Copertina
Autore Danilo Mainardi
Titolo l'animale irrazionale
Sottotitolol'uomo, la natura e i limiti della ragione
EdizioneMondadori, Milano, 2001, Saggi , pag. 166, dim. 150x223x20 mm , Isbn 978-88-04-48837-8
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe evoluzione , biologia , scienze umane , scienze naturali , scienze cognitive , etologia , zoologia
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Indice


  3    I L'etologia può spiegarci perché
         crediamo?
         Il problema, 3 - Una premessa, 4 - Sul
         metodo comparativo, 7 - Il percorso,
         13

 17   II La consapevolezza
         L'autoconsapevolezza, 17 -
         La consapevolezza della morte, 27

 33  III La capacità di mentire
         La duplice natura della menzogna, 33 -
         Mentire agli altri e a se stessi, 42

 51   IV La superstizione
         L'origine della superstizione, 51 -
         Sviluppi e ricadute, 54

 59    V La cultura
         Culture animali, 59 - Culture gelide,
         culture bollenti, 65 - Tradizioni: le
         culture di mezzo, 76

 81   VI Il rito
         L'utilità degli accessori, 81 - La
         ritualizzazione biologica, 82 - Dalla
         ritualizzazione biologica a quella
         culturale: un intermezzo zoologico, 85
         - Il rito nella specie umana, 87

 97  VII Il potere
         La ritualizzazione dell'aggressività,
         97 - Un'escursione nell'etologia
         umana, 103 - La casta degli anziani,
         il principio d'autorità, il superalfa,
         108

115 VIII L'uomo esce data natura
         Sapore di miele, 115 - La strategia
         dell'aquila, 117 - Evoluzione
         biologica, evoluzione culturale, 126 -
         Dalla strategia K alla strategia r,
         128 - Le specializzazioni culturali,
         132

135   IX L'etologia può spiegarci perché
         crediamo
         Fare la somma dei preadattamenti, 135
         - La specie e gli individui, 143 -
         Vivere nel passato, nel presente, nel
         futuro, 147 - La pseudospeciazione,
         149 - La centralità della cultura
         naturalistica, 152

155      Letture consigliate

161      Indice analitico

 

 

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Pagina 3

I
L'etologia può spiegarci
perché crediamo?


Il problema

L'uomo è, tra gli animali, il più razionale. Eppure anche in quest'epoca dominata dalla scienza, o almeno dove la scienza ha prodotto straordinari avanzamenti conoscitivi, l'uomo continua a credere in una varietà di fenomeni, esseri o entità di non provata esistenza. Dalla telepatia ai rabdomanti, all'anima, alla sopravvivenza dopo la morte, alla reincarnazione, a un qualche dio, agli angeli, a cure non scientifiche del cancro, all'astrologia, alla lettura dei tarocchi e della mano. E l'elenco potrebbe continuare, ma non è l'enumerazione di casi che qui interessa, è la misteriosa capacità della nostra specie di possedere in contemporanea due strumenti alternativi, il conoscere e il credere, e su questa base duplice e diversa fabbricarsi una cultura e uno stile di vita. E poco itnporta, a questo livello, la distinzione tra la parola fede (che compare per gli importanti credo religiosi) e la parola superstizione (usata invece dispregiativamente), e ancora poco importano i tentativi di gerarchizzazione tra fede e ragione (si pensi all'assunto medievale: philosophia ancilla theologiae). Anche questo, certo, è un discorso interessante, però sta a valle del fenomeno di cui si vuole trattare in questo saggio.

A monte sta la domanda: perché si crede? Per definizione, si crede quando non si conosce «per ragione», ciò nonostante anche la persona più intelligente, la più colta, può nutrire una convinzione, addirittura una certezza, «per fede». Esiste, per esempio, una minoranza di scienziati indubbiamente preparati che pure professa un credo religioso (negli Stati Uniti il 39,3% tra gli scienziati in genere, il 7% tra quelli di maggior prestigio, di cui solo il 2% di biologi; questo secondo quanto asserito dalla rivista «Nature», 23.7.1998). E sì che gli scienziati dovrebbero avere il culto della ragione; eppure, di norma trincerandosi dietro l'adusata argomentazione delle aree di competenza, trovano anche loro uno spazio per credere.

