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| << | < | > | >> |IndiceNota editoriale 7 La mia scoperta dell'America 9 Messico 13 New York 37 America 62 Partenza 81 Note a La mia scoperta dell'America 86 Versi sull'America 89 Spagna 91 Sei monache 93 Oceano Atlantico 97 Filosofia spicciola su luoghi profondi 102 Black and white 104 Sifilide 109 Cristoforo Colombo 116 Tropici 125 Messico 127 A proposito di religione 136 Messico-New York 140 Broadway 143 Testimonianza 146 La signorina e il Woolworth 150 Spaccato di grattacielo 154 Il cittadino probo 158 Sfida 162 100% 165 Russi americani 169 Il ponte di Brooklyn 172 Campo "Nit gedaige" 177 A casa 181 Note a Versi sull'America 185 |
| << | < | > | >> |Pagina 13DUE PAROLE. Il mio ultimo itinerario: Mosca, Koenigsberg (aria). Berlino, Parigi, Saint-Nazaire, Gijon, Santander, Capo la Coronne1 (Spagna), Avana (isola di Cuba), Veracruz, Città del Messico, Laredo (Messico), New York, Chicago, Filadelfia, Detroit, Pittsburgh, Cleveland (Stati Uniti del Nord America), Le Havre, Parigi, Berlino, Riga, Mosca. Viaggiare mi è necessario. Il contatto con le cose vive per me sostituisce quasi del tutto la lettura. Il viaggio cattura il lettore di oggi. Invece di invenzioni interessanti su cose noiose, invece di immagini e metafore, cose interessanti di per sé.
Vi ho vissuto troppo poco per descrivere particolari in maniera corretta e
precisa. Vi ho vissuto quel poco che basta per dare un fedele quadro d'insieme.
18 GIORNI D'OCEANO. L'oceano è un fatto di immaginazione. Sul mare non si vedono le coste, sul mare le onde sono più numerose di quanto non serva nella vita quotidiana, sul mare non sai cosa ci sia sotto di te. Ma soltanto l'idea che a destra non c'è terra fino al polo e a sinistra non c'è terra fino al polo, davanti a te c'è un secondo mondo del tutto nuovo e sotto di te, forse, c'è l'Atlantide, ebbene, soltanto quest'idea è l'oceano Atlantico. Calmo, l'oceano è noioso. Per diciotto giorni scivoliamo come una mosca sullo specchio. Solo una volta abbiamo assistito a uno spettacolo ben riuscito, sulla via del ritorno da New York a Le Havre. Un denso acquazzone copriva di schiuma il bianco oceano, striava di bianco il cielo, con fili bianchi cuciva il cielo all'acqua. Dopo è comparso l'arcobaleno. L'arcobaleno si rifletteva e si chiudeva nell'oceano e noi, come acrobati di circo, ci gettavamo nel cerchio iridescente. Poi di nuovo spugne galleggianti, pesciolini volanti, pesciolini voltanti e spugne galleggianti del mar dei Sargassi, e in rare, solenni occasioni, fontane di balene. E sempre, fino alla noia (a volte fino alla nausea), acqua e acqua. L'oceano stanca, ma quando non c'è ci si annoia.
Dopo, cerchiamo a lungo il fragore dell'onda, il rumore tranquillizzante
delle macchine, il tintinnio ritmato delle placche di rame dei boccaporti.
LA NAVE ESPAGNE, 14.000 tonnellate. Una nave piccola, all'incirca il nostro GUM. Tre classi, due fumaioli, cinematografo, bar-sala da pranzo, biblioteca, sala per gli spettacoli e giornale. Il giornale "Atlantik". Comunque un giornalaccio. In prima pagina personaggi importanti: Baliev e Saljapin, nelle pagine centrali descrizioni di alberghi (evidentemente, materiale preparato a terra) e una colonnina insipida di informazioni: il menu del giorno e le ultime notizie radio, del tipo: "In Marocco tutto è tranquillo."
