Copertina
Autore Naghib Mahfuz
Titolo Tra i due palazzi
SottotitoloLa trilogia del Cairo
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 1996, Narrativa nuova , pag. 654, cop.fle., dim. 142x210x40 mm , Isbn 978-88-7937-179-7
OriginaleBain el-Qasrain [1956]
TraduttoreClelia Sarnelli Cerqua
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe narrativa egiziana
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Pagina 11

Si svegliò a mezzanotte in punto, come sua abitudine, ogni notte, alla stessa ora, senza aiuto di una sveglia o di altro ma spinta da un desiderio tutto interno che la costringeva, suo malgrado, ad aprire gli occhi con precisa puntualità.

Restò per alcuni momenti al margine della realtà, abbandonata alle visioni dei sogni e ai bisbiglii della percezione cosciente finché, prima di sollevare le palpebre, venne colpita dall'improvvisa ansia che la invadeva quotidianamente nel timore che il sonno l'avesse ingannata.

Scosse leggermente la testa e aprì gli occhi nella profonda oscurità della stanza. Non il minimo indizio che le consentisse di farsi un'idea circa l'ora: giù, la strada non si addormentava fino ai primi bagliori dell'alba. I frammenti di chiacchiere dei frequentatori abituali dei caffè e dei proprietari delle bettole che le giungevano fin dall'inizio della notte, erano gli stessi che si prolungavano fino a mezzanotte e a poco prima dell'aurora. Quindi, nessun segno di riferimento sul quale poter contare, al di fuori dell'intuizione intima, sorta di orologio cosciente, e del silenzio che avvolgeva la casa, segno che suo marito non aveva ancora bussato alla porta, né urtato i gradini della scala con la punta del bastone.

La svegliava a quell'ora una vecchia abitudine acquisita nella prima giovinezza e conservata ancora in età adulta, anzi fatta sua insieme ad un certo numero di regole della vita coniugale; era quell'abitudine a volerla in piedi nel bel mezzo della notte in attesa che il marito rientrasse dalle uscite notturne e lei potesse servirlo fino a che si addormentava.

D'un tratto si drizzò sul letto per superare la dolce seduzione del sonno e, dopo aver invocato il nome di Allah clemente, misericordioso, si alzò scivolando da sotto le coperte. Camminando a tentoni, orientandosi sulla colonna del letto e sul battente della finestra, raggiunse la porta, e l'aprì, lasciando entrare un tenue raggio di luce che sfuggiva dalla lampada posata sulla mensola dell'anticamera.

Si avvicinò timidamente, l'afferrò e la portò nella camera dove il margine del vetro proiettò sul soffitto un cerchio tremolante di luce diafana circondata di oscurità. La posò su un tavolino di fronte al divano. La lampada illuminò tutta la stanza che apparve nell'ampio pavimento quadrato, nelle alte pareti e nel soffitto segnato da travi parallele, evidenziandone il ricco mobilio: il tappeto di Shiraz, il grande letto incorniciato da quattro colonne di ottone, l'armadio massiccio e il largo divano ricoperto da un piccolo tappeto dalle tinte e dai motivi vari.

Si diresse verso lo specchio, vi gettò uno sguardo e, vedendo che il fazzoletto scuro che aveva in testa, tutto sgualcito e scivolato all'indietro, lasciava intravedere sulla fronte ciocche disordinate di capelli castani, ne afferrò il nodo con la punta delle dita, lo sciolse e se lo aggiustò sui capelli riallacciandone accuratamente le due estremità con un gesto misurato. Poi, con i palmi, si strofinò le guance come per cancellare le ultime tracce di sonno.

Era una donna sulla quarantina, di statura media, minuta a prima vista, ma che nascondeva sotto la pelle sottile un corpo dalle forme rotonde e piene, contenute nei limiti di una figura armoniosa. Aveva un viso allungato, sovrastato da una fronte alta, fine nei tratti, con due begli occhietti in cui brillava uno sguardo sognatore dolce come il miele, un nasino sottile, leggermente allargato alle narici e una bocca dalle esili labbra da cui partiva la curva di un mento affilato. Sul suo colorito dorato e splendente spiccava, all'altezza dello zigomo, un neo di un nero puro.

