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| << | < | > | >> |Pagina 9Ovviamente il signor Rakesh Ahuja ministro per lo Sviluppo urbano non poteva dire a suo figlio che la signora Ahuja lo attraeva sessualmente solo quando era incinta. Che gli piaceva tanto il morbido rigonfiamento alieno del suo ventre, o il triplice battito dei loro cuori mentre facevano l'amore, silenziosi, scivolando l'uno sull'altra. Che il fievole battito cardiaco del feto scorreva sotto quello sempre più accelerato di marito e moglie calmandolo, e trattenendo lui dall'eiaculazione precoce. O che, quando la sua fantasia galoppava, a volte gli sembrava di vedere gli occhi non ancora nati del feto guardarlo per chiedergli un altro fratellino, e supplicare, e singhiozzare, e gemere attraverso la gola riarsa di sua moglie... Era mattina, e il signor Ahuja aspettava alla fermata dell'autobus insieme al suo primogenito Arjun. Il sole sembrava galleggiare sopra Delhi come una grande sfera d'acciaio incandescente, la città intera esplodeva di miraggi e di riflessi che ferivano gli occhi, Maruti, Toyota e Ambassador scintillanti scorrevano via velocissime nella loro eleganza metallizzata. Strati di nuvole si ammucchiavano sopra la città. Marciapiedi gessosi vorticavano in mulinelli di polvere. Fortunatamente il signor Ahuja e Arjun erano all'ombra, sotto un albero. Il ministro, un signore di mezz'età, stava diventando un po' duro d'orecchi il rumore del traffico sulla Modi Estate Road gli arrivava come l'indistinto ronzio di una cascata , eppure sì, l'aveva sentita, la domanda di Arjun. E la domanda era: «Papà, non capisco: perché tu e mamma continuate a fare bambini?». Il ragazzo l'aveva posta con tutta la discrezione possibile a una fermata dell'autobus. Aveva aspettato che i suoi fratelli Rita, Sahil, Rahul, Varun, Tanya, Aneesha e Rishi se ne fossero andati. Poi si era avvicinato al papà (quel papà che insisteva sempre ad accompagnare all'autobus gli otto dei suoi tredici figli che andavano già a scuola) e aveva sputato fuori quella domanda con la repentinità con cui l'arbitro lancia la moneta prima di una partita di cricket. Ormai le parole erano state pronunciate, e Arjun si voltò con disinvoltura dall'altra parte, infilò le mani nelle tasche bucate e si grattò una coscia pelosa. I pantaloni bianchi della scuola gli andavano corti, e gli risalivano un po' attorno alle caviglie. Poi il signor Ahuja e Arjun videro lo scuolabus della Delhi Transport Corporation fluttuare in un trasparente miraggio di gas di scarico e asfalto arroventato. Il tempo stava per scadere. In fin dei conti, tutto considerato, il signor Ahuja decise che l'autobus non poteva averla vinta. E rispose: «Figlio, ti ho parlato delle conclusioni raggiunte dalla Commissione Yograj, giusto? E allora? Sai bene che non sono un fanatico, ma quei risultati erano sicuri al cento per cento. In India c'è bisogno di più indù». «Dunque io voglio dire, noi saremmo solo una necessità politica, per te?» domandò ancora Arjun, voltandosi per guardare di sottecchi suo padre. «No, figlio. Ma sai come vanno queste cose: i musulmani hanno talmente tante mogli, le loro famiglie non fanno che crescere, e noi indù...» «Ma almeno lo sai, come mi chiamo?» protestò Arjun. «Figlio!»
Arjun fece roteare lo zaino con gesto teatrale, salì sull'autobus e
scomparve.
