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| << | < | > | >> |IndiceUna questione di grondaie 9 1 Una targa 2 Donaueschingen contro Furtwangen 3 La relazione 4 Moralisti e geometri alle sorgenti della Breg 5 Mitteleuropa hinternazionale o totale-tedesca? 6 Noteentiendo 7 Homunculus 8 I binari del tempo 9 Bissula 10 La fonte della Brigach 11 I sagrestani di Messkirch 12 La guida di Sigmaringen Il Danubio universale dell'ingegner Neweklowsky 61 1 Credere a Ulm 2 Duemilacentosessantaquattro pagine e cinque chili e novecento grammi di Danubio superiore 3 L'ingegnere fra persuasione e rettorica 4 La negretta del Danubio 5 L'idillio tedesco 6 La presa di Ulm 7 A mani nude contro il Terzo Reich 8 Un funerale 9 Una libbra di pane 10 Al mercato del maiale 11 L'archivista delle villanie 12 Grillparzer e Napoleone 13 Terapia deambulatoria 14 Da Lauingen a Dillingen 15 Il Kitsch del male 16 Una tomba vuota 17 Marieluise Fleisser di Ingolstadt 18 Il Limes 19 Un Walhalla e una rosa 20 Regensburg 21 Nella sala del Reich 22 I sei angoli del nulla 23 L'asino delle palme 24 La grande ruota 25 Eichmann nel convento 26 Le pappagorge di Vilshofen 27 Nella città di Passau 28 Kriemhild e Gudhrun ovvero le due famiglie 29 Sul bell'Inn blu? Nella Wachau 145 1 Un necrologio a Linz 2 Suleika 3 A.E.I.O.U. 4 Di taglio e di punta 5 Un fil di fumo 6 Mauthausen 7 Una goccia d'oblio 8 Anatre a Grein 9 Una torta per l'arciduca 10 Kyselak 11 Vineta del Danubio 12 Ore 10,20 13 Aquila bicipite e aquila marina 14 Kierling, Hauptstrasse Café Central 193 1 Il manichino del poeta 2 La casa di Wittgenstein 3 Santo Stefano 4 La baronessina che non amava Wagner 5 La scalinata di Strudlhof 6 Dorotheum 7 Le bugie dei poeti 8 I Turchi davanti a Vienna 9 Le macchie di sangue 10 Fra gli altri viennesi 11 Un lavoro fruttuoso 12 Gentzgasse, 7 13 Lukàcs a Vienna 14 Solo una domanda 15 Il solito, signore? 16 Josephinum 17 Un cabaret della realtà 18 Rembrandtstrasse, 35 19 Sull'orlo del reale 20 Wiener Gruppe e strip-tease 21 Karl-Marx-Hof 22 Zio Ottone 23 Al Museo Criminale 24 Vissuto lietamente, morto lievemente 25 Berggasse, 19 26 Odissea nello spazio 27 Lo sguardo indietro 28 Parole, parole, parole 29 Eckhartsau 30 Carnuntum 31 Una minoranza che vuole assimilarsi 32 Dov'è Haydn non può succedere nulla 33 Più cupo e più glorioso Castelli e drevenice 255 1 Al Gambero Rosso 2 Dove sono i nostri castelli 3 Quell'oscuro oggetto del desiderio 4 A ognuno la sua ora 5 Una domenica danubiana e proletaria 6 Cimiteri sulla strada 7 Sui Tatra 8 Un antiquariato, la vita e la legge Pannonia 281 1 Alle porte dell'Asia? 2 Il re travestito 3 Kocsis 4 Cingoli nella neve 5 Nel fango pannonico 6 Tristemente magiaro 7 Un busto imperiale nel sottoscala 8 Gli osti di Vác 9 Szentendre 10 Un gelato a Budapest 11 La tomba fra le rose 12 L'epica, il romanzo e le donne 13 Mitteleuropa e antipolitica 14 Due telegrammi 15 Illuminismo curvilineo 16 La biblioteca sul Danubio 17 Un pezzo di Stalin 18 Kalocsa 19 Epilogo a Baja 20 Il vino di Pécs 21 Il falso zar 22 Un violino a Mohks Nonna Anka 341 1 Pensare «in più popoli» 2 Un cavallo verde 3 Il saggio assessore Tipoweiler 4 Un pappagallo poliglotta 5 Sotto il busto di Lenau 6 Vitalità verde 7 Timipara 8 Un destino tedesco 9 La tomba di Octaviàn 10 Un Giove ambiguo 11 La città nell'Est 12 Transsilvanismus 13 Sulla Torre dell'Orologio 14 Sul ciglio del silenzio 15 Ipotesi su un suicidio 16 Subotica o la poesia del falso 17 Novi Sad e dintorni 18 Uomini della frontiera 19 Uno stalinista wertheriano 20 Una saga belgradese 21 Alle Porte di Ferro Una cartografia incerta 395 1 Ils méprisent les Turcs 2 Autobiografia di un aiduco 3 Manoscritti nel Danubio 4 Tartari e circassi 5 L'agente Rojesko 6 L'onda e l'oceano 7 La questione macedone 8 Bulgaria verde 9 I racconti di Cerkazki 10 Il mondo creato da Satanaele 11 La Bibbia dei goti 12 Ruse 13 Un museo stentoreo 14 Graffiti a Ivanovo 15 Il palo della cicogna 16 La casa di Canetti Matoas 423 1 Sulla strada del male 2 Dèi e frittelle 3 Un convegno dislocato 4 La finestra del maresciallo 5 Mahalà e avanguardia 6 La slot-machine della poesia 7 Al Museo del Villaggio 8 Hiroshima 9 Il trofeo di Traiano 10 Mar Nero 11 I1 Cavaliere Trace 12 La città morta 13 Al confine 14 Sul delta 15 In t'el mar grando |
| << | < | > | >> |Pagina 11«Carissimo! L'assessore di Venezia, sig. Maurizio Cecconi, sulla base del progetto allegato ci ha avanzato la proposta di organizzare una mostra sul tema "L'architettura del viaggio: storia ed utopia degli alberghi". La sede prevista è Venezia. Del finanziamento si interesserebbero diverse istituzioni ed organizzazioni. Se Lei vorrà dimostrare interesse per una collaborazione...» Il caloroso invito, recapitato qualche giorno fa, non si rivolge a un destinatario preciso, non nomina la persona o le persone che apostrofa con trasporto; lo slancio affettuoso patrocinato dall'Ente Pubblico trascende le individualità particolari e abbraccia il generale, l'umanità o almeno una larga e fluida comunità di colti e intelligenti. L'allegato progetto — steso da professori delle università di Tübingen e di Padova, articolato secondo una logica rigorosa e corredato di bibliografia — vuole portare all'inesorabile ordine del