Drappeggiandosi nel suo velo sembrò lasciarsi andare alla fretta, si diresse verso la porta della mashrabiyya, l'aprì, vi entrò e rimase ferma nello spazio chiuso, lasciando vagare lo sguardo da destra a sinistra, attraverso i sottili trafori circolari dei pannelli, verso la strada.

Sulla fontana di Bain el-Qasrain si affacciava la mashrabiyya al di sotto della quale si incrociavano la strada omonima che saliva verso il nord e quella dei Nahhàsin che scendeva verso il sud.

A sinistra la via appariva stretta, sinuosa, avvolta nell'ombra spessa dei piani superiori, lungo i quali si allineavano le finestre delle abitazioni addormentate, ombra che si stemperava nei piani inferiori grazie alle lampade dei carretti a mano, alle insegne dei caffè o delle poche bettole dove la veglia si protraeva fino all'aurora. A destra la via era avvolta nell'oscurità, priva com'era di caffè ma caratterizzata da grandi magazzini che chiudevano presto. Nulla, su quello sfondo, attirava lo sguardo, al di fuori dei minareti di Qalàwun e di Barquq che avevano sembianze di giganti facenti la guardia alla luce delle stelle luccicanti. Una vista dalla quale i suoi occhi erano attratti, da un quarto di secolo, senza provarne noia alcuna, anche se, probabilmente, durante tutto il corso della sua pur monotona vita, non aveva mai conosciuto cosa fosse la noia. In quella vista, al contrario, aveva trovato la compagnia alla solitudine e l'amicizia pur nell'isolamento del lungo periodo di tempo in cui aveva vissuto senza né compagno né amico alcuno. Ciò avveniva prima che nascessero i figli, quando quella grande casa dal cortile polveroso, con il pozzo profondo, i suoi due piani e le stanze immense dal soffitto smisurato, ospitava lei sola, per la maggior parte del giorno e della notte.

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Pagina 106

Poi la schiena della fanciulla si raddrizzò lentamente ed ella si levò in piedi sul fondo del carro, aprì la sua melàya e, avendone afferrati i lembi si mise a scuoterla con le mani con colpetti che si susseguivano, quasi fosse un uccello che batte le ali. Poi se l'arrotolò per benino attorno al corpo in modo da evidenziare la delicatezza delle forme e dei particolari e da mettere soprattutto in luce un sedere ben colmo. Si sedette infine nella parte posteriore del carro e, sotto la pressione, le sue natiche si gonfiarono a sinistra e a destra come due sfere di cristallo... Quale cuscino straordinario!...