Il ponte è addobbato con lampioncini multicolori e tutta la notte la prima
classe balla con i capitani. Per tutta la notte infuria il jazz:
Marquita, Marquita, Marquita mia Perché, Marquita, sei andata via... Le classi sono proprio classi. Nella prima, mercanti, fabbricanti di cappelli e di colletti, artisti arrivati e monache. Gente strana: rappresentanti di ditte francesi con passaporti paraguayani o argentini, di nazionalità turca, che parlano solo inglese e vivono sempre in Messico. Sono i colonizzatori dei nostri giorni, tipi da Messico. Come un tempo i compagni di viaggio e i discendenti di Colombo spogliavano gli indiani in cambio di paccottiglia da quattro soldi, così adesso nelle piantagioni dell'Avana spezzano la schiena ai pellerossa in cambio di una cravatta rossa che inizia il negro alla civiltà europea. Stanno per conto loro. E se vanno in terza o in seconda, è solo per correre dietro alle belle ragazze. Seconda classe: modesti commessi viaggiatori, artisti alle prime armi, intellettuali che picchiano sulla Remington. Senza farsi notare dai giovani ufficiali di bordo sgusciano sui ponti di prima classe. Poi si raddrizzano e restano impalati con l'aria di dire: ebbene, cosa ho di diverso? Ho lo stesso colletto, e pure i polsini! Ma li sorprendono e senza tante cerimonie li invitano a tornarsene al loro posto. La terza classe riempie le stive. Gente che viene dalle Odesse di tutto il mondo in cerca di lavoro: pugili, investigatori, negri. Questi non cercano di intrufolarsi sui ponti superiori. A quanti si affacciano dalle altre classi domandano con cupa invidia: "Avere giocato a préférence?" Si leva di qui un tanfo pesante di sudore e stivali, un lezzo acidulo di pannolini messi ad asciugare, lo scricchiolio delle amache e delle brandine disseminate per tutto il ponte, il pianto convulso dei bambini e i bisbigli, in un quasi russo, delle madri che cercano di calmarli: "Finiscila, tesoruccio, su, smettila di frignare." La prima classe gioca a poker e a madjong, la seconda gioca a dama e suona la chitarra. La terza, invece, mette un braccio dietro la schiena e chiude gli occhi, mentre da dietro, con tutte le forze, le colpiscono il palmo della mano: si deve indovinare chi è stato a picchiare di tutta la banda. Se si indovina, chi ha dato il colpo prende il posto di chi lo ha preso. Consiglio questo gioco spagnolo agli studenti. La prima classe vomita dove vuole, la seconda sulla terza, e la terza su se stessa. Non succede mai niente. Arriva il telegrafista e strillando annuncia le navi che incrociamo. Potete anche inviare un radio telegramma in Europa. L'addetto alla biblioteca, data la scarsa richiesta di libri, si occupa anche di altre cose. Distribuisce un foglietto con dieci cifre. Tu tiri fuori dieci franchi e scrivi il tuo nome: se il numero delle miglia percorse finisce con la cifra che hai scelto, questo totalizzatore marino ti paga cento franchi. | << | < | > | >> |Pagina 44IO AMO NEW YORK nei giorni lavorativi, nei giorni feriali d'autunno.Le sei del mattino. Tempesta e pioggia. È buio e sarà buio fino a mezzogiorno. Ti vesti con la luce elettrica. Luce elettrica nelle strade, luce elettrica nelle case che, perforate ai rettangoli delle finestre, somigliano ai normografi dei cartellonisti. La smisurata lunghezza delle case e i lampeggianti, policromi regolatori del traffico si moltiplicano due, tre, dieci volte sull'asfalto lucidato a specchio dalla pioggia. Nelle strette gole delle case sibila come nei comignoli un vento masnadiero. Strappa e fracassa le insegne, vorrebbe stenderti a terra e fugge via impunemente, nessuno che lo trattiene, attraverso le verste della decina di avenues che tagliano in lungo Manhattan (l'isola di New York) dall'oceano all'Hudson. Ai lati accompagnano il fragore della tempesta le innumerevoli vocine delle strette strade che, con altrettanti rettilinei, tagliano in largo Manhattan dal mare al mare. Sotto le pensiline - direttamente sul marciapiede se non piove - giacciono i pacchi dei giornali mattutini, consegnati prima coi camion e poi gettati qui dagli strilloni. I celibi mettono in moto nei piccoli caffè le macchine dei loro corpi, cacciandosi nella bocca il primo carburante, ovvero un frettoloso bicchiere di schifoso caffè e una delle ciambelle cotte che la macchina automatica getta in un istante a centinaia in un pentolone di grasso bollente e sputacchiante. In basso scorre il fiume