Copertina
Autore Vladimir Majakovskij
Titolo America
EdizioneVoland, Roma, 2004, confini 5 , pag. 188, cop.fle., dim. 144x205x13 mm , Isbn 978-88-88700-23-6
OriginaleMoe otkrytie Ameriki [1926]; Stichi ob Amerihe [1925]
TraduttoreFernanda Lepre, Stefano Trocini
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe viaggi , narrativa russa , poesia , poesia russa , paesi: USA , paesi: Messico , citta': New York
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Indice

Nota editoriale                           7

La mia scoperta dell'America              9

Messico                                  13
New York                                 37
America                                  62
Partenza                                 81

Note a La mia scoperta dell'America      86

Versi sull'America                       89

Spagna                                   91
Sei monache                              93
Oceano Atlantico                         97
Filosofia spicciola su luoghi profondi  102
Black and white                         104
Sifilide                                109
Cristoforo Colombo                      116
Tropici                                 125
Messico                                 127
A proposito di religione                136
Messico-New York                        140
Broadway                                143
Testimonianza                           146
La signorina e il Woolworth             150
Spaccato di grattacielo                 154
Il cittadino probo                      158
Sfida                                   162
100%                                    165
Russi americani                         169
Il ponte di Brooklyn                    172
Campo "Nit gedaige"                     177
A casa                                  181

Note a Versi sull'America               185
 

 

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Pagina 13

MESSICO



DUE PAROLE. Il mio ultimo itinerario: Mosca, Koenigsberg (aria). Berlino, Parigi, Saint-Nazaire, Gijon, Santander, Capo la Coronne1 (Spagna), Avana (isola di Cuba), Veracruz, Città del Messico, Laredo (Messico), New York, Chicago, Filadelfia, Detroit, Pittsburgh, Cleveland (Stati Uniti del Nord America), Le Havre, Parigi, Berlino, Riga, Mosca.

Viaggiare mi è necessario. Il contatto con le cose vive per me sostituisce quasi del tutto la lettura.

Il viaggio cattura il lettore di oggi. Invece di invenzioni interessanti su cose noiose, invece di immagini e metafore, cose interessanti di per sé.

Vi ho vissuto troppo poco per descrivere particolari in maniera corretta e precisa. Vi ho vissuto quel poco che basta per dare un fedele quadro d'insieme.


18 GIORNI D'OCEANO. L'oceano è un fatto di immaginazione. Sul mare non si vedono le coste, sul mare le onde sono più numerose di quanto non serva nella vita quotidiana, sul mare non sai cosa ci sia sotto di te.

Ma soltanto l'idea che a destra non c'è terra fino al polo e a sinistra non c'è terra fino al polo, davanti a te c'è un secondo mondo del tutto nuovo e sotto di te, forse, c'è l'Atlantide, ebbene, soltanto quest'idea è l'oceano Atlantico. Calmo, l'oceano è noioso. Per diciotto giorni scivoliamo come una mosca sullo specchio. Solo una volta abbiamo assistito a uno spettacolo ben riuscito, sulla via del ritorno da New York a Le Havre. Un denso acquazzone copriva di schiuma il bianco oceano, striava di bianco il cielo, con fili bianchi cuciva il cielo all'acqua. Dopo è comparso l'arcobaleno. L'arcobaleno si rifletteva e si chiudeva nell'oceano e noi, come acrobati di circo, ci gettavamo nel cerchio iridescente. Poi di nuovo spugne galleggianti, pesciolini volanti, pesciolini voltanti e spugne galleggianti del mar dei Sargassi, e in rare, solenni occasioni, fontane di balene. E sempre, fino alla noia (a volte fino alla nausea), acqua e acqua.

L'oceano stanca, ma quando non c'è ci si annoia.

Dopo, cerchiamo a lungo il fragore dell'onda, il rumore tranquillizzante delle macchine, il tintinnio ritmato delle placche di rame dei boccaporti.


LA NAVE ESPAGNE, 14.000 tonnellate. Una nave piccola, all'incirca il nostro GUM. Tre classi, due fumaioli, cinematografo, bar-sala da pranzo, biblioteca, sala per gli spettacoli e giornale.

Il giornale "Atlantik". Comunque un giornalaccio. In prima pagina personaggi importanti: Baliev e Saljapin, nelle pagine centrali descrizioni di alberghi (evidentemente, materiale preparato a terra) e una colonnina insipida di informazioni: il menu del giorno e le ultime notizie radio, del tipo: "In Marocco tutto è tranquillo."

Il ponte è addobbato con lampioncini multicolori e tutta la notte la prima classe balla con i capitani. Per tutta la notte infuria il jazz:

    Marquita,
             Marquita,
                      Marquita mia
    Perché,
           Marquita,
                    sei andata via...

Le classi sono proprio classi. Nella prima, mercanti, fabbricanti di cappelli e di colletti, artisti arrivati e monache. Gente strana: rappresentanti di ditte francesi con passaporti paraguayani o argentini, di nazionalità turca, che parlano solo inglese e vivono sempre in Messico. Sono i colonizzatori dei nostri giorni, tipi da Messico. Come un tempo i compagni di viaggio e i discendenti di Colombo spogliavano gli indiani in cambio di paccottiglia da quattro soldi, così adesso nelle piantagioni dell'Avana spezzano la schiena ai pellerossa in cambio di una cravatta rossa che inizia il negro alla civiltà europea. Stanno per conto loro. E se vanno in terza o in seconda, è solo per correre dietro alle belle ragazze. Seconda classe: modesti commessi viaggiatori, artisti alle prime armi, intellettuali che picchiano sulla Remington. Senza farsi notare dai giovani ufficiali di bordo sgusciano sui ponti di prima classe. Poi si raddrizzano e restano impalati con l'aria di dire: ebbene, cosa ho di diverso? Ho lo stesso colletto, e pure i polsini! Ma li sorprendono e senza tante cerimonie li invitano a tornarsene al loro posto. La terza classe riempie le stive. Gente che viene dalle Odesse di tutto il mondo in cerca di lavoro: pugili, investigatori, negri.