Ecco allora che diviene interessante interrogarsi su che cosa determini, in certe circostanze o a proposito di determinati argomenti, l'ampiamente generalizzata tendenza a credere. Ebbene, è mia convinzione che l'etologia, la scienza naturale del comportamento, possa fornire assai utili elementi di comprensione sull'origine e sul significato adattativo di questo fenomeno così importante per la nostra storia di uomini. Scopriremo come risultino coinvolte sia le nostre capacità intellettive sia quelle sociali, soprattutto se affrontate in una prospettiva evolutiva, perché tracce di ciò che noi siamo sono reperibili in altre specie per quanto riguarda non solo le caratteristiche organiche e fisiologiche, ma anche quelle comportamentali. La nostra tendenza a credere può, in quest'ottica e con questa metodologia, trovare una spiegazione di carattere adattativo. In altre parole: uno spazio d'irrazionalità nella nostra mente e nel nostro comportamento può favorire la nostra sopravvivenza. Ma non solo, può aiutarci a vivere, soprattutto a morire, meglio.

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Pagina 10

[...] Generalizzando, il comportamento è sempre il risultato dell'interazione tra genetica e ambiente. In definitiva, è sempre, per usare un termine proprio della biologia, fenotipo, anche se l'apporto dell'informazione genetica può essere assai variabile sia qualitativamente sia quantitativamente.

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Pagina 13

Il percorso

A determinare la comparsa, lo sviluppo e il permanere dell'umana capacità di credere è stato un peculiare assommarsi di caratteristiche mentali e sociali. Ma c'è di più: può sembrare stupefacente, ma proprio perché la nostra specie ha raggiunto un elevato livello di razionalità s'è sviluppata in noi la necessità di mantenere uno spazio intellettivo irrazionale.

Caratteristiche della nostra mente e della nostra socialità hanno innescato o favorito l'organizzarsi e il consolidarsi del fenomeno. Sono interessati, per guanto concerne le capacità mentali, l'autocoscienza, il pensiero astratto e la possibilità di costruire un universo mentale immaginario, la capacità di mentire e anche quella di produrre comportamenti superstiziosi. Quanto alle caratteristiche sociali, hanno contribuito al fenomeno la gerarchizzazione, la facilitazione sociale, che rende uniformi e sincroni i comportamenti dei gruppi, l'apprendimento sociale, con la conseguente evoluzione culturale, e infine la ritualizzazione.

[...]

L'indagine procederà «dal basso», almeno se vogliamo riferirci all'immagine tradizionale dell'albero filogenetico, e «di lato», cioè ponendo grande attenzione, quando sarà utile, anche ai percorsi evolutivi paralleli. In altre parole verranno considerate non solo omologie, ma anche analogie.

Molti differenti animali saranno chiamati in causa, perché se è vero che alcune componenti del «fenomeno del credere» sono proprie di poche specie provviste di elevate capacità cognitive, è altrettanto vero che altre componenti hanno invece origini ben più antiche e generalizzate. L'«irrazionale necessario» è comparso nell'uomo per l'assommarsi di più proprietà che sono altrimenti presenti in modo qualitativamente o quantitativamente discontinuo nelle altre specie. Rimane il fatto che sembra rientrare a pieno titolo nello specifico umano come uno dei più singolari prodotti evolutivi caratterizzanti la nostra specie.