umano. Prima, fino all'alba, la massa nero-lilla dei negri, che eseguono i lavori più pesanti e oscuri. Poi, verso le sette, quella dei bianchi, ininterrotta. Vanno nella stessa direzione a centinaia di migliaia verso i luoghi di lavoro. Solo impermeabili gialli di tela cerata scrosciano come innumerevoli samovar, luccicano inzuppati sotto la luce elettrica e neppure una simile pioggia riesce a spegnerli. Automobili e taxi ancora non ce ne sono, o quasi. La folla scorre, inonda le cavità della sotterranea, invade gli accessi coperti alla ferrovia soprelevata, sfreccia sui convogli aerei rapidi e locali, quasi senza fermate i primi, con una fermata ogni cinque isolati i secondi. Due linee sono disposte una sopra l'altra, tre parallelamente. Queste cinque linee parallele sfrecciano lungo cinque avenues a un'altezza di tre piani e, giunte alla 120a strada, si inerpicano fino all'ottavo e al nono, tanto che i nuovi passeggeri vengono portati su in ascensore direttamente dalle piazze e dalle vie. Non esistono biglietti. Basta infilare nella cassa-salvadanaio cilindrica cinque cents, che una lente ingrandisce immediatamente e mostra al cambiamonete seduto in guardiola a scanso di imbrogli. Cinque cents e viaggi a qualunque distanza, ma in una direzione soltanto. I sostegni e il piano della ferrovia aerea sono sospesi spesso come un'interminabile tettoia per tutta la lunghezza delle strade, tanto che non si vedono né il cielo, né le case di lato, e si ode solo il frastuono dei treni sopra la testa e quello dei camion sotto il naso. Un frastuono che non ti fa capire una parola e così, per non disabituarti a muovere le labbra, non ti resta che masticare taciturno una gomma americana, un chewing-gum. Al mattino e nella tempesta New York è più bella, quando non passa neppure un fannullone, neppure una persona superflua, ma solo il grande esercito del lavoro di una città di dieci milioni di persone. Le masse operaie si sparpagliano per le fabbriche di vestiti da uomo e da donna, per le nuove gallerie delle sotterranee in costruzione, per gli innumerevoli lavori portuali, e verso le otto le strade si riempiono di un'infinità di esili fanciulle, molto più pulite e curate, con una schiacciante presenza di capelli corti, ginocchia scoperte e calze arrotolate. Sono le lavoratrici degli uffici, delle cancellerie e dei negozi, disseminate per tutti i piani dei grattacieli di Downtown, per i lati dei corridoi, cui si accede dall'ingresso principale con decine di ascensori. Decine di ascensori locali, con fermate ad ogni piano, e decine di rapidi, senza fermate fino al diciassettesimo, ventesimo e trentesimo piano. Strani orologi indicano il piano dove si trova l'ascensore, una luce bianca si accende se scende, una rossa se sale. | << | < | > | >> |Pagina 51ODIO NEW YORK DI DOMENICA: verso le dieci nella casa di fronte un impiegato in mutande color lilla tira su la tenda. Senza aver indossato i calzoni, evidentemente, si siede alla finestra con il "World", o forse il "Times", un centinaio di pagine del peso di un chilo. Per un'ora legge le pagine colorate e poetiche della pubblicità e dei grandi magazzini (che formano la concezione del mondo dell'americano medio), poi sfoglia quelle delle rapine e degli omicidi.L'uomo indossa quindi giacca e pantaloni, dai quali immancabilmente esce la camicia. Intorno al collo si stringe una cravatta color canarino misto rosso fuoco e Mar Nero, annodata una volta per tutte. Vestito, l'americano cerca di trascorrere un'oretta con il padrone dell'albergo o il portiere, seduti sui bassi scalini che circondano lo stabile oppure sulle panchine della vicina, spelacchiata piazzetta. La conversazione verte su qualcuno che di notte avrebbe ricevuto degli ospiti: pare che li abbiano sentiti bere e, se sono entrati e hanno bevuto, bisognerebbe sporgere denuncia, querelare e cacciare gli adulteri ubriaconi. All'una l'americano va a colazione dove fanno colazione quelli più ricchi di lui, e dove la sua signora si riempirà di languore e di estasi davanti a un galletto da diciassette dollari. Poi l'americano si recherà per la centesima volta nella tomba a vetrate del generale Grant e della generalessa, oppure, toltosi stivali e giacca, si sdraierà in qualche giardinetto sopra il lenzuolo già letto del "Times", lasciando dietro di sé, a città e cittadinanza, pezzi di giornale, un pacchetto vuoto di chewing-gum e l'erba pestata. I più ricchi, prima