Lo scuolabus accelerò pesantemente. Tutti i bambini si inclinarono da una parte, e per un attimo le loro bottiglie d'acqua ondeggiarono in aria, disancorate, con un rumore sciabordante. Mentre scannerizzava le teste sobbalzanti in cerca di un posto libero, Arjun avrebbe voluto saper borbottare tra sé e sé ("Quei fottutissimi politici vogliono che i fottutissimi indù non facciano altro che fottere e fottere"). Abilità che peraltro, a casa sua, sarebbe stata del tutto inutile, dato che con il suo semisordo papà anche la conversazione più normale era per lui un borbottare tra sé e sé. Che fortuna, pensò: l'unico sedile vuoto era quello accanto ad Aarti, una ragazza del vicino convento di Gesù e Maria che gli piaceva abbastanza da spingerlo ad affrontare i soliti fuochi artificiali di battute e sfottò che scoppiavano dai sedili posteriori ogni volta che parlava con una ragazza, anche se ormai aveva sedici anni. Quel giorno però le azioni di disturbo sembrava fossero sospese. Aarti chiuse il manuale di fisica che stava leggendo e si misero a chiacchierare. Parlarono di questo e di quello, di Bryan Adams, del più e del meno, dell'evergreen di Bryan Adams Summer of '69, non è vero che ha una bellissima voce roca, e hai visto il nuovo video del concerto di Bombay, e non ti sembra fantastico quel verso in cui dice: «In piedi sotto il portico di tua madre, mi hai detto che sarebbe durata per sempre, era estate, l'estate del '69»? Di cosa stava parlando, Arjun, della sua infanzia perduta o dell'appena conquistata virilità? In realtà avrebbe voluto dirle quanto odiava il rito mattutino alla fermata dell'autobus, quegli otto ragazzini intruppati al seguito di un uomo mezzo sordo che ogni poco si dividevano in gruppuscoli e fazioni contrapposti con la volubilità di politici consumati ogni fazione una campagna elettorale di vocette stridule e di stupide scommesse su chi sarebbe riuscito a gettare la bottiglia d'acqua di Rita più lontano in mezzo al traffico senza spaccare il parabrezza di un'auto, tanto per fare un esempio , tutto un caos senza senso che si calmava solo quando arrivava l'autobus e si portava via la piccola folla urlante e scalciante. Ma la famiglia non è una folla confusa. La famiglia è un sistema solare. La famiglia ha pianeti e satelliti, e di tanto in tanto un bambino vi fa la sua fuggevole comparsa per schizzare subito via come un meteorite miagolante. Essendo più grande, e di quattro anni (gli altri non distavano tra loro più di nove, dodici mesi), Arjun aveva ormai giocato tutti i ruoli possibili in quel sistema in perenne evoluzione: Plutone, il Sole, Giove. Tutti tranne quello di un satellite, in realtà. Già a tredici anni aveva fatto da capobranco al posto di mamma, in convalescenza dopo una gravidanza difficile, e aveva imparato a destreggiarsi tra dieci ragazzini che gli orbitavano attorno inciampando nelle stringhe slacciate per conquistarsi un pezzetto di lui e aspettando il suo giudizio sui contorti nodi delle loro cravatte di scuola... E ora? Ora era di nuovo Plutone: freddo, periferico, poco importante. Doveva ancora cantare ninnananne ai più piccoli e consolare mamma, incinta, fischiettandole le canzoni dei film, ma per il resto si sentiva intrappolato da ventiquattro occhi indagatori che gli giravano attorno e lo vedevano solo come un grave pericolo incombente sul loro nutrimento personale alla mensa serale. Perché, essendo il più grande, Arjun era anche quello che mangiava di più. In casa non c'era la benché minima privacy: cosa che odiava. La notte prima, per esempio, alle 23.35 dello Standard Time indiano, entrando nella stanza dei bambìni, per esattamente 1,67 secondi aveva visto i suoi genitori che lo facevano. Là, nel piccolo spazio tra le culle, sul pavimento rosa stinto, mamma sdraiata sulla schiena con una camicia da notte a pois, papà che ondeggiava un po' malfermo sul suo ventre ingrossato con le fauci del pigiama attorno alle caviglie. I quattro bebè nelle culle strillavano a più non posso; il signor Ahuja, in preda al panico, si era voltato; Arjun era indietreggiato in corridoio, incespícando. L'impressione che gliene era rimasta era di un'eruzione cutanea più che di una fotografia: il negativo della sua stessa pelle esposto alla luce. Immediatamente l'avevano assalito mille domande. Com'era possibile