trattato l'imprevedibilità del viaggio, l'intrico e la dispersione dei sentieri, la casualità delle soste, l'incertezza della sera, l'asimmetria di ogni percorso. Lo schema è la bozza di uno statuto della vita, se è vero che l'esistenza è un viaggio, come si suoi dire, e che passiamo sulla terra come ospiti. Certo, nel mondo amministrato e organizzato su scala planetaria l'avventura e il mistero del viaggio sembrano finiti; già i viaggiatori di Baudelaire, partiti alla ricerca dell'inaudito e pronti a naufragare in questa sortita, trovano nell'ignoto, nonostante ogni disastro imprevisto, lo stesso tedio lasciato a casa. Muoversi, comunque, è meglio che niente: si guarda dal finestrino del treno che precipita nel paesaggio, si offre il viso a un po' di fresco che scende dagli alberi sul viale, mescolandosi alla gente, e qualcosa scorre e passa attraverso il corpo, l'aria s'infila nei vestiti, l'io si dilata e si contrae come una medusa, un po' d'inchiostro trabocca dalla boccetta e si diluisce in un mare color inchiostro. Ma questo blando allentamento dei nessi, che sostituisce l'uniforme con un pigiama, è l'ora di ricreazione nel programma scolastico, più che la promessa del grande dissolvimento, del folle volo in cui si varca il confine. Velleità, diceva Benn, anche quando si sente lo spietato azzurro spalancarsi sotto l'opinabile realtà. Troppi aruspici compiaciuti e perentori ci hanno insegnato che la clausola «tutto compreso» dei tariffari turistici include pure il vento che si leva. Ma rimane, per fortuna, l'avventura della classificazione e del diagramma, la seduzione metodologica; il professore di Tübingen ingaggiato dall'assessore, consapevole che la prosa del mondo minaccia l'odissea, l'esperienza concreta e irripetibile dell'individuo, si rincuora citando a pagina 3 Hegel, grande allievo del seminario teologico della sua città, e ripetendo con lui che il metodo è la costruzione dell'esperienza. Questa panchina di legno, che guarda la sottile striscia d'acqua, invita alla simpatia per il sistematico progetto, trovato nella cassetta della posta poco prima di partire — simpatia per la piccola arte della fuga che si nasconde sotto le arcate dei suoi passaggi logici. Il legno ha un buon odore, un'asciuttezza virile da Cavaliere della valle solitaria, la Breg — o il Danubio? — è un nastro di bronzo che scorre bruno e lucente, e grazie a qualche macchia di neve nel bosco la vita sembra una giornata fresca ed ariosa, una promessa di cielo e di vento. Una felice congiura delle circostanze e una benevola rilassatezza, forse favorita anche dalla cordialità di quel «carissimo», invitano ad aver fiducia nel mondo, e ad accettare pure la sintesi, formulata a chiare lettere dal collega tedesco nel programma veneziano, fra la Scienza della Logica hegeliana e le categorie degli alberghi. È confortevole che il viaggio abbia un'architettura e che sia possibile portarvi qualche pietra, sebbene il viaggiatore sembri non tanto uno che costruisce paesaggi — ufficio del sedentario — quanto uno che li smonta e li disfa, come il barone von R. di cui narra Hoffmann, che girava per il mondo facendo collezioni di panorami e, quando lo riteneva necessario per godere o per creare un bel colpo d'occhio, faceva segare alberi, sfrondare rami, spianare le gibbosità del terreno, abbattere interi boschi o demolire fattorie, se ostacolavano una visuale. Ma anche la distruzione è un'architettura, una decostruzione che segue regole e calcoli, un'arte di scomporre e ricomporre ossia di creare un altro ordine: quando una parete di fogliame cadeva d'improvviso, spalancando una veduta sui ruderi d'un castello lontano nella luce del tramonto, il barone von R. si fermava alcuni minuti a contemplare lo spettacolo che egli stesso aveva messo in scena e poi ripartiva in fretta, per non tornare mai più. Ogni esperienza è il risultato di un tenace metodo, anche la trasparenza del tramonto lontano per il barone von R. o l'aria di neve che arriva a questa panchina della Selva Nera. È nelle classificazioni che la vita rivela il suo struggente balenio, nei protocolli che cercano di catalogarla e ne pongono in tal modo in evidenza l'irriducibile residuo di mistero e di incanto. Così lo schema del progetto dei due espansivi studiosi, articolato come il Tractatus di Wittgenstein (1.1, 1.2, 2.11, 2.12 ecc.), lascia intravvedere, nelle minime fessure fra un numero e l'altro, le indefinite peripezie del viaggiare: distingue alberghi lussuosi (luxuriös), borghesi, semplici, popolari, locali, portuali, di gita, contadini, principeschi, conventuali, di carità, patrizi, di corporazioni artigiane, di dogana, di posta, di carrettieri. Soltanto le tabelle della scienza sanno mettere adeguatamente in risalto l'umorismo metafisico degli oggetti e degli eventi quotidiani, delle loro connessioni e sequenze: nella sezione E, dedicata alle Scene — s'intende quelle che possono svolgersi negli alberghi — si legge, ad un certo punto: «2.13. Erotica: — corteggiare — prostituzione. 2.14. Abluzione. 2.15: Stanze da letto. 