Un'assoluta novità, nella storia della vita, l'uomo. Per spiegare davvero a fondo il significato della novità che rappresenta la nostra specie, proverò a inquadrarla all'interno di quel grandioso esperimento che è stata l'origine e poi l'evoluzione della vita sul pianeta. Poco meno di quattro miliardi di anni fa fecero la loro comparsa nel mare i primi organismi unicellulari, che circa 6-800 milioni di anni fa si organizzarono in esseri viventi pluricellulari. Da allora la conquista di tutti gli ambienti della biosfera, soggetta alle forze selettive dell'evoluzione, alla progressiva trasformazione delle condizioni ambientali e a numerose periodiche crisi globali o locali, ha dato origine alla straordinaria varietà attuale di esseri viventi: si valutano in almeno 30.000.000 le specie animali e vegetali che condividono con noi la Terra. Tutte queste specie, se non altro per il fatto di essere viventi, possono ritenersi provviste di istruzioni adattative e, in quanto tali, «intelligenti». Nella maggior parte dei viventi queste istruzioni sono quasi esclusivamente scritte nella memoria genetica. Sono, in altre parole, l'esperienza della specie. Ma, col progredire, nella linea animale, della complessità e del differenziamento, sempre più si è andata affermando la capacità di apprendimento su base individuale, una capacità che sa offrire un cospicuo contributo integrativo all'esperíenza della specie (gli istinti). È un processo che ci fa scoprire, oggi, una straordinaria pluralità di intelligenze. Eppure un'unica specie, la nostra, ha saputo affinare le sue capacità inquisitive, cognitive e introspettive fino a realizzare lo straordinario fenomeno circolare per cui la materia organica, da cui la vita miliardi di anni fa si originò, è in grado di indagare e meditare su se stessa. Anche in quest'ottica, a pensarci bene, si può leggere l'asserzione che, questa, è un'analisi «dal basso».

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Pagina 31

Il senso biologico della vita, se un senso c'è, consiste nel mantenimento della vita stessa, e tale mantenimento viene ottenuto con un continuo ricambio, sostituzione, evoluzione, degli individui. L'individuo, ogni individuo, non è che un limitato segmento di una lunghissima trama che si muove e si evolve nello spazio e nel tempo. Va tutto bene finché non si raggiunge la consapevolezza, soprattutto quella del sé. È a questo punto che diviene inevitabile il conflitto tra il valore della sopravvivenza della specie e quello della sopravvivenza dell'individuo.

L'individuo infatti, col procedere dell'evoluzione, acquisisce una sua complessità, una sua storia, una sua sapienza, una sua affettività. Ogni individuo è, in definitiva, unico, al di là di ogni diversità genetica e fenotipica, proprio per la sua unicità esperienziale. E l'individuo umano, che nella sua storia e nelle sue esperienze identifica il sé, è pienamente consapevole del valore di questo sé. Valore immenso, che nella consapevolezza raggiunta di gran lunga travalica, nell'ottica individuale, quello della sua funzione di segmento nella trama della vita. È facile dedurre come la raggiunta consapevolezza della propria morte possa rappresentare un incubo, un nemico da sconfiggere, da cancellare con ogni mezzo. Qualcosa di ben diverso dal generalizzato istinto di sopravvivenza che ogni animale possiede. Questo è il bel regalo che ci hanno fatto la consapevolezza del sé sommata con la capacità di ragionare.

Non credo di dire niente di nuovo affermando che è stata proprio la paura della morte a stimolare la produzione di ogni tipo di fantasia che faccia sperare in una vita oltre la morte. Non ci vuole molto a supporlo, se si ragiona laicamente, e infatti in molti l'hanno supposto. Mi basta qui, a titolo indicativo, rimandare al bellissimo saggio di Robert Hinde Why Gods Persist, dove è possibile trovare un'ampia documentazione al proposito. È intuitivo, d'altro canto: è bello credere in un'altra vita, aiuta a vivere bene questa. Aiuta ad affrontare meglio la morte, nostra e dei nostri cari, perché non sarebbe più una morte vera.

Ciò che di originale può offrire l'etologia, oltre a puntuali domande, e conseguenti risposte, sui significati adattativi dello spazio mentale irrazionale è la possibilità di evidenziare, con le sue analisi comparative, i «preadattamenti» mentali e sociali che hanno determinato il consolidarsi della singolare capacità di credere facendo tacere la ragione.