che mamma e papà facessero ancora sesso? Come potevano i loro corpi bitorzoluti ammucchiarsi l'uno sull'altro, ciascuno perso nell'ampia, flaccida superficie della pelle dell'altro? Era sesso, oppure nuoto? Lui aveva sempre pensato che i suoi facessero sesso mentre i bambini erano a scuola. E forse lo facevano, pensò. Forse lo stavano facendo proprio in quel momento. Quel pensiero lo infastidiva, e a mo' di vendetta sui suoi vecchi disse ad Aarti: «A proposito, ti ho mai parlato della mia band? Ultimamente suoniamo delle cover di Bryan Adams. Non so, dei lati B, per esempio». «Davvero?» si incuriosì lei. «Sì. Dovresti venire a sentirci!» Passarono su una serie di cavalcavia, e il conducente lasciò eroicamente accelerare l'autobus giù per la discesa. Quei cavalcavia erano le scopate di cemento di papà, pensò Arjun. Stavano sorgendo un po' in tutta Delhi per volontà del signor Ahuja, ministro per lo Sviluppo urbano, al fine di liberare la città dai semafori favorendo lo scorrimento del traffico: molti però erano ancora in costruzione, con le due arcate gemelle congelate a mezz'aria come lingue incapaci di toccarsi. Chissà com'era il contatto lingua contro lingua. «Mi piacerebbe molto», disse Aarti. Arrivarono a scuola. «Ci vediamo dopo, okay, ciao!» salutò lui girando sui tacchi e incamminandosi verso il cancello del Saint Columba. Lei non disse niente, si limitò a guardarlo negli occhi: era un buon segno, Arjun avrebbe voluto darsi una pacca sulla spalla da solo, Dio, era così carina! Con quel nasino leggermente all'insù e quel modo di fingersi interessata a qualsiasi cosa dicesse e le due grandi pozze degli occhi così vaste e castane e pazienti! E il modo in cui se ne stava quasi sempre seduta sull'autobus con i capelli ben lisciati sulla spalla sinistra e un bloc notes tenuto alla giusta angolazione per assicurare ad Arjun la massima leggibilità (le piaceva giocare a tris, alla parola misteriosa, all'impiccato, vestigia non ancora rimosse delle elementari), la penna sospesa nella sua direzione come un microfono, la spallina del reggiseno tesa sotto la stoffa aderente della camicetta, oddío. I suoi sguardi erano come arabeschi, rapidi, spesso inoffensivi, assolutamente affascinanti; ogni nuovo disegno di quelle sopracciglia, il più delle volte scherzose, era in grado di distrarre completamente Arjun dalle pur notevoli stravaganze del traffico pomeridiano. Ogni giorno la grafia di Aarti era una festa per i suoi occhi. Quell'inchiostro blu scuro elettrificato attorno a lampadine di spazio bianco. Avrebbe potuto cadere in picchiata dentro quelle lettere. Ma ormai la gigantesca croce della cappella incombeva su di lui. All'improvviso desiderò non averle mentito riguardo alla band. Sul momento, però, gli era sembrata una buona idea. E poi era probabilmente l'unica cosa che quegli spioni dei suoi genitori e dei suoi fratelli ancora non sapessero di lui. Che era una rockstar. | << | < | > | >> |Pagina 41Nel frattempo il signor Ahuja rassegnava le dimissioni in onore di Arjun. Decidere di dimettersi era abbastanza facile per lui: nel corso della sua carriera l'aveva già fatto sessantadue volte. Aveva imparato prestissimo che in un sistema politico letargico schiacciato da sottocommissioni indolenti, parlamenti pigri e promesse quinquennali il modo più rapido per spingere all'azione un governo di cui si facesse parte era quello di sollevare un tremendo polverone. Riconsegnare le proprie «carte». Lamentarsi con la stampa. La specifica delle ragioni per cui si dimetteva era grossomodo la seguente: Per seccature causate dai colleghi riguardo al progetto Cavalcavia per lo scorrimento veloce: 37. Per l'offerta di una fetta di tangente: 15. Per la legislazione antimusulmana (per esempio cambiare nome alle vie di Delhi in modo, da avere una distribuzione di nomi musulmani e indù proporzionale alla quota corrispondente di popolazione, oppure fondare un museo dell'Olocausto indù, secondo cui quasi dieci milioni di indù sarebbero stati massacrati dagli invasori musulmani): 6. Per la mancata offerta di una fetta di tangente (una di quelle rare tangenti pagate a tutti i membri del partito: e allora perché proprio lui ne era rimasto tagliato fuori? Non aveva forse tredici figli da mantenere?): 2.
Per commenti maligni sulla sua pianificazione familiare: 2.