2.16. La sveglia». Non so in quale categoria d'albergo rientrerebbe quello di Neu-Eck, nella Selva Nera, a pochi chilometri da questa panchina, nel quale ventitré anni fa, davanti a un sottobicchiere della birra Fürstenberg, un cerchio di cartone con una specie di drago rosso in campo oro orlato di blu e compreso a sua volta in uno sfondo rosso e bianco che roteava fra le nostre mani, si è decisa la mia vita. Partenza e ritorno, le voyage pour connaître ma géographie, come diceva quel pazzo di Parigi. La targa, a pochi metri da questa panchina, indica la — una? — sorgente del Danubio e anzi sottolinea che si tratta di quella principale. Fiume della melodia, lo chiamava Hölderlin presso le sue sorgenti; linguaggio profondo e nascosto degli dèi, strada che univa l'Europa e l'Asia, la Germania e la Grecia, lungo la quale la poesia e il verbo, nel tempo del mito, erano risaliti a portare il senso dell'essere all'occidente tedesco. Sulle rive del fiume, per Hölderlin, c'erano ancora gli dèi: celati, incompresi dagli uomini nella notte dell'esilio e della scissione moderna, ma vivi e presenti; nel sonno della Germania dormiva, intorpidita dalla prosa della realtà ma destinata a risvegliarsi in un utopico futuro, la poesia del cuore, la liberazione, la riconciliazione. Il fiume ha molti nomi. Presso vari popoli, Danubio e Istro indicavano rispettivamente il corso superiore e quello inferiore ma talora anche quello intero: Plinio, Strabone e Tolomeo si chiedevano dove finisse l'uno e iniziasse l'altro, forse in Illiria o alle Porte di Ferro. Il fiume «bisnominis», come lo chiamava Ovidio, trascina la civiltà tedesca, col suo sogno dell'odissea dello spirito che torna a casa, verso oriente e la mescola ad altre civiltà, in tante meticce metamorfosi nelle quali la sua storia trova il suo compimento e la sua caduta. Il germanista, che viaggia a intermittenze, quando e come può, lungo tutto il corso del fiume che tiene insieme il suo mondo, si porta dietro il suo bagaglio di citazioni e di fisime; se il poeta si affida al battello ebbro, il suo supplente cerca di seguire il consiglio di Jean Paul, che suggeriva di raccogliere per strada e annotare immagini, vecchie prefazioni, locandine di teatro, chiacchiere in stazione, poemi e battaglie, scritte funebri, metafisiche, ritagli di giornale, avvisi nelle osterie e nelle parrocchie. Souvenirs, impressions, pensées et paysages pendant un voyage en Orient, dice il titolo di Lamartine. Impressioni e pensieri di chi? Quando si viaggia soli, come succede troppo spesso, bisogna pagare di tasca propria, ma qualche volta la vita è buona e permette di andare in giro e di vedere il mondo, anche soltanto a tratti e per poco, con quei quattro o cinque amici che testimonieranno per noi il giorno del Giudizio, parlando a nostro nome. Fra un viaggio e l'altro, tornati a casa, si cerca di stendere le gonfie cartelle di appunti sulla piana superficie della carta, di trasferire plichi, bloc-notes, dépliants e cataloghi su fogli battuti a macchina. Letteratura come trasloco; qualcosa, come in ogni trasloco, va perso e qualcosa salta fuori da ripostigli dimenticati. Davvero quasi andiamo come orfani, dice Hölderlin nella poesia Alle sorgenti del Danubio — il fiume scorre e scintilla nel sole come il fluire della vita, ma il senso che riluce è un'illusione ottica dello sguardo abbagliato che vede inesistenti macchie luminose sul muro, splendore al neon del dileguare, seduzione dell'apparenza, copertine illustrate. Il riverbero del nulla accende le cose, i barattoli di latta abbandonati sulla spiaggia e i catarifrangenti delle automobili, come il tramonto incendia le finestre. Il fiume non ha alcuna totalità e viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando. Ma il fiume è un vecchio maestro taoista, che lungo le sue rive tiene lezione sulla grande ruota e sugli interstizi fra i suoi raggi. In ogni viaggio c'è almeno un frammento di Sud, ore distese, abbandono, fluire dell'onda. Incurante degli orfani sulle sue sponde, il Danubio scorre verso il mare, verso la grande persuasione. | << | < | > | >> |Pagina 157La sera è fredda e silenziosa, alcuni bambini che trascinano delle slitte non rompono la solitudine e il deserto delle strade, la loro greve malinconia continentale. Sul Friedrichstor di Linz campeggia la celebre sigla sibillina che l'imperatore Federico III, morto probabilmente poco lontano, al n. 10 della Città Vecchia adorna di muti palazzi e di stemmi severi, imprimeva sui suoi oggetti e sui suoi edifici: A.E.I.O.U., forse Austriae est imperare orbi universo oppure Austria erit in orbe ultima. Quest'impero proteso ai confini del mondo e del tempo appariva, allo stesso Federico, insidiato dal declino e piegato dalle sconfitte, tanto che egli lamentava, nel suo diario, come il vessillo d'Austria non fosse vittorioso e cercava di arginare le difficoltà con quella strategia dell'elusione e dell'immobilità che doveva diventare, nei secoli, la statica grandiosa absburgica celebrata da Grillparzer e da Werfel, la riluttanza all'azione, il pathos difensivo di chi punta non a vincere ma a sopravvivere e non ama le guerre perché sa, come Francesco Giuseppe, che le guerre si perdono. Morto nel 1493, Federico III, osserva Adam Wandruszka, mostra già i tipici tratti canonizzati più tardi dal mito absburgico: la simbiosi di inettitudine e saggezza, l'incapacità di agire che trapassa in accorta prudenza e in avveduta strategia, l'esitazione