|
|
| << | < | > | >> |IndicePrefazione 9 Epicuro saluta Meneceo 13 Epicuro e oltre: per un'etica della felicità 23 Postfazione 53 Bibliografia 55 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Epicuro saluta Meneceo122 Nessuno, da giovane, aspetti troppo a lungo a dedicarsi a filosofare né, da vecchio, se ne astenga: non si è infatti mai troppo acerbi né troppo in là negli anni per acquisire la salute dell'anima. Chi poi afferma che per lui non è ancora giunta o che ha già superato l'età per esercitare la conoscenza è come se dicesse che non è ancora giunto per lui il momento d'essere felice o che questo è già passato. Tanto il giovane quanto l'uomo maturo è perciò giusto che si dedichino alla conoscenza della felicità: da vecchio affinché nell'età sua si conservi giovane nel ricordo della felicità goduta in passato, e da giovane in essa felicità cresciuto, per affrontare serenamente il futuro. Ed allora poniamo mente a ciò che ci può procurare la felicità, dato che quando la possediamo nulla ci manca e, per contro, in sua assenza mettiamo in atto tutto quel che è necessario per ottenerla. | << | < | > | >> |Pagina 15125Nulla c'è di temibile nella vita per colui che realmente sappia che nulla vi è di temibile nel non più vivere. Stolto quindi è colui che asserisce di temere la morte e ciò non a causa del dolore che essa ci può arrecare al momento del trapasso, ma perché è turbato dall' attesa continua della morte stessa. Quello che non ci sconvolge al momento della sua comparsa, scioccamente ci turba se l'attendiamo. Perciò la morte, il più temuto di tutti i mali, per noi è nulla, dato che quando noi siamo vivi essa non esiste, quando si presenta non esistiamo più noi. Ma la gente da una parte fugge la morte come il peggior di tutti i mali, invocandola poi, per contro, come il rimedio ai mali presenti. | << | < | > | >> |Pagina 15126Il saggio, così come non disdegna di vivere, parimenti non teme il non vivere ulteriormente: per lui la vita non è un male ma neppure crede che lo sia il non vivere più. E così come dei cibi sceglie non già la quantità ma quelli migliori, così del tempo preferisce usufruire non di quello di più lunga durata quanto piuttosto di quello meglio godibile. Chi poi esorta il giovane a bene vivere e il vecchio a ben morire è uomo stolto, non solo per quanto di piacevole vi è sempre nella vita pur nell'età avanzata, ma anche perché unica è l'attitudine a bene vivere e a bene morire. Ancor peggio si comporta chi dica esser preferibile il non essere mai nato "ma, dato che è nato, passare al più presto le porte dell'Ade". | << | < | > | >> |Pagina 19132Non sono certo le bevute prolungate, le feste, il godere di giovanetti e donne né di squisiti pesci e di quant'altro di delizioso possa offrirci una ricca mensa che fanno una vita felice, ma un lucido ragionamento sulle cause di ogni scelta o ripulsa, al fine di rimuovere da noi false opinioni che causano all'animo turbamenti di non piccolo momento. Di tutto ciò principio e massimo bene è la prudente saggezza, che è ancor più apprezzabile della filosofia stessa, poiché da essa procedono tutte le altre virtù. Essa ci insegna infatti che non esiste vita felice che non sia anche prudente, bella e giusta, né si dà vita savia, bella e giusta che sia priva di virtù. Le virtù sono difatti connaturate alla vita felice, che a sua volta è da queste inseparabile. | << | < | > | >> |Pagina 21135È pertanto preferibile esser uomini privi di fortuna ma saggi piuttosto che fortunati ma stolti, ed in concreto è meglio che un bel progetto non vada a buon fine piuttosto che abbia successo uno privo di buon senso. Medita perciò giorno e notte su queste ed altre analoghe riflessioni, medita nel tuo animo e con chi è a te simile: mai sarai dominato da turbamenti sia durante