Ciò che sarebbe successo dopo l'invio della lettera di dimissioni era mera routine. Si sarebbe preso una giornata libera. Non avrebbe risposto al telefono e si sarebbe rifiutato di cancellare dei file. La super primo ministro signora Rupa Bhalla gli avrebbe telefonato dicendo: «Qual è il problema?». Poi, quando il signor Ahuja le avesse detto tutto, lei l'avrebbe blandito con qualche moina e invitato a cena e pregato di restare. «Suvvia, troviamo un compromesso», avrebbe detto. Lui le avrebbe risposto di no. Lei l'avrebbe supplicato, il piccolo nodo tremante delle mani sulla coscia pantagruelica. Lui si sarebbe mostrato colpito. Avrebbe deciso di restare. La cosa più importante era che il tutto avesse la prevedibilità di un «applauso strappa bis». E con ciò il più delle volte il problema era risolto. Ed ecco il signor Ahuja seduto nel suo ufficio presso il ministero per lo Sviluppo urbano intento a giocherellare con la logora scatola di cartapesta contenente le sue precedenti sessantadue lettere di dimissioni scritte su carta intestata. Per la prima volta aveva dovuto cercare attivamente una ragione per dimettersi. In realtà voleva solo disporre di un giorno libero per parlare con Arjun. Premette il bottone del cicalino. Sentì tossire alle sue spalle. Si voltò. Era Sunil Kumar, addetto ai cicalini, fuco di pura rappresentanza dell'alveare burocratico, approvvigionatore di tè: Sunil Kumar era lì, al suo cospetto, in una posa di assoluta deferenza. «Portami un tè», disse il signor Ahuja. «Sissignore. E c'è anche un documento per lei dal ministero per le Minoranze etniche.» E scomparve. Qualche minuto dopo tornò, ma senza il tè. «Il documento?» chiese il signor Ahuja a Sunil Kumar guardando fuori dalla finestra. «Il documento è già nel suo ufficio.» Sunil Kumar stava gridando, ma né lui né il signor Ahuja se ne accorgevano. Anni di lavoro fianco a fianco avevano garantito loro una sordità analoga. «Qui non c'è, yaar. Sennò non ti avrei chiamato», ripeté il signor Ahuja parlando al vetro. All'improvviso gli sembrò di essere davanti a una grande manifestazione di piazza, appollaiato su un trespolo alto quattro piani, affabile e solenne dentro una gigantesca scatola di vetro antiproiettile. L'unico difetto in quell'immagine era che la folla sembrava essere dentro la scatola insieme a lui. Non c'era via di scampo. «Mi sembra triste, signore», commentò Sunil. «Non è una bella cosa quando il naso di un grand'uomo tocca il vetro della finestra, no?» «Come?» «Signore, vede l'uccello sulla sua scrivania?» Indicò un piccolo soprammobile sul tavolo del signor Ahuja, un uccellino d'argento in pericolante, magico equilibrio sulla punta del becco, con il resto del corpo sospeso in aria come un'altalena in attesa di ricadere. «Ecco, signore, anche per un grand'uomo il naso è il centro di gravità. Quindi, signore, se preme il naso contro il vetro lei dimostra forse una tristezza ben più profonda.» «Stai dicendo delle sciocchezze. Cos'è, vuoi diventare poeta come Vajpayee? Avanti, passami quel documento.» «Quale documento?» «Hai appena detto di avermelo dato. E adesso mi domandi quale documento?» «Ma signore...» «Il documento del ministero per le Minoranze etniche!» gridò il signor Ahuja voltandosi verso Sunil. Il suo naso ormai era sufficientemente congelato. «Oh, signore.» «Che c'è?» fece il signor Ahuja. «Che c'è?» «Θ lì, sotto il becco dell'uccello.» C'era. Il signor Ahuja aprì la busta con l'indice e ne estrasse un documento di una sola pagina, ciclostilato in modo grossolano. Era un progetto di legge intitolato Diversità etnica della madrepatria. Il testo, redatto su carta sottile, di consistenza burrosa, trasparente nella fioca luce dell'ufficio, sarebbe stato messo ai voti di lì a una decina di giorni: era un documento pericolosamente parafascista sulla registrazione obbligatoria di tutti i musulmani «per ragioni di diversità etnica e di sicurezza nazionale». Il signor Ahuja lo riconobbe subito per averlo veementemente osteggiato nell'incontro di gabinetto di due settimane prima. | << | < | > | >> |Pagina 70La sua mente schizzò all'indietro, agli anni trascorsi in America. La confortevole intimità della loro casetta in periferia, le due auto parcheggiate nel vialetto, pronte