e la contraddizione elevate a linea di condotta permanente, il desiderio di quiete misto alla forza di accettare conflitti interminabili e insolubili. La sigla A.E.I.O.U., di cui esistono anche successive interpretazioni meno rispettose, è divenuta una cifra del post-moderno, l'emblema di un'inadeguatezza e di una difesa obliqua che contrassegnano il nostro io sbilenco e dimesso. Quella grande e struggente tattica di sopravvivenza, che tante volte mi è sembrata uno scudo inappariscente ma non meno protettore di quello di Aiace, stasera mi appare anche in una sua coriacea aridità; una saggezza piena di dignità e d'ironìa, cui è però negata, per un soffio, la rivelazione delle cose ultime, quell'amore che crea e che redime, di cui canta il Veni Creator Spiritus. Questa sera danubiana, di cui l'A.E.I.O.U. è l'insegna densa di gloria e di tramonto, ha una desolazione continentale, l'opacità di pianure e di edifici erariali che ribadisce una vasta monotonia della vita e fa sentire la nostalgia del mare, delle sue variazioni senza fine, del suo vento che dà ala. Sotto il cielo continentale esiste solo il tempo, la sua ripetizione che lo scandisce come l'esercitazione mattutina nel cortile di una caserma, la sua prigione. Nella vetrina di una libreria antiquaria, il volume Danube et Adriatique, del prefetto onorario G. Demorgny (1934), promette una documentata esposizione delle questioni diplomatiche connesse con la libertà di navigazione sul Danubio e con la politica degli stati centroeuropei e balcanici, ma il titolo blu nella copertina bianca incanta, in questo momento, non per l'analisi della questione danubiana ma per quell'altro blu che esso suggerisce, per il richiamo del mare. Anche l'ocra e il giallo-arancione degli edifici danubiani, con la loro rassicurante e malinconica simmetria, sono un colore della mia vita, il colore del confine, del limite, del tempo. Ma quel blu, che la civiltà del Danubio non conosce, è il mare, la vela tesa, il viaggio verso le Nuove Indie e non soltanto nella biblioteca dell'istituto di geografia e cartografia. Dalla prigione continentale del tempo si sogna, comprensibilmente, la libertà marina dell'eterno, come Slataper, leggendo e studiando il grande rigore di Ibsen, sognava ogni tanto gli spazi aperti di Shakespeare. Non sarebbe spiacevole, in questo momento, se risultasse improvvisamente attendibile l'antica e infondata ipotesi riferita a p. 250 del suo libro Il mare Adriatico descritto e illustrato (Zara, 1848) dal dottor Guglielmo Menis, Consigliere di Governo di Sua Maestà, protomedico e referente di sanità per la Dalmazia: «Fu preteso da accreditati scrittori, secondo Plinio, che il fiume Quieto sia l'Ister, ramo del Danubio, per il quale penetrò nell'Adriatico la nave Argo, reduce da Colco». Il Quieto sfocia nell'Adriatico sulla costa dell'Istria, vicino a Cittanova. Se gli accreditati scrittori avessero tuttora credito, invece che verso il Banato, come i coloni svevi sulle «scatole di Ulm», scenderei verso il mare, alle isole dell'Adriatico, ai luoghi nei quali, in qualche istante, mi è parso che il romanzo a puntate iniziato col big bang non appartenga a una dozzinale letteratura d'appendice e che si possa accettare di nascere e morire. Quando si è Zeno o l'uomo senza qualità si sa bene che la partita, per quanto gustose possano essere tante sue mosse, non merita di essere giocata. Non è il caso di far chiasso ed è anzi doveroso far finta di niente, ma il colore ocra-absburgico del tempo suggerisce, con discrezione, che forse sarebbe stato meglio se le sguaiate molecole di idrocarburi non avessero messo in moto, col loro incauto libertinaggio, tutta la faccenda. Gli uomini senza qualità, gli ulissidi continentali in biblioteca hanno gli anticoncezionali sempre in tasca e la cultura mitteleuropea, nel suo complesso, è anche una grandiosa contraccezione intellettuale. Sull'epico mare invece nasce Afrodite, ci si conquista — scrive Conrad — il perdono dei propri peccati e la salvezza della propria anima immortale, ci si ricorda di essere stati dèi. | << | < | > | >> |Pagina 206In piazza Carlo, poco distante dall'Opera viennese, troneggia la finta porta di una tenda gigantesca, che copre la facciata del Künstlerhaus, nel quale è allestita la principale fra le numerose mostre dedicate, nel tricentenario dell'assedio e della battaglia del 1683, ai «Turchi davanti a Vienna», uno dei grandi momenti di scontro frontale fra Oriente e Occidente. Il visitatore che va a vedere la mostra ha l'impressione, per un istante, di entrare nell'enorme padiglione di un condottiero ottomano, in quella tenda che Kara Mustafà, il comandante dell'esercito turco, aveva rizzato, con sfarzo e magnificenza, all'altezza dell'attuale chiesa di Sant'Ulrico, in quello che oggi è il settimo distretto della città. Le proporzioni smisurate della tenda immaginaria evocano del resto la figura del Gran Visir che aveva incarnato la vocazione ottomana al grandioso e all'esorbitante; fra le venticinquemila tende dell'armata turca che, dai primi giorni del luglio 1683, circondava Vienna, Kara Mustafà aveva alloggiato anche le sue millecinquecento concubine custodite da settecento eunuchi neri, tra fontane zampillanti, bagni e quartieri lussuosi, approntati