del pranzo, stimolano l'appetito guidando la propria auto, sfrecciando altezzosi accanto a quelle di minor prezzo e guardando di traverso le più sgargianti e costose. Naturalmente, coloro i quali hanno sullo sportello dell'auto lo stemma dorato di conte o barone suscitano particolare invidia negli americani di basso ceto. Se un americano è in macchina con una signora che ha mangiato insieme a lui, la bacia senza indugio e pretende di essere ricambiato. Senza questa "minima riconoscenzà" riterrà che i dollari pagati per il conto siano stati spesi invano e non andrà mai più in nessun posto con questa donna ingrata, che sicuramente sarà derisa dalle sue amiche sagge e oculate. Se l'americano è solo nella sua auto, egli (campione di moralità e pudicizia) rallenterà la marcia e si fermerà davanti a ogni pedone in gonnella solitario e piacente, scoprirà i denti in un sorriso equino e l'inviterà a salire con una spaventosa rotazione degli occhi. La dama che non capisce la sua eccitazione sarà considerata una stupida, incapace di afferrare la fortuna e la possibilità di conoscere il proprietario di una vettura da cento cavalli. | << | < | > | >> |Pagina 55I TRATTI DELLA VITA AMERICANA SONO DIFFICILI. È facile dire degli americani cose scontate, trite e ritrite: paese dei dollari, sciacalli dell'imperialismo, ecc.Questo è solo un piccolo quadro dell'immenso film americano. Che sia il paese dei dollari lo sa qualsiasi alunno delle scuole elementari. Però questa immagine risulta del tutto sbagliata, se si tiene presente la caccia al dollaro scatenata dagli speculatori nel nostro paese alla caduta del rublo nel 1919, o scatenata in Germania al tracollo del marco nel 1922, quando i detentori di migliaia e milioni di marchi saltavano la colazione nella speranza che la sera il pane diminuisse di prezzo. Avari? No. Un paese che durante l'anno mangia un gelato da un milione di dollari può meritarsi anche altri epiteti. Il dollaro è il padre, il figlio e lo spirito santo. Ma non si tratta della bassa spilorceria di chi si rassegna solo alla necessità di avere i soldi, di accumulare un gruzzolo, per poi smettere di lucrare e piantare margherite nel suo giardino. Loro portano la luce elettrica nei pollai di qualsiasi villaggio. I newyorkesi raccontano ancora con simpatia la storia del cowboy Diamond Jim, accaduta nell'Undici. Ereditata la bella somma di duecentocinquantamila dollari, noleggiò un intero treno di prima classe, lo caricò di vino e di tutti i suoi amici e parenti, arrivò a New York, fece il giro di tutti i locali di Broadway, in due giorni bruciò un paio di milioni di rubli e alla fine ritornò senza un cent ai suoi mustang sul lurido predellino di un treno merci. No! C'è poesia nell'atteggiamento dell'americano verso il dollaro. Egli sa che il dollaro è l'unica forza nella sua nazione borghese di centodieci milioni di anime (nelle altre anche), e io sono sicuro, a parte ogni altra caratteristica del denaro, che l'americano sia innamorato del colore verde del dollaro, perché vi vede la primavera, e anche del torello riprodotto nell'ovale, che gli sembra il ritratto del suo fisico tarchiato, il simbolo del suo appagamento. Zio Lincoln, da parte sua, e la possibilità per ciascun democratico di eguagliare simili uomini, fanno del dollaro la pagina più bella ed elevata che gli adolescenti possano leggere. L'americano, quando ti incontra, non saluta con un disinteressato: - Buongiorno. Ma ti grida con animo partecipe: - Make money? (Fai i soldi?) - e va oltre. L'americano non ti dice vagamente: - Oggi hai un bell' (o brutto) aspetto. L'americano è preciso: - Oggi hai una faccia da due cents. Oppure: - Hai una faccia da un milione di dollari. Di te non diranno con aria romantica che sei poeta, o artista, o filosofo, affinché l'ascoltatore si perda in supposizioni. L'americano è preciso: - Quest'uomo vale 1.230.000 dollari. E qui abbiamo tutte le informazioni: sappiamo chi sono i tuoi conoscenti, in quali ambienti vieni ricevuto, dove vai in estate, ecc. Come hai fatto tutti questi milioni non interessa a nessuno in America. Tutto è business, sono tutti "affari" quelli che producono dollari. Hai percepito i diritti per un poema andato a ruba, è business, hai compiuto una rapina e l'hai fatta franca, anche questo è business. Ti educano al business fin dall'infanzia. I genitori ricchi sono contenti se il loro figlio di dieci anni lascia perdere i libri e porta