a partire. Il gelo. L'odore di Montpelier, nel Vermont, in autunno, come una lama ghiacciata tenuta vicino al naso. E sotto il mulinello di foglie rosse, il fruscio dei piedi sul ghiaietto gelato. Come ci si teneva stretti contro il freddo, un grande abbraccio, la loro piccola famiglia.Rakesh, Rashmi e Arjun. Scioccato da quell'immagine, dalla sua sensuale nitidezza, aprì di colpo gli occhi. Fino a quel momento non aveva mai sentito la mancanza dell'America. Solo la prima volta che era tornato in India, in vacanza, fresco della memoria delle località allattate di neve del Vermont, aveva fatto un paragone tra l'India e l'America, e anche allora inconsciamente. Gli piaceva pensarsi come un populista istruito - "Datemi un'ascella umida, e vi darò un naso da laureato per annusarla!" - ma il continuo senso di inadeguatezza provato in America gli aveva lasciato una vera e propria ossessione per gli odori. Prima di una festa, mentre Rashmi si drappeggiava in un kanjivaram, lui si profumava le ascelle al punto che un cieco avrebbe potuto scambiare quegli incavi per pot-pourri pelosi. Una volta, mentre parlava gesticolando con foga, piccole scaglie di deodorante solido gli erano piovute giù dalle braccia: «Non è forfora!» si era affrettato a spiegare a un gruppo di americani stupefatti. «E deorfora!» Quegli americani profumati di sapone lo approvarono, ridendo della sua goffa battuta: solo Rashmi lo folgorò con uno sguardo dei suoi occhioni teatrali. In momenti del genere Rakesh andava nel panico, dimenticava la fine delle barzellette, si impappinava e precipitava ulteriormente nell'ignominia delle battute da party. Dopotutto voleva solo fare colpo su sua moglie: l'amava così tanto. Quando lei morì, e lui si vide costretto a scrutare in un infinito futuro senza di lei, si domandò cosa ci sarebbe andato a fare a cene e ricevimenti senza Rashmi. Con chi sarebbe tornato a casa ridendo della sciocca naοveté di quegli amichevoli americani? Una famosa domanda su cui avevano passato tutta la notte a ridere, con un cuscino stretto tra i loro corpi, era la seguente: «Se posso permettermi, sa, io non sono mai stata in India, quindi mi perdoni, forse sto pensando all'animale sbagliato, ma, signora Ahuja, nel vostro paese è normale che la gente possieda un elefante come noi qui possediamo un cavallo?». Rashmi aveva risposto alla vecchia signora: «Ma certo, è ovvio, sennò come faremmo a raggiungere l'aeroporto?». Quando lui e Arjun presero l'aereo per tornare in India e far cremare Rashmi, era quella l'unica frase che gli venisse in mente per compendiare l'America. Odiava terribilmente l'America. L'odiava per avergli strappato Rashmi, e perché la US Airways gli aveva appena servito una frittella con una piccola confezione di liquido che somigliava esattamente allo sciroppo d'acero e invece era salsa di soia, e la salsa di soia con le frittelle dolci è la ricetta giusta per il mal d'aria. L'odiava così tanto che nella sua mente esplodeva solo quell'unica, sciocca frase possedete un elefante? su cui intendeva costruire un intero progetto di sfottimento eterno. Da quel momento in poi avrebbe dedicato tutta la sua vita all'obiettivo di tenere un elefante nella sua casa di Delhi e di guidarlo senza vergogna in giro per Khan Market, DK Market, South Extension, Paranthe Kee Gulley, in qualsiasi direzione il vento avesse spinto la grossa creatura con le orecchie da Dumbo. E avrebbe portato solo abiti color zafferano, e non si sarebbe lavato mai, e si sarebbe fatto un punto d'onore di puzzare terribilmente. Avrebbe permesso al suo elefante di depositare dove meglio gli piacesse gigantesche montagne di merda, così i curiosi turisti americani avrebbero potuto seguirlo in lunghi codazzi fotografando la merda dell'Estremo Oriente! E se l'avessero invitato a una festa avrebbe detto: «Solo se invitate anche il mio elefante e non accennate mai alla stranezza della sua presenza. Perché parlandone potreste suggerire agli americani che avere un elefante è di fatto piuttosto raro in un insediamento urbano dell'India moderna, e ciò gli spezzerebbe il cuore. Dunque, cosa preferite? Mantenere un silenzio glaciale sull'argomento o rimandare a casa quei poveri americani in lacrime, con il cuore spezzato per