in fretta ma con opulenza. Ora la testa del Visir è conservata nello stesso museo storico della città di Vienna, che — a fianco del Künstlerhaus — ospita anch'esso una delle mostre: sconfitto il 12 settembre 1683 dalle truppe imperiali, comandate da Carlo di Lorena e unite a quelle polacche guidate dal loro re, Giovanni Sobieski, Kara Mustafà fu inseguito e nuovamente battuto a Gran. A Belgrado fu raggiunto dal messo del sultano, che gli portò il laccio di seta col quale i grandi della Mezzaluna caduti in disgrazia presso il loro sovrano, «ombra di Dio sulla terra», venivano strangolati. Il Gran Visir porse la gola ai carnefici, dopo aver steso il tappeto di preghiera, accettando il suo destino in nome di Allah. Quando gli imperiali, decenni dopo, conquistarono Belgrado, qualcuno dissotterrò il suo corpo e portò la sua testa in trofeo a Vienna. Il visitatore che entra nel simulato padiglione, diventando subito egli stesso una figura dell'esposizione, è incerto, non sa se fantasticare di sentirsi preda, uno dei tanti prigionieri condotti schiavi alle tende dell'invasore, o piuttosto predatore, uno dei cavalieri di Sobieski che per un giorno intero, dopo la vittoria, saccheggiarono l'accampamento e la stessa tenda di Kara Mustafà. La mostra non vuole contrapporre vincitori e vinti e tantomeno civiltà e barbarie, bensì suggerire il senso della vanità della vittoria e della sconfitta, che si susseguono e si scambiano le parti per ogni popolo, come la malattia e la salute o come la giovinezza e la vecchiaia per ogni individuo. Aggirandosi fra le sale di questa mostra, il visitatore occidentale, che pure reputa una fortuna la vittoria di quel 12 settembre che ha salvato Vienna e l'Europa, non si sente figlio ed erede soltanto della spada di Carlo di Lorena e di Giovanni Sobieski, o della croce brandita dai grandi predicatori che incitavano a difendere la fede, come Abraham a Sancta Clara, secondo il quale il canone liturgico doveva cedere al cannone, o Marco d'Aviano, il cappuccino friulano. Passeggiando fra quei trofei di vittoria che sono anche relitti di un naufragio, il visitatore si sente figlio ed erede di una storia unitaria nei suoi frammenti, pur dispersi come oggetti di un campo saccheggiato, di una storia che è fatta di croci e di mezzelune, di cordoni di cappuccini e di turbanti. La mostra vuole essere esplicitamente diversa dalle precedenti celebrazioni di quel 1683; cinquant'anni fa Dollfuss, il cancelliere cristiano-sociale, esaltava la liberazione di Vienna all'insegna del suo cattolicesimo corporativo e autoritario da contrapporre al nazismo e al bolscevismo; anni dopo, in un bronzo commemorativo nazionalsocialista, la bandiera dei turchi sconfitti portava, in luogo della mezzaluna, la stella di Davide: i turchi venivano identificati col nemico, ossia con gli ebrei, con una falsificazione che oggi, negli atteggiamenti xenofobi verso i lavoratori stagionali stranieri, rischia di diventare tragicamente vera. Non vogliamo essere gli ebrei di domani, dice un quadro di Akbar Behkalam, nella mostra ospitata nel Muséo del XX secolo e dedicata, da artisti turchi, alla realtà odierna del loro paese e dei suoi emigranti. L'ombra di un nuovo, anche se diverso conflitto incombe sui rapporti fra turchi ed europei, specialmente tedeschi, e solo la chiara consapevolezza del problema può impedire che esso insorga in maniera rovinosa. Respinti trecento anni fa, ora i turchi ritornano in Europa non con le armi, ma col lavoro, con la tenacia dei Gastarbeiter che, sopportando umiliazioni e miserie, mettono a poco a poco radici in una terra che conquistano con la loro oscura fatica. In diverse città della Germania e di altri paesi, le classi scolastiche si spopolano di bambini tedeschi e si riempiono di bambini turchi; l'occidente, che affida alla denatalità il proprio declino, reagisce con ansiosa superbia ai risultati del meccanismo sociale che esso stesso ha messo in moto. È possibile che s'avvicini il momento in cui le diversità storiche, sociali e culturali, mostrino violentemente le difficoltà della convivenza; il nostro futuro dipenderà anche dalla nostra capacità di impedire che si inneschi questa mina dell'odio e che nuove battaglie di Vienna trasformino gli uomini in stranieri e in nemici. La storia mostra come sia difficile, oltre che insensato e crudele, definire chi sia straniero: nel Settecento, ricorda Alessio Bombaci, i turchi stessi sentivano il termine «turco» come un'offesa e la loro storia è una serie di lotte secolari tra popoli diversi, provenienti dalle steppe dell'Asia centrale, che cominciano ad avere consapevolezza di una propria comune identità solo quando l'impero ottomano è prossimo a morire; il primo nome unitario, dato alla Turchia dai vari e spesso reciprocamente ostili popoli d'origine turca, fu il nome di Roma, mamàlik-i-Rum, che indicava il regno selgiuchide. Ma ogni storia ed ogni identità sono costituite da queste difformità, da queste pluralità, da questi scambi e sottrazioni fra elementi etnici e culturali diversi, che fanno di ogni nazione e di ogni individuo dei figli di un reggimento. L'aquila absburgica, che ferma il Gran Turco, copre con le sue ali una molteplicità di stirpi e civiltà quasi altrettanto varia: durante la