a casa il suo primo dollaro, ricavato dalla vendita dei giornali. - Sarà un vero americano. In quest'aria di business si sviluppa l'intraprendenza degli adolescenti. In un campo di bambini, un raduno estivo in colonia, dove ci si irrobustisce con il nuoto ed il football, sono state proibite le parolacce durante la boxe. - Come si fa a scazzottarsi senza dire parolacce? - protestano accorati i bambini. Un businessman in erba sfrutta immediatamente questa esigenza. Sulla sua tenda si legge il seguente avviso: "Insegno cinque parolacce russe per un nichel, quindici per due nichel." E la tenda si riempie di bambini desiderosi di apprendere parolacce sicure, incomprensibili agli allenatori. Messosi al centro, il fortunato esperto di parolacce russe tiene la sua lezione: - Tutti in coro: durak! - Durak! - Svoloc'! - Svoloc', non Tvoloc'. Quando arriva a sukin syn deve battere molto, poiché i bambolotti americani pronunciano sukin sign e il giovane ma onesto businessman non intende spacciare parolacce scadenti a un prezzo di tutto rispetto. Nell'ambiente dei grandi il business assume forme grandiose, epiche. Tre anni orsono il candidato a una carica municipale lucrosa, tale mister Regelman, aveva l'impellente necessità di sfoggiare, davanti agli elettori, una qualche sua opera filantropica. Decise perciò di costruire una balconata di legno sul litorale per i visitatori di Coney Island. I proprietari della striscia di spiaggia necessaria, però, chiesero una somma colossale, più di quanto poteva rendere la futura carica. Regelman allora, infischiandosene altamente dei proprietari, fece arretrare l'Oceano con tonnellate di sabbia e ghiaia, ricavò una striscia di terra larga trecento cinquanta piedi e per tre miglia e mezza stese sulla riva un impeccabile tavolato. Regelman fu eletto. Nel giro di un anno si rifece abbondantemente delle spese: grazie alla sua influenza riuscì a vendere molto bene a dei pubblicitari tutti gli spazi visibili della sua originale costruzione. Se è sufficiente la sola pressione indiretta dei dollari per acquistare cariche, notorietà e immortalità, mettendo direttamente mano al denaro ti compri tutto. I giornali sono stati fondati dai trusts; i trusts, gli affaristi dei trusts, li hanno ceduti in anticipo alle agenzie di pubblicità, ai grandi magazzini. In genere, i giornali sono stati venduti tramite operazioni tanto solide e costose, che la stampa americana viene considerata incorruttibile. Non c'è somma che basti a comperare un giornalista già venduto. Ma se il tuo prezzo è tale che gli altri ti offrono di più, dimostralo e il padrone stesso ti darà di più. Titoli? Prego. Giornali e autori di rivista irridono spesso alla stella del cinema Gloria Swanson, ex cameriera che ora vale quindicimila dollari alla settimana, e al suo bel conte, insieme ai modelli di Paquin e alle scarpe Anan, fatte arrivare da Parigi. | << | < | > | >> |Pagina 62QUANDO SI DICE "America", si pensa a New York, agli zii d'America, ai mustang, ai Coolidge e agli altri accessori degli Stati Uniti del Nord America. È strano, ma vero. È strano, perché di Americhe ce ne sono tre: Settentrionale, Centrale e Meridionale. Gli U.S.N.A. non occupano neppure tutta l'America Settentrionale e - guarda un po' - hanno confiscato, usurpato e arrogato a sé il nome di tutte le Americhe. È vero, perché gli Stati Uniti si sono attribuiti il diritto di chiamarsi America con la forza, le dreadnoughts e i dollari, terrorizzando le vicine repubbliche e colonie. Nei soli tre mesi del mio breve soggiorno gli americani hanno brandito il pugno di ferro sotto il naso dei messicani, colpevoli di aver progettato la nazionalizzazione del loro inalienabile sottosuolo; hanno sguinzagliato battaglioni a sostegno di un certo governo abbattuto dal popolo venezuelano; hanno lasciato intendere inequivocabilmente all'Inghilterra che se non paga i debiti, potrebbe scricchiolare il granaio canadese; con i francesi hanno fatto la stessa cosa e, alla vigilia della conferenza sul rimborso dei debiti da essi contratti, prima hanno inviato i loro piloti in Marocco per aiutare i francesi, poi li hanno richiamati per considerazioni umanitarie, diventando improvvisamente filomarocchini. Tradotto in russo tutto ciò significa: tira fuori i soldi e avrai i piloti. Lo sapevano tutti che America e U.S.N.A. sono la stessa cosa, ma Coolidge ha ufficializzato l'affare con uno dei suoi ultimi decreti, definendo