Yàsin si alzò, uscì dal caffè ed avendo visto che il carro si era già avviato lo seguì con passo tranquillo, ma respirando affannosamente e a denti stretti per la forte emozione. Il carro andava avanti per la sua strada lentamente, barcollando un po', sballottando le donne a destra e a sinistra sul fondo. Il giovane concentrò lo sguardo sul «cuscino» della liutista, seguendone con gli occhi il dondolio fino al punto da immaginarselo in un giro di danza!! L'oscurità aveva cominciato ad avvolgere la stretta via e molte botteghe stavano chiudendo. A quell'ora i passanti erano soprattutto operai estenuati di ritorno a casa e Yàsin, fra l'oscurità e la folla di gente stremata, ebbe larga possibilità di riempirsi di ogni particolare lo sguardo per poi trasmutare, con serena tranquillità, il tutto in oggetto di sogno... «Oh mio Dio, fa' che questa strada non termini mai, che questo movimento di danza non abbia mai fine... Che sedere degno di un sultano, sedere che mettendo insieme arroganza e dolcezza, permette di coglierne, anche a un pover'uomo come me, con una semplice occhiata, sia la morbidezza che la robustezza... e quell'eccezionale solco che lo divide a metà viene espresso e sottolineato perfino attraverso la melaya... e tutto ciò che si nasconde là sotto è sicuramente ancora più grandioso... comincio a capire perché qualcuno fa due genuflessioni prima di consumare il matrimonio con la sposa, poiché questa non è forse come una qubba? Anzi aggiungerei che, sotto quella cupola, c'è uno sheikh... e, parola mia, sono uno dei tanti fanatici di quello sheikh... Ya hòh!... oh Adawi ...». Tossicchiò mentre il carro si accostava alla porta el-Metwalli. Zannúba si voltò indietro e lo vide. Allora egli ebbe l'impressione, vedendola girare la testa, di aver colto sulle sue labbra il felice annuncio di un sorriso. Il cuore gli si mise a battere a gran colpi e l'ebbrezza di una gioia ardente lo inondò in tutto il suo essere. Il carro oltrepassò la porta el-Metwalli e proseguì a sinistra. Là, egli fu costretto a smettere di seguirla, avendo notato, a pochi passi, i segni di una festa: addobbi, luci e una folla allegra. Ritornò un po' sui suoi passi, senza lasciare con lo sguardo la liutista e, divorandola con gli occhi, la osservò mentre ella scendeva dal carro e gli rivolgeva un'occhiata scherzosa prima di dirigersi verso la casa della sposa, la cui porta la sottrasse alla sua vista nel frastuono degli acuti trilli di gioia delle donne presenti.

Yàsin emise un ardente sospiro, la confusione lo prese alla gola e sembrò angosciato, come se non sapesse dove andare. «Che Allah maledica gli Australiani! Dove sei Azbakiyya, perché io riversi in te le mie pene e le mie afflizioni e riacquisti — grazie a te — un po' di pazienza...». Tornando indietro farfugliò: «Incamminiamoci verso l'unica consolazione rimasta... Costaki». Non appena ebbe pronunciato il nome del droghiere greco, una fresca rugiada portò sollievo alla sua mente in preda al desiderio febbrile di bevande alcooliche. Nella sua vita le donne e il bere erano inseparabili, si integravano a vicenda. Si era dato al bere frequentando le donne ed ormai, con l'abitudine, il bere era diventato causa e strumento del suo stesso piacere, sebbene non sempre, necessariamente, per lui le donne e il vino dovessero essere inseparabili. E, nelle tante notti in cui gli erano mancate le donne, non gli era rimasto che l'alcool per alleviargli lo struggimento. E così, giorno dopo giorno, e per forza d'abitudine, aveva maturato una sorta di dipendenza dall'alcool.