sempre?». Al ristorante avrebbe protestato se il cameriere gli avesse detto: «Vuole una doggy-bag, signore?». «Le sembro il tipo che possiede un cagnolino? Sono le mani di un proprietario di cagnolino, queste?» Di notte avrebbe lasciato dormire il suo elefante sul vialetto di casa, e l'avrebbe lavato come un meccanico innamorato lava la sua auto e lo avrebbe chiamato PINKY. Ma gli piaceva soprattutto pensare al momento in cui sarebbe andato dai suoi genitori dicendo: «Mamma, papà, esco a comprare un elefante», godendosi la loro espressione sbalordita. «Ti andrebbe una tazza di tè?» avrebbero detto loro. «State divagando.» «Ma figlio, non siamo stati dei buoni genitori per te? Non ti abbiamo forse portato ogni terza luna piena allo zoo di Delhi passando dallo speciale ingresso riservato?» «No, voi mi avete dato alla luce e alla tristezza, e adesso l'unica cosa che posso dirvi è che nella mia vita ci vuole un elefante.» «Che ne diresti di una seconda moglie?» «Una seconda moglie?» «Le mogli sono molto meglio, non trovi? Si possono cavalcare anche loro. E poi producono meno sterco, e richiedono meno manutenzione.» Si era riscosso dalla sua visione sentendo piangere Arjun, che aveva tre anni raggomitolato in una culla fornita dalla linea aerea e si era vergognato che in quel quadro il piccolo non ci fosse affatto mentre già veniva nominata una nuova moglie. Perché lui sarebbe rimasto single, sposato solo con la memoria di Rashmi. Doveva vivere per l'ultimo vestigio rimasto di lei, suo figlio. Doveva diventare ricco per Arjun e non abbandonarsi alla depressione. Ma cosa poteva fare, ora che aveva lasciato il dottorato? Rakesh Ahuja si rannicchiò nel posto di corridoio del volo 232 della US Airways e pianse. | << | < | > | >> |Pagina 158Il signor Ahuja propose: «Vieni, saliamo in macchina, siediti qui accanto a me. Facciamoci una bella chiacchierata da padre a figlio».Restarono in piedi, le ginocchia goffamente piegate nel piccolo spazio tra le auto. Il signor Ahuja chiese all'autista, che l'aveva aspettato fumando con una gamba fuori dalla macchina, di tornarsene a casa in autobus. «Voglio guidare io», spiegò. L'autista gli diede le chiavi e se ne andò. Il signor Ahuja indicò la portiera. «Avanti, sali che ci facciamo questa chiacchierata da padre a figlio.» «Questa è già una chiacchierata da padre a figlio», gli fece notare Arjun. «Molto divertente, ragazzo. Ma stasera voglio parlarti di una cosa seria. Sali.» «Papà, lo so già come funziona il sesso. Ho sedici anni.» «Ma certo, beta, è ovvio! Al giorno d'oggi i ragazzi sanno già tutto sull'argomento, dico bene? Ma vorrei approfittare di questa occasione per parlarti di... be', per rispondere a una domanda che mi hai fatto qualche anno fa.» «Quale domanda?» «Ecco. Ricordi di avermi chiesto perché il tuo pene è diverso da quello degli altri ragazzi?» «Cosa? Io? No.» «Sì, tu, certo che me l'hai chiesto. E io ti ho risposto che era perché loro hanno un cappuccio di pelle e tu no. Non te lo ricordi?» «No.» Questo tormentoso scambio di battute aveva uno scopo. Il signor Ahuja pensava di poter usare la circoncisione obbligatoria eseguita su Arjun in America per passare, sfumando, al tema di Rashmi, un po' come con quel trucco fotografico che permette di vedere un fiore ritirarsi in pochi istanti nel suo bocciolo. Un liofilizzato di vita. Pene circonciso = America = Rashmi. Più tardi il signor Ahuja si sarebbe domandato se invece non avesse voluto piuttosto prendersi un'inconscia rivincita su Arjun per ciò che aveva visto. Contrattaccare con un altro segreto sessuale. «Un attimo di pazienza, per favore. Presto ti sarà tutto chiaro. Non te lo dico per punzecchiarti. Ma c'è una ragione per cui gli altri ragazzi hanno quel cappuccio di pelle e tu no. E vorrei spiegartela bene.» «Come fai a sapere che aspetto ha il mio pene?» «Sono tuo padre! Ovvio che so com'è fatta ogni singola parte del tuo corpo! Io ti ho messo al mondo...» «Veramente è stata mamma a mettermi al mondo», lo corresse Arjun. «Mentre tu stavi a guardare.» «Giusto», ammise il signor Ahuja. «Ma ogni tanto ti ho fatto il bagnetto.» «Non voglio parlarne.» «Okay, capisco che sia un argomento delicato, ma è anche molto importante, e voglio che tu sappia che il tuo pene