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Pagina 32

III
La capacità di mentire

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Pagina 46

Perché, a proposito del mentire a se stessi, fra le capacità cognitive di animali dall'intelletto ben sviluppato, ho scelto di illustrare proprio l' insight e le mappe cognitive, due fenomeni connessi con la produzione di «teatrini mentali»? Devo confessare che è stata un'abitudine umana a spingermi in questa direzione: quella, espressa da millenni in molteplici varianti culturale, ma sempre legata alla paura per la propria morte, di esorcizzare, se non addirittura di negare, la morte, immaginando un altro mondo, un «aldilà». Come se gli esseri umani non morissero (muore il nostro corpo, noi non moriamo). Come se, invece, vivessero un po' nell'aldiquà, un po' nell'aldilà. Una seconda patria dunque, quell'altro mondo. Una terra, un cielo, un posto infero, comunque un luogo geograficamente metafisico dove dovrebbero ritrovarsi ancora vivi, magari solo per un temporaneo parcheggio, i nostri morti, noi stessi un giorno che comunque si spera lontano. E il laggiù (gli inferi) o il lassù («alto sopra la chiara volta stellata c'è un luogo stupendo», ancora si canta nel catechismo olandese) dipendono da dove si localizza, nel nostro catechizzato immaginario, quell'altro mondo.

Siamo nell'area dell'autoinganno? È vero, esistono antichissime tradizioni, e fin da piccoli ci indottrinano descrivendoci quel posto insieme geografico e inesistente. Non sono certo originale pensando a Dante e alle illustrazioni dettagliate del Doré. Al cielo e agli inferi, al Gahannam islamico, all'Ade e ai Campi Elisi. Storie queste ingenue e superate? Certo oggi, che abbiamo più pretese e maggiore abitudine all'esercizio della ragione, sono indispensabili aggiustamenti che soddisfino la parte più razionale della nostra intelligenza. Così ci spiegano che quei luoghi non sono in nessun posto materiale. Luoghi, si dice, dello spirito. Oppure, addirittura, si indicano come non luoghi, privandoli così della loro primitiva caratterizzazione geografica. Per esempio ora, nella religione cattolica, si definisce il paradiso come «un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa». Esiste dunque un'evoluzione culturale facilmente ricostruibile e comprensibile che sempre più tende a svincolarsi dal concetto ormai troppo discutibile di luogo. D'altro canto Jean Vernette, che è professore di teologia presso l'università di Tolosa, nel suo interessante e assai informato saggio intitolato L'aldilà, ci insegna che «i discorsi religiosi si rifanno all'escatologia (vale a dire alle rappresentazioni)», e insiste specificamente sull'idea di paesaggio sia per le tipologie del passato sia per quelle a noi più vicine che lo studioso definisce ancora come attuali.

Quanto a me, per lo scopo che mi sono prefisso, non interessa tanto l'oggi, quanto piuttosto la storia antica, perché soprattutto mi incuriosisce come abbiano potuto prendere forma, nella nostra mente, quei luoghi dello spirito. Che, secondo ragione, non esistono, ma in cui invece crediamo.

Torniamo dunque all'originale domanda: inganno o autoinganno? Una miscela naturalmente, ma forse, nonostante tutto, l'autoinganno, in origine e ancora oggi, incide più dell'inganno, almeno se penso che l'informazione può anche essere trasmessa in buona fede mentre chi la riceve troppo spesso la accoglie trincerandosi dietro un'utile, consolatoria mancanza di senso critico e di autonomia di pensiero.

E poi deve pur esserci stato un primo uomo che ha immaginato nei dettagli quell'altro mondo. Come ha fatto, tecnicamente? Ebbene, la risposta «tecnica» sta proprio nell' insight e nelle ben più primitive mappe cognitive. Sono queste capacità che vedo come possibili preadattamenti biologici funzionali per immaginare, disegnare, in definitiva duplicare un mondo. Utili dunque per costruire, all'interno di una mente come la nostra, quei teatri e quelle rappresentazioni che poi saranno le tradizioni e il tempo a consolidare, a perfezionare.

Una mente come la nostra: perché se l'inganno consapevole, in fin dei conti, è presente in altre specie, l'autoinganno, questo tipo d'autoinganno, no. Occorre un gioco mentale ben raffinato, una consapevolezza oscillante tra presenza e assenza, un intrico di autospiegazioni e autoconvincimenti, e poi un pizzico di paura condito con la speranza, perché l'autoinganno possa funzionare. Ma poi funziona.

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Pagina 51

IV
La superstizione
[...]