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Pagina 223

Quando ebbe posato i piedi sul pavimento della moschea, la donna si senti struggere di dolcezza, di affetto e di tenerezza, trasformarsi in spirito volteggiante che batte le ali in un cielo che diffonde da tutte le parti il profumo della profezia e della rivelazione. Gli occhi le si riempirono di lacrime, aiutandola ad alleviare la viva agitazione del seno, il calore dell'amore e della fede e il fiorire della gratitudine e della gioia. Con occhi che ardevano di desiderio iniziò ad esplorare, a divorare con gli occhi i muri, il soffitto, le colonne, i tappeti, i lampadari, il minbar. Kamàl, al suo fianco, osservava tutte quelle cose da un altro punto di vista, molto personale: si chiedeva se, per caso, la moschea mèta di visite per le persone durante la giornata e la prima parte della notte, diventasse poi casa in cui il legittimo titolare, morto martire, andasse e venisse, disponendo di tutti i mobili che c'erano come qualunque proprietario dispone dei suoi beni. Forse faceva un giro tutt'intorno, andava a pregare nel mihràb, saliva sul minbar e si sollevava all'altezza delle finestre per dare uno sguardo al quartiere circostante. Quanto avrebbe desiderato Kamàl, nei suoi vaneggiamenti, di esser dimenticato nella moschea, dopo la chiusura delle porte, per potersi trovare faccia a faccia con el-Husein e trascorrere alla Sua presenza un'intera notte fino al mattino! Immaginava tutte le manifestazioni di amore e di sottomissione che sarebbe stato in grado di offrirgli al momento dell'incontro, le speranze e i desideri che avrebbe potuto deporre ai piedi del martire, l'affetto e la benedizione che si aspettava di riceverne. Immaginò se stesso mentre gli si avvicinava con la testa china e il martire che gli chiedeva con dolcezza: «Chi sei?». «Sono Kamàl Ahmad Abd el-Gawwad», gli avrebbe risposto baciandogli la mano... Poi el-Husein gli avrebbe chiesto del suo lavoro ed egli in risposta: «Sono uno scolaro della Khalil Aghà», senza dimenticare di sottolineare che era un allievo eccellente... E ancora gli avrebbe chiesto cosa lo portasse lì a quell'ora della notte ed egli avrebbe parlato del suo amore per la famiglia del Profeta in generale, e per el-Husein in particolare. Al che il martire gli avrebbe sorriso teneramente e gli avrebbe chiesto di accompagnarlo nel suo giro notturno mentre egli, Kamàl, gli avrebbe rivelato tutti i suoi desideri, dicendo: «Garantiscimi che potrò giocare come voglio a casa e fuori, che Aisha e Khadiga rimarranno sempre a casa con noi, che cambierai il carattere di mio padre e manterrai in vita mia madre per l'eternità, che avrò denaro sufficiente e che andremo tutti in Paradiso senza esser sottoposti al Giudizio divino...».

Nel frattempo, il flusso strisciante delle visitatrici che avanzava lentamente li spingeva pian piano ed essi si ritrovarono laddove era la tomba. Amina aveva spesso desiderato ardentemente recarsi a visitare quel luogo, così come ci si strugge per un sogno impossibile da realizzare in questo mondo; ed ecco che trovandovisi ora ritta davanti, anzi come incollata alle pareti della tomba stessa, il suo animo la contemplava attraverso le lacrime. Le sarebbe piaciuto prendersela con comodo per assaporare il gusto della felicità, se non fosse stato per la pressione della folla. Tese la mano verso il recinto di legno che circondava la tomba e Kamal seguì il suo esempio; poi recitarono la Fàtiha. Ella passò quindi la mano sul recinto e lo baciò, continuando instancabilmente le sue preghiere e le sue suppliche. Le sarebbe piaciuto rimanere lì in piedi a lungo, o sedersi in un angolo per contemplare e meditare ancora, e ripetere il tawaf. Ma il sorvegliante della moschea teneva d'occhio tutte quante e non permetteva a nessuna d'indugiare, esortando quelle che procedevano con lentezza e agitando il suo lungo bastone in segno d'avvertimento, invitando tutte a voler terminare la visita prima dell'inizio della preghiera del venerdì.