è perfettamente normale. Θ diverso solo perché...» «Lo so! Papà, possono SENTIRCI!» «No, no, non ci sente nessuno. Siamo nel parcheggio.» «NO, SEI SOLO TU A NON SENTIRCI!» «Okay, okay», si corresse il signor Ahuja. Decise di fare un passo indietro. «Solo non volevo che arrivassi alla conclusione che siccome sei circonciso vuol dire che sei musulmano o qualcosa del genere. Da un po' di tempo escono talmente tanti film in cui gli uomini circoncisi vengono presi per musulmani e uccisi in qualche sommossa o arrestati come terroristi, e volevo solo che tu sapessi...» «Chi è circonciso?» «Ma lo sai: il tuo pene.» «Ti odio», disse Arjun. «Come?» «Ti odio», ripeté Arjun, quasi in lacrime. «Θ questo che un figlio ha bisogno di sentirsi dire da suo padre? Un giudizio sulle dimensioni del suo pene? Ciao, figlio, il tuo pene è normale o decisamente grosso o un po' piccolino, ma comunque è circonciso?» «Arjun, NON ALZARE LA VOCE CON ME!» Arjun si avviò verso i cancelli dell'ospedale. Rakesh gli gridò dietro: «CIR-CON-CI-SO SIGNIFICA CHE NON HAI IL CAPPUCCIO DI PELLE! SIGNIFICA CHE NON HAI LA PELLE!». E Arjun, da sopra la spalla: «E TU NON HAI CUORE!». Quella replica colpì il signor Ahuja come una palla da tennis schiacciata con una racchetta male accordata. Il corpo gli vibrò attorno alla colonna vertebrale, sconvolta e tremante. Cosa c'era che non andava in lui? Gli sembrava di gestire il suo colpevole segreto camminando sulle parole come su un cestino di uova, eppure ogni tentativo di conversazione con suo figlio si rivelava subito un fallimento. Arjun si fermò accanto al cancello dell'ospedale, di spalle, a braccia incrociate, i capelli umidi e appiccicosi di sudore; e a quel punto il signor Ahuja sentì di essere davvero arrabbiato. Innanzitutto per l'intrusione di Arjun nella stanza dei bambini della notte prima, poi per questo match di grida e litigi. Non intendeva più sopportare la costante mancanza di rispetto di suo figlio. Desiderava mandarlo al tappeto con il suo segreto, costringendolo alla sottomissione. Ma non era così che aveva immaginato di dirglielo. Parlare con Arjun era qualcosa di diverso dai discorsetti contriti con cui spiegava agli abitanti dei villaggi della sua circoscrizione elettorale che purtroppo avrebbero dovuto aspettare altri cinque mesi per l'allacciamento alle condutture dell'acqua potabile. Ma ormai non sarebbe nemmeno più stato un dialogo. Né una scoperta accidentale, né una parola scappata a Sangita senza volere. Sarebbe stato: «ADESSO BASTA, ARJUN. QUANDO Θ TROPPO Θ TROPPO. DACCI UN TAGLIO. NON PERMETTERTI MAI PIΩ DI PARLARMI IN QUESTO MODO, INTESI? COME OSI ALZARE LA VOCE CON ME? IO SONO TUO PADRE, E SE USERAI ANCORA QUESTO TONO CON ME TRA NOI Θ FINITA. NON ASPETTARTI PIΩ NESSUN AIUTO DA PARTE MIA, NON ASPETTARTI AMORE, NON ASPETTARTI NIENTE». Poi, quando Arjun gli si avvicinò, abbassò la voce in un sussurro: «Dai amore a qualcuno e in cambio cosa ottieni? Solo delusioni. Non intendo tollerare un secondo di più questo tuo atteggiamento. Capito?» «Scusa, papà.» «Bene, adesso andiamo. Sali in macchina. Ho qualcosa di importante da dirti. Una cosa che riguarda tua madre.» Ma nel tempo che il signor Ahuja impiegò a prender posto sul sedile del conducente e a uscire dal parcheggio, Arjun recuperò qualcosa della sua solita insolenza. Così quando il signor Ahuja disse: «Sai, io non la volevo sposare, tua madre», lui replicò: «Oh, davvero?». Il signor Ahuja stentava a credere alle sue orecchie. Suo figlio non sapeva cosa fosse la solidarietà. Aveva allevato un ragazzo spietato, capace di qualsiasi cosa. Mentre Arjun gli teneva il broncio, il senso di oppressione che il signor Ahuja provava sempre sulle strade di Delhi era più intenso che mai: i pedali bollenti dell'auto gli si appiccicavano alla suola delle scarpe; le luci del traffico erano brillanti, sgargianti, accecanti, nugoli di zanzare si aprivano e si richiudevano al passaggio di ogni veicolo come fragili reti; in gola si sentiva la solita secchezza che provava ogni mattina dopo caffè e banana; e suo figlio era al peggio della testardaggine. Poi si vide con gli occhi di Arjun. Un uomo talmente incapace di giustificare la sua libidine da camuffare i grugniti sotto i vagiti dei