prima guerra mondiale, quando impero absburgico e ottomano erano alleati, stampe e manifesti austriaci esaltavano la fraternità d'armi con gli antichi nemici. L'incontro fra l'Europa e l'impero ottomano è il grande esempio di due mondi che, aggredendosi e dilaniandosi, finiscono per compenetrarsi impercettibilmente e per arricchirsi a vicenda. Il più grande scrittore occidentale che abbia narrato l'incontro fra quei due mondi, Ivo Andric, è affascinato non a caso dall'immagine del ponte, che ricorre con insistenza nei suoi romanzi e racconti e che simboleggia un'ardua e aspra via di comunicazione gettata oltre barriere di fiumi selvaggi e baratri profondi, di fedi e di stirpi; una via sulla quale si incrociano le armi, ma che finisce per unire a poco a poco i nemici in un mondo variegato eppure unitario come un affresco epico, così come fra le gole balcaniche i soldati turchi e gli aiduchi, i guerriglieri-briganti che li combattono, finiscono per assomigliarsi. | << | < | > | >> |Pagina 419Al numero 12 di Ulica Slavianska, a Ruse, che scende dritta al porto, c'è ancora, accanto al balcone di ferro battuto, un grande monogramma di pietra con una C; la casa a tre piani era la ditta del nonno di Canetti, ora è un negozio di mobili. Il quartiere degli «spanioli» — che un tempo a Ruse erano numerosi, intraprendenti e alquanto esclusivi — mostra invece ancora le case basse fra il verde, in genere a un solo piano. Gli ebrei si trovavano bene in Bulgaria; nel suo libro su Eichmann, Hannah Arendt ricorda come la popolazione bulgara, quando gli alleati nazisti costrinsero il governo di Sofia a imporre agli ebrei il distintivo, rivolgesse manifestazioni di simpatia a chi lo portava e cercasse in genere di ostacolare o attenuare le misure antisemite. Nel quartiere c'è anche la casa d'infanzia di Canetti; è il direttore dei musei cittadini, Stojan Jordanov, uomo di gentile e colta intelligenza, a portarci a questa casa in via Gurko 13, indirizzo che Canetti, nella sua autobiografia, si guarda accuratamente dal precisare. La strada davanti al cancello è sempre «polverosa e sonnolenta», ma il cortile a giardino non è più così spazioso, invaso da altre costruzioni. Alla casa di Canetti, sulla sinistra del cortile, si arriva anche oggi salendo alcuni gradini; l'edificio è diviso in piccoli appartamenti, nel primo abita la famiglia Dakovi, all'ultima porta la signora Valcova, la padrona di casa, ci fa entrare. Le stanze sono inverosimilmente zeppe di oggetti d'ogni genere buttati alla rinfusa, tappeti, coperchi, scatole, valigie, specchi sulle sedie, cartocci, fiori finti, ciabatte, carte, zucche; alle pareti, grandi e sbrecciate fotografie di divi del cinema, una Marina Vlady, un giovane De Sica dal sorriso conquistatore. Qui apriva gli occhi sul mondo uno dei grandi scrittori del secolo, un poeta che avrebbe intuito e rappresentato con eccezionale potenza il delirio dell'epoca, che abbaglia e stravolge la vista del mondo. Fra tutte queste carabattole, nel mistero sempre presente in ogni spazio ritagliato nell'informe universo, qualcosa di irrecuperabile è andato perduto. Anche l'infanzia di Canetti è svanita e la minuziosa autobiografia non riesce ad afferrarla. Mandiamo una cartolina a Canetti, a Zurigo, ma so che non apprezzerà questa intrusione nei suoi domini, nel suo passato, questo tentativo di andare a scovare il suo nascondiglio e di identificarlo. Nella sua autobiografia, che è stata probabilmente determinante per l'assegnazione del premio Nobel, Canetti va alla ricerca di se stesso, dell'autore dell' Auto da fé; il Nobel ha premiato due scrittori, quello di una volta, che si nasconde, e quello di adesso, che riappare. Il primo è un genio misterioso ed anomalo, forse scomparso e inaccessibile per sempre, lo scrittore che nel 1935, a trent'anni, ha pubblicato uno dei grandi libri del secolo, l'unico suo libro veramente grande, Auto da fé, subito quasi scomparso, per un trentennio, dalla scena della letteratura. Quel libro impossibile e spigoloso, che non concede nulla e non si lascia assimilare dall'istituzione culturale, è la grottesca parabola del delirio dell'intelligenza che distrugge la vita, il terribile ritratto della mancanza d'amore e dell'abbagliamento; il suo rigetto, da parte di quell'ideale medietà che è la repubblica letteraria con la sua benintenzionata storiografia, era un fenomeno ovvio, il rifiuto della grandezza radicale e assoluta, indigeribile. Quel libro, che illumina come pochissimi altri la nostra vita, è rimasto a lungo pressoché ignorato, e Canetti ha sopportato quest'emarginazione con una fermezza che celava forse, nella gentile modestia, un'irrefutabile, quasi proterva coscienza del proprio genio. Lo scrittore dell' Auto da fé non avrebbe preso da solo il Nobel, neanche con le sue altre opere d'un tempo; perché questi venisse accettato era forse necessario un altro scrittore, quello che è balzato alla ribalta trent'anni dopo, accompagnando la fortuna del suo libro, riscoperto dalla fama, come se si trattasse di una fortuna postuma e dirigendone la lettura, l'interpretazione, il commento — come se, con decenni di ritardo, si scoprisse il Processo kafkiano e riapparisse Kafka, più anziano e garbato, a far da guida ai propri