Una vera superstizione nasce dunque così, come ci hanno insegnato quei colombi. Associando, erroneamente, l'ottenimento del premio al comportamento eseguito immediatamente prima, essi non facevano altro che stabilire l'esistenza di un'illusoria, falsa relazione di causa-effetto tra due eventi in realtà tra loro indipendenti. La superstizione, in definitiva, non è altro che un errore di funzionamento all'interno di quel meccanismo rilevatore di causalità che è presente, data la sua essenzialità, in ogni specie animale.

Abbiamo così appreso che la superstizione non è altro che un momento di confusione all'interno di un utile, in quanto adattativo, processo di apprendimento per associazione. È, d'altro canto, difficile anche per noi, quando un evento precede strettamente un altro, sottrarsi all'impressione che il primo sia la causa del secondo. E mi verrebbe da scrivere che, in fin dei conti, la superstizione ha una sua dignità proprio perché si basa su un processo logico, di cui, meno dignitosamente, si fa un uso improprio. E se è improprio per dei colombi e per altri animali, topi o scimmie che siano, che dovrei dire per la nostra specie?

L'errore, cioè la confusione tra causalità e casualità, dipende dal fatto che forte è la tendenza a badare alla presenza delle associazioni, dimenticando i numerosissimi casi dell'assenza, quando cioè i due eventi avvengono indipendentemente.

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Pagina 81

VI
Il rito


L'utilità degli accessori

Restiamo in tema di trasmissione culturale trattando però di accessori. Il fatto è questo: quando le «verità» che devono venire trasmesse non sono razionalmente comprovate, ma richiedono di essere accettate «per fede», ebbene, passano meglio se aiutate da un qualche lubrificante etologico. Due, e assai importanti, sono il rito, che è una cornice, e lo stato sociale elevato, che è determinante attributo positivo per chi trasmette la cosiddetta verità. Lavorano spesso in sinergia questi accessori, e offrirò a suo tempo esempi, sarà però utile, per ora, considerarli separatamente.

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Pagina 95

Ho scritto, iniziando questo capitolo, che la ritualizzazione può essere un'utile cornice per «verità» che devono venire trasmesse culturalmente e insieme credute per fede. Penso che sia evidente il perché. Il rito culturale, proprio a causa del linguaggio ritualizzato, che è sempre arcaico, spesso fumoso, organizzato in formule memorizzabili che devono essere ripetute all'infinito, passa, tutto sommato, un'informazione rozza, approssimativa, difficilmente verificabile, ma allo stesso tempo regala, come abbiamo visto, un valore aggiunto che è indipendente dal contenuto stesso dell'informazione. Inoltre la solennità del rito e la difficile comprensione delle formule pongono colui che deve credere in una situazione disarmata e forzatamente acritica anche a causa dell'alto stato sociale che di norma ritualmente viene attribuito a colui che passa l'informazione (ciò sarà l'argomento del prossúno capitolo).

Così, vista la forza del contenitore e la parallela debolezza del contenuto, non stupisce il fiorire, il perdurare e l'uso generalizzato della ritualizzazione nei più diversi casi in cui un qualche tipo di «verità per fede» debba venire trasmesso. Ben diversa, invece, è la comunicazione del razionale, che esige precisione nei contenuti e che, necessariamente, rifugge dal rituale. La comunicazione delle «verità per fede» abbonda di arcaismi, mentre quella del razionale, per il continuo progredire delle conoscenze, è produttiva di neologismi. Il che, in definitiva, non fa che rispecchiare quanto già sapevamo, e cioè che la trasmissione culturale ritualizzata, essendo la più conservativa, trattiene il vecchio come la carta moschicida le mosche.

Ultima conclusiva annotazione, che dobbiamo a Konrad Lorenz: «Quanto più la nascita di un rito è lontana nel tempo, tanto più acquista il carattere di un'usanza sacrale; quanto meno si sa della sua nascita, tanto più facilmente diventa un mito».