neonati. Anzi, no. Un'analisi di questo tipo era già un'aspettativa esagerata. Non c'erano occhi attraverso cui vedersi: suo figlio era lontano. Il signor Ahuja cercava di interpretare ogni atteggiamento di Arjun. Sembrava annoiato. Schiacciò una zanzara sul vetro del finestrino. Forse, pensò il signor Ahuja, non gli aveva dato abbastanza credito. Dirgli: «Non volevo sposare tua madre» era evidente come dire: «Non la amo», e questo Arjun lo sapeva (già dire tua madre era un paradosso. Non l'amava nemmeno abbastanza da chiamarla per nome. La teneva a distanza riferendosi a lei come tua madre). Probabilmente Arjun aveva guardato abbastanza televisione da conoscere i va e vieni dei matrimoni combinati; da sapere che perfino gli oroscopi più accuratamente preparati danno origine a matrimoni spaventosi; che l'indifferenza tra un uomo e una donna è palpabile anche nel cibo che viene messo in tavola ogni giorno. Li aveva visti interagire ogni giorno, i suoi genitori. Ora il signor Ahuja tirava fuori un'ovvietà, ed era logico che Arjun si sentisse insultato invece che solidale, mentre il signor Ahuja voleva essere compatito. Compatito perché doveva fare sesso con una come Sangita. Dimostrare di essere anche lui una vittima. Di essere stato incastrato in una vita che non avrebbe mai voluto vivere. E non poté più trattenersi. «Tu non sai cosa mi ha fatto tua madre», disse. «Non ne hai la più pallida idea. Mi era stata mostrata un'altra ragazza. Ma il giorno delle nozze, sotto la tenda, c'era tua madre. Andai avanti perché non ne ero del tutto sicuro. Perché non volevo fare una scenata. Ma più tardi ne fui sicuro.» Il signor Ahuja si pentì subito di quella confessione. Aveva insudiciato la memoria di Rashmi con l'autocompassione. Aveva dato ad Arjun un'arma da usare contro i suoi fratelli. Si era mostrato profondamente vulnerabile, capace di lasciarsi ingannare nella vita e nel matrimonio, un uomo a pezzi dietro una facciata stoica. Era un mostro che si batteva contro un altro mostro. «Papà?» fece Arjun. «Perché mi dici queste cose?» «Perché sono vere», rispose lui. «Ma non è possibile. Tu l'hai vista. L'hai sposata. Non ci credo. Com'è possibile? No, non ci credo.» «Lei aveva progettato tutto. La prima notte di nozze si è confusi. Non ho divorziato da lei perché...» «Confusi?» sogghignò Arjun. «Be'...» «Papà, è pur sempre mia madre.» «No», disse il signor Arjun sobbalzando di sollievo. «Non lo è.» «Cosa?» esclamò Arjun. Ma la prima cosa che pensò non fu: "Mi hanno mentito per tutta la vita, mi hanno tradito", bensì: "Non posso credere che questa sia la prima volta che restiamo soli in quasi un anno". «Ma certo che è mia madre!» gridò Arjun. «Solo perché tu non la ami...» «Basta!» lo interruppe il signor Ahuja. «Adesso ascolta. Cosa ti ho detto poco fa?» «Scusa, papà.» «Ecco, Arjun. Θ questa la cosa che volevo dirti. Che tua madre Sangita non è la tua vera madre. La tua vera madre era un'altra, la mia prima moglie. Mi dispiace non avertelo detto prima. Ma quando tua madre è morta avevi solo tre anni. Non ti ricordavi nemmeno di lei, quindi a che pro? Non te l'ho detto perché pensavo che ci saresti stato male, che ti saresti sentito diverso. Ma non sei diverso. Questo lo sai. Anche Sangita ti ha sempre trattato come gli altri. Qualunque cosa si possa dire di lei, è stata una brava madre. E mi dispiace avertelo detto in questo modo. Ecco perché sei circonciso: perché sei nato in America. Là, quasi tutti i bambini vengono circoncisi alla nascita. Io ci ero andato per studiare ingegneria, poi sei nato tu. Alla fine noi due siamo tornati in India perché tua madre era morta.» «Come è morta?» «In un incidente d'auto.» «In America?» «In America.» «Era stato un matrimonio d'amore?» C'era qualcosa di definitivo in quella domanda; da quel momento in poi Arjun avrebbe fatto solo domande di tipo sentimentale: «Cosa le piaceva? Cosa mangiava? Che genere di barzellette la faceva ridere?». Già la domanda: «Era stato un matrimonio d'amore?» aveva un che di sentimentale, sotto il manto dì una questione istituzionale. «Sì», disse il signor Ahuja. «Era stato un matrimonio d'amore.»
Arjun strinse i denti e cercò di mostrarsi incredulo, ma
non ci riuscì.
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