cui la tecnologia è figlia, e avanzerà con grande successo. Si pensava che la globalizzazione avrebbe portato un mondo migliore, dove non ci fossero più barriere, un mondo più giusto e più bello. Io, con lo scrittore José Saramago , ero a favore di una globalizzazione che potesse «portare pane per tutti», più giustizia sociale, una vita migliore.

Ma non è stato così, le disuguaglianze sono aumentate, e i conflitti tra le nazioni sono diventati conflitti economici, per la conquista di piazze di mercato, accompagnati non di rado da vere guerre guerreggiate.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 108

A pensarci bene il cervello che potresti comprare assomiglia un po', o forse molto, al cervello globalizzato per il quale non hai fatto neppure la fatica e la spesa dell'acquisto. Esso infatti ti viene fornito gratis a domicilio dai media visivi e verbali, veri trafficanti della mente, come il migliore dei cervelli possibili, anzi indispensabile per il futuro, per il progresso e per l'aumento del PIL.

Di fronte a questa conclusione i neuroni del cervello unico e tuo diventano assai inquieti e vivaci e aumentano la loro scarica di impulsi nervosi per metterti all'erta; il centro di Broca con parole silenziose ti dice che sta a te decidere se rimanere nel gregge e pascolare nei prati di un cervello globalizzato, «borghese», che non vuole cambiare per principio e preferisce restare avvolto volontariamente nella cellulite di una pigrizia egoista e di un funzionamento routinario, prevedibile, ma che ti dà sicurezza, assicurandoti che il domani sarà come l'oggi in una catena di eventi, forse senza sole, ma privi di tempeste o di piogge se non quelle preventivamente annunciate da monitor sicuri.

Tu sai, tuttavia, o forse ricordi, di quando ragazzo guardavi al futuro con il tuo cervello spavaldo, privo di lacci, che la routine è la morte del pensiero e della creatività.

Annota Leopardi nello Zibaldone: «I fanciulli trovanò il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto», e ancora: «Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano, perché apre delle possibilità, non certezze. Perché non cerca la fine, ma va verso l'infinito».

La routine dal punto di vista del funzionamento cerebrale significa che circuiti plastici che hanno la proprietà di cambiare con l'esperienza sono diventati stabili come quelli dei riflessi, delle reazioni automatiche o della vita vegetativa. Se ti fa piacere diventare automatico, robotico, anzi un robot di vecchia generazione, sei in una grande, immensa buona compagnia.

Come i robot anche le pecore sembrano non nutrire alcun dubbio - che, secondo Borges è un nome dell'intelligenza - e seguono passivamente il gregge; hanno per natura un cervello che nel loro piccolo mondo è globalizzato.

I quadri di Magritte, opere per l'occhio e per il pensiero, insegnano a vedere e a pensare che le immagini che ci vengono abbondantemente propinate sui giornali, sui muri della città, o in TV non sono «cose» che puoi prendere, soppesare ed essere sicuro che esistono. Quando sulla nostra retina appare la figura di un politico o di una politica, ben vestiti e sorridenti, che parlano di solidarietà e delle meravigliose cose che faranno per il nostro benessere, o quelle di banchieri e imprenditori che promettono mari e monti, tutti personaggi la cui immagine è circondata da una specie di «aura» che ce li rende credibili, ecco che diciamo con Magritte: «Questo non è un presidente, un imprenditore ecc.», non ha a che far niente con la realtà; è solo un'immagine, praticamente una fake news, una specie di favola; non facciamoci ingannare, pensiamo con il nostro cervello.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 136

Galileo «vede» la luna

Un esempio eclatante e di grande interesse storico-scientifico di come conoscenze pregresse possano influenzare l'atto del vedere ci è dato dalle osservazioni della luna fatte da Galileo Galilei e dallo scozzese Thomas Harriot, negli stessi anni, con due cannocchiali (meglio sarebbe dire occhialini) probabilmente simili. L'occhialino che doveva servire per scopi militari, come avvistare il nemico o le navi in lontananza, Galileo lo puntò verso il cielo. È assai probabile che le immagini della luna sulle retine di Galileo e Harriot fossero del tutto simili e tuttavia le descrizioni dei risultati sono completamente diverse. Le osservazioni di Galileo sono di grande precisione, paragonabili a quelle ottenute modernamente con i satelliti, mentre quelle di Harriot non hanno alcun valore scientifico e si rifanno a vecchie concezioni aristoteliche (fig. 8).