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Pagina 135

IX
L'etologia può spiegarci
perché crediamo


Fare la somma dei preadattamenti

Il titolo di questo che è l'ultimo capitolo è - l'avrete notato - uguale a quello del primo. Unica differenza: dove c'era un punto interrogativo ora c'è (presuntuosamente?) un punto fermo. D'altro canto è tempo di bilanci e, per quanto possibile, di ragionevoli certezze. Così sfogliando e rileggendo quanto ho finora scritto, decido di ricuperare gli «Utili preadattamenti» che, capitolo dopo capitolo, analiticamente ho descritto. Desidero considerarli insieme; vedere anche se è possibile stabilire quanto c'è di effettivamente preesistente alla nostra specie e quanto invece ha dovuto evolutivamente emergere per regalare a noi, e solo a noi che siamo così dotati di ragione, quella strana capacità di metterla momentaneamente in soffitta per attingere alla fede.

Faccio dunque l'appello e sono queste le parole chiave: consapevolezza (del sé, degli altri, della morte altrui e della propria), mentire (a sé, agli altri), il teatrino mentale (l' insight, le mappe cognitive), la superstizione, la cultura, il rito (con le sue differenze tra biologia e cultura), il rango sociale (il principio di autorità, il superalfa, la gerarchia delle gerarchie), infine lo scollamento dalla natura (la perduta centralità delle conoscenze naturalistiche).

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Pagina 137

Il quadro ha considerato, fin qui, il passaggio di quella che, per intenderci, ho definito una «verità per fede». Ma come nasce tale verità? Ecco allora entrare in azione altri preadattamenti, primo fra tutti la capacità di costruirsi nella mente un mondo parallelo dove è possibile immaginare, nel senso letterale di fabbricare immagini o addirittura, in stato di allucinazione, visioni. Accadimenti e spazi, comunque, che sono fuori dal mondo concreto della realtà. Pure importante è la capacità di mentire, più o meno inconsapevolmente, a sé e agli altri. Infine la capacità di fabbricare superstizioni. Tutto ciò è presente, in qualche misura, in altre specie, ma non basta per «credere per fede». Perché ciò avvenga occorre che s'evolva un imponente sistema di trasmissione culturale, che tra l'altro ci ha regalato, dopo l'avvento dell'agricoltura e della pastorizia, con la transizione repentina dalla strategia K a quella r, l'illusione di vivere fuori dalla natura.

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Pagina 138

La necessità di credere spegnendo la ragione è rilevabile in tutte le principali religioni, che perciò entrano nel nostro campo di indagine, ma il fenomeno è ben più generale. Informa discipline vere e proprie come l'astrologia o certe medicine alternative ed emerge anche in maniera sporadica e diffusa, come per esempio nell'attesa dei numeri ritardatari nel gioco del lotto. Resta il fatto che, studiando l'origine delle religioni di maggior successo (due riferimenti eccellenti sono il saggio di Jostein Gaarder, Il libro delle religíoni e quello di Robert H. Hinde, Why Gods persist), appare evidente che un passo obbligato è la credenza in un qualche tipo di aldilà, di un oltretomba, dove, per metempsicosi o per risurrezione, la vita si rinnova. Insomma la promessa e la speranza, espresse in vario modo, di una vita oltre la morte. Tutto ciò, se ci si crede, non può che essere straordinariamente consolatorio. È la vera soluzione del problema. Per la maggior parte degli esseri umani è esattamente questo il punto cardine, perché coinvolge il sé. Scarso successo hanno infatti avuto le religioni immanentiste, che si disinteressano del problema della morte, e i tentativi degli scienziati di dimostrare che all'origine dell'universo ci sia stato un intervento divino (chi volesse approfondire questo aspetto dovrebbe leggere, ma criticamente, Credere in Dio nell'età della scienza di john Polkinghorne).

È mia opinione che agli esseri umani non interessi molto la prova dell'esistenza di un dio eterno; ciò che invece sta moltissimo a cuore, per ben comprensibili motivi, è la garanzia della sopravvivenza del sé. Certo, se la provata esistenza di un dio eterno può, in seconda battuta, far acquisire l'esistenza di un aldilà, allora può divenire rimunerativo credere a tutto il sistema. È così che si definisce, e s'espande, l'area tabù del trascendente.