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Ma la festa di matrimonio comprendeva agli occhi del sayyed Ahmad significati diversi dall'austerità forzata in una riunione piacevole e allegra, significati che riguardavano solo lui in quanto padre dotato di una natura fuori del comune. L'idea del matrimonio della figlia continuava a procurargli una sensazione strana, spiacevole, anche se né la sua ragione né la sua morale l'approvavano. Questo non significava comunque che egli non desiderasse far sposare le figlie poiché in effetti, come tutti i padri, si augurava per loro «una protezione». Ma forse aveva ardentemente sperato che il matrimonio non fosse l'unico mezzo per raggiungere tale «protezione». Forse avrebbe desiderato che Allah creasse le ragazze secondo una natura non implicante necessariamente il matrimonio, o forse avrebbe sperato almeno di non avere figlie femmine; tutte speranze, le sue, che non si erano mai realizzate e che non vi era alcun modo di far realizzare. Non gli rimaneva altro, allora, che sperare nel matrimonio per le sue figlie, se non altro nello stesso modo in cui l'uomo, a volte, dovendo rinunciare ad una vita eterna, si augura una morte nobile, una morte tranquilla! Aveva spesso espresso questa sua avversione in modi contrastanti, sia coscientemente sia inconsciamente. Gli capitava di dire ad alcuni suoi amici cari: «Mi chiedi cosa significa mettere al mondo delle femmine?... È una disgrazia contro la quale non possiamo far nulla! In ogni caso è nostro dovere ringraziare Allah! Ciò non vuol dire che non amo le mie figlie perché in realtà le amo quanto Yasin, Fahmi e Kamal, né più né meno, ma come posso essere tranquillo sapendo che un giorno le consegnerò a un estraneo di cui, qualunque sia la sua apparenza, solo Allah conosce profondamente la natura intima? Che può fare una ragazza debole di fronte a un estraneo, quando è lontana dalla protezione del padre?... Cosa sarebbe di lei se il marito la ripudiasse un giorno e, essendole già morto il padre, ella andasse a rifugiarsi nella casa di un fratello per vivervi da reietta? Non mi preoccupo affatto per nessuno dei miei figli maschi perché, qualunque cosa possa accadere a uno di loro, si tratta pur sempre di un uomo in grado di affrontare la vita... ma una ragazza! Oh, Dio mio, proteggici!». Diceva anche, con un tono quasi sincero: «Una ragazza è veramente un problema... Che ne dici: non tralasciamo nulla per educarla, allevarla bene, proteggerla, custodirla!... Ma che te ne pare? Dopo tutto questo, la portiamo noi stessi ad un estraneo perché ne faccia quel che vuole!... Lode ad Allah, e nessun altro oltre Lui sia lodato per una contrarietà...».

Questa strana sensazione di angoscia si concretizzava nello sguardo critico con il quale guardava Khalil Shawkat, lo sposo. Uno sguardo inquisitorio, ipercritico che si rifiutava di recedere prima di esser riuscito a scovare un difetto che accontentasse il suo accanimento, come se Khalil non appartenesse alla famiglia Shawkat alla quale il sayyed era unito da legami di amicizia e fedeltà da molto tempo, come se non fosse il giovane al quale tutti quelli che lo vedevano riconoscevano doti di virilità, di generosità e di prestigio. Non aveva potuto disconoscere nessuna delle sue qualità ma si era soffermato a lungo sul viso fiorente del giovane e sullo sguardo pacifico e greve dei suoi occhi che davano l'impressione di pigrizia; aveva potuto tranquillamente dedurne i segni animaleschi lasciati nella sua vita dall'ozio e diceva fra sé e sé: «Non è che un bue, vive solo per mangiare e dormire!». In effetti, avergli riconosciuto in un primo momento delle qualità e aver ricercato in lui, in seguito, un qualunque difetto da affibbiargli, erano solo espressioni di una sentimentalità che rifletteva il desiderio nascosto nel suo animo di far sposare la figlia, misto a una repulsione per l'idea stessa del matrimonio. Così, il riconoscimento delle qualità aveva spianato il terreno al matrimonio e la ricerca dei difetti aveva rianimato il sentimento di ostilità, proprio come accade all'oppiomane che, sottomesso dal piacere e terrorizzato dal danno ch'esso rappresenta, va alla ricerca dell'oppio con ogni mezzo, pur maledicendolo.

Comunque, in compagnia degli amici del cuore, fece finta di dimenticare quegli strani sentimenti, lasciandosi a volte distrarre dalla conversazione, altre volte prestando ascolto alla musica. Aprì il suo cuore al compiacimento ed all'allegria e implorò per la figlia felicità e vita tranquilla; perfino il suo sguardo critico nei confronti di Khalil Shawkat si trasformò in sentimento di sarcasmo non privo di indignazione.

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