labirinti. L'autobiografia, che parte dall'infanzia a Ruse, è questa costruzione della propria immagine, questa imposizione dell'autocommento; anziché narrare una realtà viva, la irrigidisce nella descrizione. Canetti vuol raccontare la genesi dell' Auto da fé, ma non dice veramente nulla di quel libro grandioso né del suo inimmaginabile autore, che dev'essersi trovato sull'orlo della catastrofe e del vuoto; non esprime nemmeno il silenzio e l'assenza di quell'autore, di quel suo altro io, il buco nero che l'ha inghiottito e la cui evocazione avrebbe potuto far nascere un altro grande libro, bensì smussa gli spigoli e aggiusta le cose con un tono autorevolmente conciliante, come volesse assicurare che in fondo tutto è a posto. Così il suo libro dice insieme troppo poco e troppo. Credo gli sia difficile accogliere questo giudizio, certo discutibile come ogni altro, ma che nasce dall'amore per lui e dalla sua lezione di verità. Talvolta Canetti assomiglia ai potenti dei suoi libri, a quel loro desiderio di tenere la vita sotto controllo, ch'egli ha indagato e smascherato in Massa e potere; ogni grande scrittore è insidiato dai demoni ch'egli mette a nudo, li conosce perché li ha in se stesso, denuncia la loro potenza in quanto anch'egli rischia di soggiacervi. Sembra che talora egli voglia tenere in pugno il mondo o almeno la propria immagine, nell'inconfessato desiderio che sia soltanto Canetti a parlare di Canetti. Quando la signora Grazia Ara Elias gli scrisse che anche lei era nata e cresciuta a Ruse e ricordava i Canetti e anche il dottor Menachemoff descritto nell'autobiografia, Canetti non rispose; rimase forse inquieto all'idea che qualche altro potesse accampare diritti sull'immagine di Ruse, del dottore e di tutto ciò che egli, per averne scritto, considerava forse sua proprietà esclusiva. Alle sue lettere — con le quali un tempo mi faceva entrare con magnanima generosità nella sua vita e mi aiutava a entrare nella mia — a tutta la sua persona e al suo Auto da fé devo una parte costitutiva, essenziale della mia realtà. La mia accoglienza alla sua autobiografia gli è forse dispiaciuta, ma chi ha imparato da lui a vedere i mille volti del potere ha il dovere di resistere, in suo nome, a questo potere, anche quando esso assume, per un istante, il suo volto. Mentre la signora Vàlcova chiude la porta guardo, verosimilmente per l'ultima volta nella mia vita, quelle stanze affastellate, in cui giocava e cresceva un bambino sconosciuto, un poeta che ha insegnato la fedeltà, la resistenza all'inaccettabile oltraggio della morte. | << | < | > | >> |Pagina 460Il conte István Széchenyi, pioniere delle comunicazioni nell'Europa sudorientale oltre che patriarca del risorgimento ungherese, scriveva il 13 ottobre 1830 al suo amico Lazar Fota Popovich compiacendosi di avere incontrato Milos Obrenovic, principe di Serbia, e di avere trovato in lui un convinto fautore della «Regulation», dei progetti e dei lavori necessari per la navigazione sul Danubio. Széchenyi stava tornando da Costantinopoli e da Galati, dove si era recato per promuovere l'attuazione dei suoi grandiosi disegni; si era spinto sino alle foci e ben oltre le foci, oltre la meta della grande via d'acqua che aveva in mente, e durante il ritorno si era ammalato gravemente, tanto da scrivere al conte Waldstein, dalla nave che lo stava riportando a casa, una lettera che egli pensava fosse il suo testamento politico. In quei mesi, Széchenyi era dunque vissuto, per più ragioni, nel pathos del finire. La Regulation si addice alla fine e al suo avvicinarsi; la conclusione è di competenza di ingegneri, notai e altri addetti al calcolo, alla contabilità e alla registrazione precisa. La morte restituisce alla vita, così approssimata, la dignità dell'ordine: lo sbadato fluire del denaro si compone nella chiarezza del testamento, le liaisons irregolari svaniscono nel nulla e cedono il posto, nei necrologi e nelle condoglianze, ai legittimi coniugi, l'agonia è sorvegliata e misurata come nessun altro momento dell'esistenza. A pagina 745 della sua ponderosa monografia sul Danubio, del 1881, Alexander F. Heksch si preoccupa di tornare sui propri passi e di correggere alcuni dettagli delle descrizioni precedenti, superate dai mutamenti intervenuti nella realtà mentre egli proseguiva la sua descrizione; sino a quel momento non se n'era curato e aveva proceduto spedito e spensierato, ma sul punto di concludere sente la necessità di mettere tutto a posto. C'è solidarietà fra l'allentamento centrifugo proprio alla fine e la mappa catastale che lo protocolla. Il delta, nel quale il battello si addentra e si perde come un tronco alla deriva, è un grande dissolvimento, rami, bracci e rivoli che si disperdono per conto proprio, come gli organi di un corpo che sta cedendo, i quali si disinteressano progressivamente gli uni degli altri; il delta è tuttavia anche una rete perfetta di canali, un'accurata geometria, un capolavoro di «Regulation». È una grande morte tenuta sotto controllo, come quella del maresciallo Tito o di altri protagonisti della storia mondiale — una morte che è incessante rigenerazione, rigoglio di piante e di animali, giunchi ed aironi, storioni, cinghiali e cormorani, frassini e canneti, centodieci specie di pesci