Galileo nelle immagini telescopiche, viste per la prima volta dall'occhio umano, scorse ombre che interpretò correttamente come asperità della superficie lunare, monti o crateri «altissima montium iuga» o «cavitates» (fig. 9).

Galileo Galilei rappresenta nella sua opera, il Sidereus Nuncius (1610), i risultati delle sue osservazioni, con bellissimi acquarelli. Si pensa che le sue corrette interpretazioni delle asperità lunari furono in parte dovute alla sua esperienza di pittore e agli effetti che si possono ottenere dal chiaroscuro. Scriveva nel 1612 al suo amico pittore Ludovico Cigoli: «Conosciamo dunque la profondità non come oggetto della vista per sé, et assolutamente, ma per accidente rispetto al chiaro et allo scuro». Il Cigoli stesso aveva sperimentato la visione della superficie lunare con un cannocchiale che Galileo gli aveva regalato; nel suo dipinto della Madonna in Santa Maria Maggiore a Roma si nota che i piedi della Vergine poggiano sulla luna ritratta come vista al cannocchiale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 149

Il cervello che cambia

Si dà per scontato che l'anatomia del cervello non sia cambiata nelle ultime centinaia di secoli: ciò si trova dichiarato in molti trattati e mai si pone l'ombra del dubbio su tale questione. Si afferma che il cervello sia stabile, che sia solo la cultura a cambiare e che sia questo evento a spiegare le diverse interpretazioni delle stesse immagini in epoche diverse. L'asserzione che il cervello non sia cambiato nei secoli, tuttavia, sarebbe vera, nel senso di scientificamente dimostrata, soltanto se si potesse paragonare la struttura macroscopica e microscopica dei cervelli delle varie generazioni, altrimenti tale asserzione risulta del tutto ipotetica e possibilmente errata.

Voglio argomentare che la struttura, e con essa la funzione del cervello, cambia nei secoli ma anche nelle diverse generazioni e perfino nel corso della vita di un individuo. È infatti ormai noto che un cambiamento dell'ambiente (cioè degli stimoli che afferiscono al cervello in un determinato tempo della vita di un animale o di un uomo) produce un cambiamento del funzionamento e anche della struttura del cervello al livello delle connessioni sinaptiche, grazie alle proprietà della plasticità cerebrale. Va chiarito che questi cambiamenti sono di tipo lamarckiano, cioè non vengono trasmessi di generazione in generazione, se non con la permanenza delle caratteristiche ambientali.

La cultura, vi piaccia o no, non si libra nell'aria, è semplicemente cervello. Se cambia l'una cambia anche l'altro ed è vero anche che se cambia il cervello, ad esempio per ragioni patologiche, cambia anche la sua interpretazione della cultura, dell'ambiente in cui vive. È utile e corretto ricordare che anche cambiare semplicemente idea non può che significare cambiare la funzione del cervello in maniera transitoria o anche permanente.

Il libero arbitrio, in termini neurologici, è proprio la libertà che l'evoluzione - o per i credenti, il Signore - ci ha dato di cambiare il funzionamento del nostro cervello, che particolarmente nei primi anni di vita è straordinariamente plastico, cioè soggetto a modifiche in funzione dell'esperienza.

Gli uomini di secoli diversi, ma forse anche di generazioni diverse, vedono in maniera differente semplicemente perché hanno un cervello differente, in quanto hanno avuto esperienze di vita differenti.

Se, per ipotesi, in un Gedanken Experiment, si facessero cadere sulla retina le medesime immagini in uomini di secoli o ambienti diversi, le percezioni di esse sarebbero diverse e in stretta relazione col tempo e con l'ambiente in cui vivevano.

Si potrebbe perfino azzardare che un fattore alla base dei ciclici conflitti generazionali tra padri, nonni, figli e nipoti stia proprio nella diversità dei cervelli tra giovani e vecchi, ed è mia opinione che questo fatto diventi particolarmente evidente ai giorni nostri, quando la globalizzazione e lo sviluppo straordinariamente veloce della tecnologia, in particolare delle comunicazioni, ha creato gap culturali e comportamentali tra generazioni vicine assai profondi. Inoltre non si deve trascurare che negli anziani, in aggiunta ai cambiamenti innescati dalla diversa cultura, hanno luogo quelli inesorabili prodotti dall'età.

| << |  <  |