se stesso e solo se stesso americano. Non sono servite a nulla le urla di protesta di parecchie decine di repubbliche e persino degli altri Stati Uniti che formano l'America (per esempio gli Stati Uniti del Messico). La parola "America" è dunque definitivamente annessa. Cosa si nasconde dietro quella parola? Che cos'è l'America, cosa sono la nazione americana, lo spirito americano? Io ho visto l'America solo dal finestrino del treno. Ma non è poco per un paese come l'America, che è attraversato in lungo e in largo da linee ferroviarie disposte in fila per quattro, per dieci, per quindici. E dietro queste linee altre linee, oblique, di altre compagnie ferroviarie. Non esiste un orario unico, poiché lo scopo principale di queste linee non è il soddisfacimento degli interessi dei passeggeri, ma il dollaro, la concorrenza con l'industriale vicino. Perciò, quando acquisti un biglietto in una stazione di una grande città, tu non sei affatto sicuro che questo sia il mezzo più rapido, economico e comodo di collegamento fra le città che t'interessano. Tanto più che tutti i treni sono insieme espressi, diretti e rapidi. Un treno impiega trentadue ore da Chicago a New York, un altro ventiquattro, un altro ancora venti. Eppure si chiamano tutti espressi. Sugli espressi i viaggiatori infilano il biglietto dietro la fascia del cappello. È più comodo. Non bisogna cercarlo nervosamente all'arrivo del controllore, che con il solito gesto tende la mano al cappello e si stupisce oltremodo se non vi trova il titolo di viaggio. Se prendi il vagone letto, che in America è molto rinomato essendo a parere unanime il più confortevole e comodo, tutti i tuoi principi organizzativi saranno sconvolti in due riprese, al mattino e alla sera, da un tramestio stupido e assurdo. Alle nove di sera cominciano a smontare il vagone diurno, tirano giù le tavole ribaltabili, sistemano il letto, fissano le aste di ferro, infilano gli anelli delle tendine, incastrano le barriere di ferro con grande frastuono. Tutte queste calcolate manovre si effettuano con il treno in marcia e alla fine, lungo il vagone, si ricavano dall'uno e dall'altro lato venti cuccette disposte su due piani e chiuse da apposite tendine. Al centro resta uno stretto passaggio, anzi una vera e propria fessura. Per poter passare durante la sistemazione dei letti, occorre compiere autentici giochi di prestigio con i posteriori di due inservienti negri infilati fino al collo nelle cuccette abbassate. Ne giri uno, lo fai ritrarre fin quasi nella piattaforma del vagone (in due è impossibile passare, specialmente se in mezzo c'è pure la scaletta per salire al secondo piano), cambi posto con lui e finalmente rientri di nuovo nel vagone. Spogliandoti trattieni trepidante le tendine che vorrebbero aprirsi, onde evitare esclamazioni indignate di organizzatrici sessantenni di qualche associazione di giovani cristiane, che si stanno svestendo nella cuccetta di fronte. Durante le operazioni ti dimentichi di ritrarre completamente i piedi nudi che sporgono dalla tendina e il negro ti passa dondolando sui calli con i suoi cinque pud di peso, accompagnato dalle tue maledizioni. Alle nove del mattino comincia il baccanale dello smontaggio, per riportare il vagone al suo "aspetto diurno". | << | < | > | >> |Pagina 79La visita alla fabbrica si svolge a gruppi di cinquanta persone. Si va sempre avanti, inesorabilmente. Alla testa cammina un uomo della Ford. Si va in fila indiana, senza fermarsi mai.Per ottenere il permesso si riempie un modulo in una stanza dov'è in mostra la decimilionesima Ford con tutte le scritte per l'anniversario. Ti riempiono le tasche di volantini pubblicitari della Ford poggiati a mazzi sui tavoli. I distributori dei moduli e gli accompagnatori hanno l'aspetto dei vecchi imbonitori in pensione dei negozi di svendita. Inizia la visita. Una pulizia impeccabile. Nessuno si ferma neppure per un istante. Uomini con il cappello passeggiano, osservano e prendono continuamente nota di qualcosa su dei fogli di carta. Evidentemente contabilizzano i movimenti degli operai. Non si sente una parola, né rumori isolati. Solo il ronzio operoso di tutta la fabbrica. Le facce sono verdastre e le labbra nere come nelle riprese cinematografiche. È l'effetto delle lunghe lampade al neon. Dopo il reparto degli attrezzi, le presse e la fonderia comincia la famosa catena di montaggio. Il lavoro scorre davanti agli operai. Nudi