la veglia sia nel sonno. Vivrai invece come un dio in mezzo agli uomini. Non è infatti per nulla simile ad un mortale colui che vive tra beni immortali. | << | < | > | >> |Pagina 23Epicuro e oltre: per un'etica della felicitàIl declino delle dottrine filosofiche socratico-platonica e aristotelica, praticamente contemporaneo a quello della pólis quale entità di riferimento non solo del mondo greco, fu in larga misura la conseguenza della breve ma travolgente rivoluzione operata da Alessandro Magno e del suo sogno di una monarchia universale, almeno in Oriente, retta da un uomo ormai divinizzato. La divisione dell'Impero alessandrino a opera dei Diadochi successiva alla scomparsa del Macedone (323 a. C.), escludeva in ogni caso un ritorno della pólis alla democrazia, sia pure in modo subalterno. Si apriva così un'era nuova, tendenzialmente cosmopolita, nella quale, come osserva Reale con acume, un uomo da "cittadino" diventa "suddito", mentre a nulla più valgono le antiche e diffuse virtù civiche, sostituite da elementi di professionalità, appannaggio di poche persone colte, assai più funzionari che uomini di libero pensiero. Ciò indusse l'uomo, quale individuo – osserva Bignone – a forgiare la propria vita e la propria regola morale, così divenendo "artefice del suo valore e del suo destino, signore a se stesso". Siffatto atteggiamento evolverà successivamente in meno nobili forme di egoismo, con netta separazione tra etica e politica, in totale contrasto con la classica concezione platonico-aristotelica. L'attenuarsi delle barriere culturali tra Greci e "barbari", conseguenza soprattutto della politica multirazziale istituita da Alessandro, contribuì non poco a trasformare la civiltà attica in quella ellenistica, in particolare in alcuni centri quali l'Alessandria dei Tolomei, vero crogiolo delle civiltà dei tre continenti. Tale evoluzione della cultura greca, segnatamente quella filosofica, finì per porre qualche problema centrale, o perlomeno assai importante per i più, quale quello della felicità, con tutte le implicazioni a esso collegate, in particolare moralistiche, d'indiscutibile significato e validità. E ciò anche per i secoli a venire, ancor oggi pregnanti, veri e propri "paradigmi spirituali per sempre", come li definisce Reale. Siamo, in ogni caso, di fronte a un ritorno, voluto o anche solo accaduto, alla filosofia socratica relativamente alla capacità di vivere e di morire, in accordo con la dottrina che privilegiava la saggezza prudente (...) rispetto alla sapienza (...), pensiero non meno degli Stoici che degli Scettici, secondo un concetto di "autarchia", il bastare cioè a se stessi, così escludendo ogni intervento dall'esterno, persino quello del destino. In questo contesto storico-dottrinale verso la metà del IV secolo a. C. fa la sua comparsa una singolare figura di studioso e filosofo, Epicuro. Dall'isola di Samo, ove era nato nel 341 a. C., egli si trasferirà, come apprendiamo dal suo biografo Diogene Laerzio, ad Atene, la capitale degli studi filosofici di tutta l'Ellade, attorno al 306. Erano qui attive le Scuole socratico-platonica, l'Accademia, e aristotelica, il Liceo. Epicuro acquisterà alla periferia della città un grande Giardino, dal quale la sua scuola mutuerà il nome. Anche se in quel periodo di tempo, come sottolinea Vegetti, sembra mancare una vera e propria autonomia dell'etica nell'àmbito delle discipline filosofiche, erano in atto da parte delle diverse scuole dei "previlegiamenti": nel caso di Epicuro – che pure si era occupato di fisica, di fisiologia e di altro – sarà l'etica, con una spiccata declinazione verso l'individualismo e la tendenza a ignorare il problema della pólis. È l'uomo il centro del suo interesse speculativo, l'uomo per sé. L'etica epicurea prende le mosse da quella