e trecento di uccelli, un laboratorio della vita e delle sue forme. Una quercia sradicata marcisce nell'acqua, un avvoltoio piomba fulmineo su una piccola folaga. Una ragazza si toglie i sandali e lascia penzolare le gambe fuori dalla barca, gli atomi legati e compressi in ogni aggregazione premono verso altre combinazioni e altre forme. Il delta è il labirinto dei ghiol, dei sentieri d'acqua che s'intricano fra le canne, ed è la pianta dei canali che regolano il flusso delle acque e i percorsi nel labirinto. L'epos del delta è nelle storie senza nome passate fra le capanne di giunchi e di fango dei pescatori lipoveni, nel ghiaccio e nel disgelo che le inonda, ma anche nei verbali della Commission Européenne du Danube, insediata nel 1856, che fra il 1872 e il 1879 destinava 754.654 franchi alla costruzione delle dighe di Sulina. | << | < | > | >> |Pagina 467Non c'è confine fra la terra e l'acqua, le strade che nei villaggi conducono da una casa all'altra sono ora viottoli coperti d'erba ora canali sui quali fluttuano giunchi e ninfee; terra e fiume trapassano e sfumano una nell'altro, i «plaur» ricoperti di canne fluitano come alberi alla deriva o si attaccano al fondo come isole, non per nulla esiste una Venezia del delta, Valcov, con le cupole della sua chiesa.Zaharia Haralambie, vicino al Miglio 23, sull'antico corso del Danubio a doppia ansa nei pressi del canale che porta a Sulina, è il guardiano della riserva di pellicani; per tutta la vita ascolta i loro gridi e lo sbattere delle loro ali. Come gli altri lipoveni, ha un viso franco e aperto, un'innocenza senza timore. I bambini, che ci hanno circondato in frotta appena siamo scesi, si tuffano nel fiume e lo bevono, si rincorrono senza far distinzione fra l'acqua e la terra. Le donne sono ciarliere, amabili, inclini a una spigliata familiarità, che induce Cisek, nel suo romanzo, a incoraggianti fantasie amorose. Il delta è il grande abbandono del fluire, universo liquido che libera e scioglie, foglie che si lasciano andare e portare dalla corrente. Dove finisce il Danubio? In questo incessante finire non c'è una fine, c'è solo un verbo all'infinito presente. I rami del fiume se ne vanno ognuno per conto proprio, si emancipano dall'imperiosa unità-identità, muoiono quando gli pare, uno un po' prima e uno un po' dopo, come il cuore, le unghie o i capelli che il certificato di morte scioglie dal vincolo di reciproca fedeltà. Il filosofo avrebbe difficoltà, in questo intrico, a puntare il dito per indicare il Danubio, la sua precisa ostensione diverrebbe un incerto gesto circolare, vagamente ecumenico, perché il Danubio è dappertutto e anche la sua fine è dovunque in ognuno dei 4300 chilometri quadrati del delta. Büsching menzionava sette bocche come l'antico Ammiano, Kleemann — nel 1764 — ne contava cinque come Erodoto e Strabone, Sigmund von Birken le elencava secondo i nomi che aveva trovato in Plinio: Hierostomun ovvero bocca sacra, Narcostomum o pigra, Calostomum ossia bella, Pseudostomum cioè falsa, Boreostomum o bocca del nord, Stenostomum vale a dire stretta, Spirostomum, bocca a spire serpentine. I bracci ufficiali, partendo da Tulcea, sono tre: quello di Chilia, a nord, che entra a sua volta nel mare attraverso quarantacinque bocche, in territorio sovietico, e versa due terzi dell'acqua e dei detriti del Danubio; quello centrale di Sulina, che si getta diritto nel Mar Nero grazie alla canalizzazione operata fra il 1880 e il 1902, che ne rende agevole la navigazione e simbolicamente rettilineo e deciso il percorso; quello di Sfîntu Gheorghe, a sud, serpentino e attorcigliato, al quale il Danubio deve la lunghezza canonica attribuitagli nei manuali; a rigore ce n'è un quarto, il canale Dunavàt, che si divarica dal precedente e scende, indietreggiando verso sud-ovest, al grande lago Razin, nel quale peraltro si getta pure il canale Dranov, che esce dal medesimo braccio. Non è certo il caso, per stabilire la foce, di accapigliarsi indecorosamente, come per le sorgenti, ma è opportuno lasciare morire chiunque in pace, uomo, fiume o animale, senza neanche domandargli come si chiama. È lecito forse scegliere la bocca del Danubio a seconda del nome, per amore di una conclusione pigra e divagante, come promette Narcostomum, o per l'attrazione di quel rimescolamento estremo di carte, di quell'asso nella manica che lascia intravvedere Pseudostomum, la bocca falsa; coerenza e malìa dovrebbero certo indurmi a optare per bocca sacra, perché, secondo Sigmund Birken, nei suoi pressi sorgeva una città chiamata anticamente Istropolis.
La confusione si sta facendo veramente eccessiva, come quando i vecchi
s'imbrogliano su nomi e date, sbagliando di decenni e confondendo i vivi con i
defunti. La scelta, dunque, non può essere che convenzionale, arbitraria, come
si conviene all'epoca del nichilismo compiuto; se non c'è verità, il criterio
operativo è determinabile a piacere, come le regole degli scacchi o i segni del
codice stradale. La linea retta che conduce a Sulina si addice al decisionismo e
inoltre la sua efficiente navigabilità, ottenuta mercé la canalizzazione,
solletica ogni amante della «Regulation». È inteso, dunque, che il Danubio
finisce a Sulina.
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