telai passano come se l'automobile fosse ancora senza calzoni. Si sistemano i parafanghi, l'automobile continua ad avanzare insieme a te in direzione dei motoristi, le gru calano le carrozzerie, i cerchioni arrivano rotolando, le ciambelle dei pneumatici scendono in continuazione dal soffitto, gli operai sotto la catena battono qualcosa col martello, gli operai in piedi su piccoli e bassi carrelli armeggiano ai lati. Dopo essere passata per migliaia di mani, l'automobile assume il suo aspetto finale in una delle ultime fasi e qui sale sulla vettura il pilota, la macchina si stacca dalla catena e si dirige da sé verso il cortile. Abbiamo già visto al cinema tutto questo, ma esci dalla fabbrica ugualmente sbalordito. Usciamo sulla via Woodword dopo aver attraversato i reparti ausiliari con balle di lana, con migliaia di pud di alberi a gomito che volano sopra la tua testa agganciati alle catene delle gru (Ford fa da sé tutte le parti delle sue macchine, dal tessuto al vetro). Accanto s'innalza la più grande centrale elettrica del mondo, anch'essa di Ford. Un compagno di gruppo, vecchio operaio della Fard che a causa della tubercolosi ha dovuto lasciare il lavoro dopo due anni, vede anche lui per la prima volta tutta la fabbtica. Mi dice con tabbia: "Ti mostrano solo la facciata, ti porterei a vedere le fucine sul River, dove la metà degli operai lavora nel fuoco e l'altra metà nel fango e nell'acqua." La sera gli operai corrispondenti del giornale comunista di Chicago "Daily Worker" mi dicono: - Male, malissimo. Non ci sono sputacchiere. Ford si tifiuta di metterle. Dice: "Non mi serve che voi sputiate. Mi serve che sia tutto pulito. Se volete sputare, compratevi le sputacchiere da soli". ...C'è la tecnica, è vero, ma va bene per lui, non per noi. ...Ci passa gli occhiali con il vetro spesso per una migliore protezione degli occhi, e il vetro costa anche caro. Che bontà! Ma lo fa solo perché se i vetri fossero sottili potremmo rimetterci gli occhi e allora dovrebbe pagare. Il vetro spesso, invece, viene solo scalfito, ma gli occhi ne risentono ugualmente a distanza di un paio di anni. In tal caso però non si paga. ...Per mangiare danno 15 minuti. Si consuma un pasto freddo accanto alle macchine. Secondo il codice del lavoro sarebbe obbligatorio un locale per la mensa. ...Licenziano senza nessuna indennità. ...I sindacalisti non li assumono. Non c'è la biblioteca. C'è solo il cinema. Però proiettano solo film su come si lavora più in fretta. ...Credi che non si verifichino incidenti? Sbagli. Semplicemente non se ne parla sui giornali, morti e feriti vengono portati via su una comune macchina Ford, invece che con l'autoambulanza. ...Il sistema di Ford è solo in apparenza a orario (otto ore il giorno), in realtà è autentico lavoro a cottimo. ...Ma come lottare contro Ford? ...Spioni, provocatori, agenti del Ku-Klux-Klan, e gli stranieri sono dappertutto più dell'80%. Come si fa a fare agitazione in cinquantaquattro lingue? Alle quattro ho assistito all'uscita degli operai ai cancelli della Ford. Sfiniti si sedevano in tram e si addormentavano. A Detroit si registra il maggior numero di divorzi, il sistema di Fard rende gli operai impotenti. | << | < | > | >> |Pagina 102Mi sto trasformando non in Tolstoj, ma in grassone, - mangio, scrivo, tonto dal calore. Chi non ha filosofato sopra il mare? L'acqua. Ieri l'oceano era maligno come un diavolo, oggi è più mansueto d'una colomba sulle uova. Quale differenza! Tutto scorre... Tutto si trasmuta. L'acqua ha il suo tempo: ore di flusso, ore di riflusso. Ma dalla penna di Steklov l'acqua non si è mai ritirata. Ingiusto. Un pesciolino morto galleggia solitario. Pendono le sue pinne come alette ferite. Galleggia da settimane, e non ha casa né tetto. Ci viene incontro, più lento del corpo d'una foca, il piroscafo dal Messico mentre noi vi andiamo. Non è possibile altrimenti. Divisione del lavoro. È una balena, dicono. Può darsi. Una specie di Bednyj-pesce, grosso tre bracciate. Solo che Dem'jan ha i baffi in fuori, e la balena in dentro. Gli anni sono gabbiani. Prendono il volo in fila, e giù in acqua, a impinzarsi di pescetti la pancina. Sono spariti i gabbiani. Propriamente parlando, dove sono gli uccellini? Io nacqui, crebbi, mi nutrirono con il poppatoio, - ho vissuto e lavorato, diventando vecchiotto... Ed ecco anche la vita passerà come sono passate le isole Azzorre.Scritta a bordo della nave Espagne, datata 