di Pitagora e si ricollega in certa misura a quella del cirenaico Aristippo con "scopi pratici di avviamento alla felicità", secondo quanto pensa Burckhardt; nel contempo liberando, nella fisica, l'uomo dai pregiudizi maligni relativi al divino. | << | < | > | >> |Pagina 38Con la Collatio Laureationis (1341) di Petrarca siamo di fronte a un vero e proprio Manifesto dell'Umanesimo come lo definisce assai opportunamente Wilkins (1953).E in campo filosofico si apre (Marsilio Ficino) la stagione del naturalismo, tinteggiata tuttavia di dottrine magico-astrologiche, accettate queste persino da veri e propri scienziati quali Copernico e Keplero fino a Tycho Brahe e Galileo. Nel Rinascimento la felicità assume per la maggioranza connotazioni materialistiche, spesso fino alla licenza, in ogni caso con carattere antireligioso, una sorta di eudemonismo, di ricerca a ogni costo del benessere materiale, svincolato da ogni declinazione etica o, nel migliore dei casi, di interesse economico collettivo. Al filosofo e scienziato francese Gassendi (1592-1655) spetta il merito di aver celebrato Epicuro quale maestro di vita e pensiero, nella sua opposizione all'imperante dottrina scolastica della Scuola universitaria di Parigi. Gassendi riprendendo l'adesione allo stoicismo di Charron, epigono di Montaigne, si opporrà all'atteggiamento dogmatico delle differenti dottrine metafisiche. Se all'uomo è preclusa la conoscenza assoluta delle cose — dice Gassendi — è però consentita una conoscenza sperimentale e "fenomenica" basata sull'osservazione dei sensi: dottrina, perciò, anti-aristotelica e anti-socratica e persino anti-cartesiana. Per limitarci al campo dell'etica possiamo dire che in questo contesto filosofico Gassendi accetta la morale epicurea del piacere e della felicità, seguendo però la tradizione platonico-stoica nella valutazione delle virtù che della felicità sono il vero fondamento: posizione quindi contro gli "universali" ritenuti nozioni astratte e di comodo. Solo a Dio compete la conoscenza della Natura, concetto questo che fu anche di Hobbes e poi fino al Vico. | << | < | > | >> |Pagina 51[...] Dice Natoli nel suo saggio La felicità: "La felicità è certo un sentimento, ma più esattamente coincide con la realizzazione della propria vita, è un predicato della vita intera. La felicità non si risolve quindi in attimi assoluti, in momentanei stati di grazia destinati a dissolversi, ma al contrario è – o può divenire – un bene stabile, frutto di una sempre più scaltrita abilità a esistere, a stare al mondo. Da questo punto di vista, come avevano già perfettamente compreso gli Antichi, la felicità risiede nella virtù, intesa però come capacità di conferire senso al mondo, di stabilire rapporti fecondi con gli altri: l' ars vivendi si dispiega come capacità di plasmare e dare forma alla propria vita. La virtù è, dunque, un'estetica dell'esistenza e la vita, riuscita opera d'arte, bellezza".Volentieri concludiamo questo contributo circa l'etica della felicità con le parole di Rawls che riprendiamo da Chiozzi: "Non c'è tipo di società bene ordinata in cui non siano bene affermati i diritti umani". Pertanto "libertà religiosa e libertà di coscienza, libertà politica e libertà costituzionali, ed eguale giustizia per le donne, sono aspetti fondamentali di una sana politica sociale per un' utopia realistica". Si parla da parte di qualcuno di "economia della felicità": non può negarsi. Tuttavia la deprecabile tendenza attuale a sostituire l'etica con il consenso è, con ogni verosimiglianza, un pericolo reale.
La felicità dovrebbe perciò essere vissuta come
ars vivendi
quando è possibile e come è auspicabile, sia nell'ambito di una
koiné
culturale sia nel mondo spirituale del singolo, cioè nel microcosmo individuale,
nel proprio Io-interiore.
|