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Pagina 152

La centralità della cultura naturalistica

Il complesso esercizio che ho compiuto mi è stato possibile per due motivi: primo, la convinzione dell'utilità di andare a scavare nella nostra, e altrui, storia evolutiva per comprendere l'origine delle nostre capacità e potenzialità comportamentali; secondo, il rifiuto della convenzione per cui la scienza non avrebbe il diritto di occuparsi di ciò che è metafisica. Ho già motivato, nel capitolo introduttivo, quella convinzione e questo rifiuto, e spero che l'analisi condotta abbia almeno in parte giustificato le mie scelte. Credo che il risultato principale scaturito da questa analisi sia la dimostrazione che gli esseri umani possiedono, per motivi di carattere strettamente biologico, la capacità di credere sospendendo la ragione, e che questo spazio intellettivo irrazionale abbia un valore positivo per la sopravvivenza degli individui.

Può sembrare strano, ma evolutivamente è stata proprio l'elevata razionalità (ho più volte sottolineato la capacità umana di produrre sillogismi) a innescare, con la paura della propria morte, la necessità dell'irrazionale. Penso che questo, almeno, sia il cuore del sistema, anche se la tendenza a credere (e di conseguenza ubbidire) senza pretendere verifiche verosimilmente era comparsa molto prima, nella nostra e in altre specie sociali, quando si rese necessario coordinare e sincronizzare attività collettive, come la primitiva caccia umana e la predazione di specie sociali come lupi e licaoni.

Il fatto poi che l'area conoscitiva dell'irrazionale sia stata tanto trascurata dalle scienze della vita, pur avendo ricadute evidenti sulla dinamica evolutiva della nostra specie, ha impedito una compiuta, biologicamente approfondita, conoscenza di noi stessi. Non di rado con gravi conseguenze. Ritengo invece che una totale consapevolezza della nostra realtà, che è prodotto della nostra evoluzione biologica e culturale insieme, sia l'unica via per comprendere davvero noi stessi, il nostro comportamento e le motivazioni che lo determinano. Inoltre solo tale conoscenza può aiutare a prevenire gli errori che discendono dal «lato oscuro» del credere senza ragionare.

 

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Riferimenti

Letture consigliate
AA.VV. (tra cui D.J. Povinelli), L'intelligenza, «Le Scienze», dossier n° 1, Milano 1999. Agostino, A., Sulla bugia, Rusconi, Milano 1994. Allegre, C., Dio e l'impresa scientifica, Cortina, Milano 1999. Allen, C. e Bekoff, M., Il pensiero animale, McGraw-Hill, Milano 1998. Ammermann, A.J. e Cavalli-Sforza, L., La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa, Bollati Boringhieri, Torino 1986. Antiseri, D., Credere, Armando, Roma 1999. Biondi, M., La mente selvaggia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1996. Bisol, P.M. e Pranovi, F., Appunti sulla biodiversità, Cleup, Padova 1998. Boncinelli, E., Il cervello, la mente e l'anima, Mondadori, Milano 1999. -, Leforme della vita, Einaudi, Torino 2000. Bonino, S. (a cura di), Dizionario di psicologia dello sviluppo, Einaudi, Torino 1994. Bowlby, J., Darwin, una nuova biografia, Zanichelli, Bologna 1996. Brambilla, L., Alle origini del Santo Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Il Mulino, Bologna 2000. Brockman, J., La terza cultura, Garzanti, Milano 1995. Cavalli-Sforza, L. e Cavalli-Sforza, F., Chi siamo, Mondadori, Milano 1993. Ceccoli, P. (a cura di), L'inquisizione santa, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1999. Chiarelli, B., L'origine della socialità e della cultura, Laterza, Bari 1984. Cimatti, F., Mente e linguaggio negli animali, Carocci, Roma 1998. -, La scimmia che parla, Bollati Boringhieri, Torino 2000. Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, scienza, paranormale e mass media, Atti del Convegno, Padova 1999. Darwin, C., L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, Bollati Boringhieri, Torino 1982. De Martino, E., Il mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 1997. Dennett, D., L'idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1997. De Waal E, La politica degli scimpanzé, Laterza, Bari 1984. Eibl-Eibesfeldt, I., Etologia umana, Bollati Boringhieri, Torino 1993. [...]  

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