3 luglio Oceano Atlantico. | << | < | > | >> |Pagina 143L'asfalto è vetro. Cammino e tintinno. Alberi e fili d'erba ben rasati. Da sud a nord vanno le avenues da est a ovest le streets. E in mezzo - (dove il costruttore le ha portate) - le case di impossibile lunghezza. Alcune lunghe fino alla luna, altre fino alle stelle. Gli yankee sono pigri a far andare le suole: è più semplice e rapido l'ascensore. Alle sette è il flusso umano alle diciassette il riflusso. Stridono i congegni, un rumore infernale, e nel chiasso la gente non dice una parola, ma più lenta mastica il suo chewing gum solo per lanciare un make money. Una mamma dà il seno al bambino. Il bambino, col naso che cola, al serio business è tutto intento: non un seno, ma un dollaro pare che succhi. È finito il lavoro. Avvolgi il corpo nell'incessante vento elettrico. Se vuoi andare sotterra prendi il subway, per il cielo c'è l'elevated I vagoni viaggiano alti come fumo, si sfregano ai calcagni delle case, cacciano la coda sul ponte di Brooklyn e la nascondono negli antri sotto l'Hudson. Sei assonnato, abbagliato. E dalla tenebra come un tamburo, ti batte sulle tempie: "Coffee Maxwell good to the last drop". E quando le luci commciano a scavare la notte, beh, non esagero, è tutto un bagliore! Guardi a sinistra: mammina mia! A destra: madre mia, mammina! Che spettacolo per gli amici di Mosca. A vederne la fine un giorno non basta. Questa è New York. Questa è Broadway. How do you do! Della città di New York sono entusiasta, ma non mi strappo il berretto dalla testà. I sovietici hanno di che essere fieri: noi i borghesi li guardiamo dall'alto.Datata 6 agosto 1925, New York. | << | < | > | >> |Pagina 172Emetti, Coolidge, un grido di gioia! Per una bella cosa nemmeno io risparmio le parole. Diventa rosso dalle mie lodi come la stoffa della nostra bandiera, anche voi siete i dis-united States of America. Come un credente invasato va in chiesa o si ritira, austero e semplice, in un èremo, - così io nel grigiastro balenio della sera entro, dimesso, sul ponte di Brooklyn. Come un vincitore irrompe in una città demolita sui cannoni dalla bocca lunga come giraffa, così, ubriaco di gloria, affamato di vita, io penetro, superbo, sul ponte di Brooklyn. Come uno sciocco pittore nella Madonna d'un museo configge il suo occhio, amoroso ed acuto, così io, cosparso di stelle, dal sottocielo guardo New-York attraverso il ponte di Brooklyn. New-York, sino alla sera plumbea e afosa, ha obliato le sue pene e la sua altezza, e soltanto le anime delle case si levano nella diafana fosforescenza delle finestre. Qui pizzica appena il prurito degli elevators. E solo da questo leggiero prurito comprendi che i treni strisciano tintinnando, come se qualcuno riponesse stoviglie in una credenza. Quando poi sembra che dalla sorgente del fiume un droghiere trasporti zucchero da una fabbrica, passano sotto il ponte alberi di nave, piccoli di misura come spilli. Io sono orgoglioso di questo miglio metallico, vive in esso s'innalzano le mie visioni: invece di stili lotta per le costruzioni, calcolo rigoroso di bulloni e d'acciaio. Se verrà la fine del mondo e il nostro pianeta dal caos sarà disgregato, e se d'ogni cosa resterà solo questo ponte impennato sopra la polvere dello sfacelo, allora, come da ossetti più esili di aghi crescono i pangolini nei musei, così con questo ponte il geologo dei secoli saprà ricostruire i giorni del presente. Egli dirà: "Questa zampa d'acciaio collegava mari e praterie, di qui l'Europa si slanciava verso l'Ovest, gettando al vento le piume degli Indiani. Ricorda una macchina codesta costola. Pensate, le braccia non vi basterebbero se, piantando un piede d'acciaio su Manhattan, verso di voi per il labbro voleste tirare Brooklyn. Dal viluppo di fili elettrici riconosco l'epoca seguente al vapore. Qui la gente già urlava alla radio, qui la gente già volava in aereo. Qui la vita era per gli uni spensierata, per gli altri un lungo gemito di fame. Di qui i disoccupati si buttavano a capofitto nello Hudson. E più lontano senza impedimenti il mio quadro s'allarga per corde-funi sino ai piedi delle stelle. Io vedo: qui si fermò Majakovskij, si fermò e, sillabando, componeva versi". Sgrano gli occhi come un Eschimese innanzi al treno, m'attacco come s'attacca all'orecchio una zecca. Il ponte di Brooklyn: questa sì... È una gran cosa!Scritta a New York fra il 6 agosto e il 20 settembre. | << | < | |