Questi non cercano di intrufolarsi sui ponti superiori. A quanti si affacciano dalle altre classi domandano con cupa invidia:

"Avere giocato a préférence?" Si leva di qui un tanfo pesante di sudore e stivali, un lezzo acidulo di pannolini messi ad asciugare, lo scricchiolio delle amache e delle brandine disseminate per tutto il ponte, il pianto convulso dei bambini e i bisbigli, in un quasi russo, delle madri che cercano di calmarli: "Finiscila, tesoruccio, su, smettila di frignare."

La prima classe gioca a poker e a madjong, la seconda gioca a dama e suona la chitarra. La terza, invece, mette un braccio dietro la schiena e chiude gli occhi, mentre da dietro, con tutte le forze, le colpiscono il palmo della mano: si deve indovinare chi è stato a picchiare di tutta la banda. Se si indovina, chi ha dato il colpo prende il posto di chi lo ha preso. Consiglio questo gioco spagnolo agli studenti.

La prima classe vomita dove vuole, la seconda sulla terza, e la terza su se stessa.

Non succede mai niente.

Arriva il telegrafista e strillando annuncia le navi che incrociamo. Potete anche inviare un radio telegramma in Europa.

L'addetto alla biblioteca, data la scarsa richiesta di libri, si occupa anche di altre cose. Distribuisce un foglietto con dieci cifre. Tu tiri fuori dieci franchi e scrivi il tuo nome: se il numero delle miglia percorse finisce con la cifra che hai scelto, questo totalizzatore marino ti paga cento franchi.

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Pagina 44

IO AMO NEW YORK nei giorni lavorativi, nei giorni feriali d'autunno.

Le sei del mattino. Tempesta e pioggia. È buio e sarà buio fino a mezzogiorno.

Ti vesti con la luce elettrica. Luce elettrica nelle strade, luce elettrica nelle case che, perforate ai rettangoli delle finestre, somigliano ai normografi dei cartellonisti. La smisurata lunghezza delle case e i lampeggianti, policromi regolatori del traffico si moltiplicano due, tre, dieci volte sull'asfalto lucidato a specchio dalla pioggia. Nelle strette gole delle case sibila come nei comignoli un vento masnadiero. Strappa e fracassa le insegne, vorrebbe stenderti a terra e fugge via impunemente, nessuno che lo trattiene, attraverso le verste della decina di avenues che tagliano in lungo Manhattan (l'isola di New York) dall'oceano all'Hudson. Ai lati accompagnano il fragore della tempesta le innumerevoli vocine delle strette strade che, con altrettanti rettilinei, tagliano in largo Manhattan dal mare al mare. Sotto le pensiline - direttamente sul marciapiede se non piove - giacciono i pacchi dei giornali mattutini, consegnati prima coi camion e poi gettati qui dagli strilloni.

I celibi mettono in moto nei piccoli caffè le macchine dei loro corpi, cacciandosi nella bocca il primo carburante, ovvero un frettoloso bicchiere di schifoso caffè e una delle ciambelle cotte che la macchina automatica getta in un istante a centinaia in un pentolone di grasso bollente e sputacchiante.

In basso scorre il fiume umano. Prima, fino all'alba, la massa nero-lilla dei negri, che eseguono i lavori più pesanti e oscuri. Poi, verso le sette, quella dei bianchi, ininterrotta. Vanno nella stessa direzione a centinaia di migliaia verso i luoghi di lavoro. Solo impermeabili gialli di tela cerata scrosciano come innumerevoli samovar, luccicano inzuppati sotto la luce elettrica e neppure una simile pioggia riesce a spegnerli.

Automobili e taxi ancora non ce ne sono, o quasi.

La folla scorre, inonda le cavità della sotterranea, invade gli accessi coperti alla ferrovia soprelevata, sfreccia sui convogli aerei rapidi e locali, quasi senza fermate i primi, con una fermata ogni cinque isolati i secondi. Due linee sono disposte una sopra l'altra, tre parallelamente.

Queste cinque linee parallele sfrecciano lungo cinque avenues a un'altezza di tre piani e, giunte alla 120a strada, si inerpicano fino all'ottavo e al nono, tanto che i nuovi passeggeri vengono portati su in ascensore direttamente dalle piazze e dalle vie. Non esistono biglietti. Basta infilare nella cassa-salvadanaio cilindrica cinque cents, che una lente ingrandisce immediatamente e mostra al cambiamonete seduto in guardiola a scanso di imbrogli.

Cinque cents e viaggi a qualunque distanza, ma in una direzione soltanto.

I sostegni e il piano della ferrovia aerea sono sospesi spesso come un'interminabile tettoia per tutta la lunghezza delle strade, tanto che non si vedono né il cielo, né le case di lato, e si ode solo il frastuono dei treni sopra la testa e quello dei camion sotto il naso. Un frastuono che non ti fa capire una parola e così, per non disabituarti a muovere le labbra, non ti resta che masticare taciturno una gomma americana, un chewing-gum.

Al mattino e nella tempesta New York è più bella, quando non passa neppure un fannullone, neppure una persona superflua, ma solo il grande esercito del lavoro di una città di dieci milioni di persone.

Le masse operaie si sparpagliano per le fabbriche di vestiti da uomo e da donna, per le nuove gallerie delle sotterranee in costruzione, per gli innumerevoli lavori portuali, e verso le otto le strade si riempiono di un'infinità di esili fanciulle, molto più pulite e curate, con una schiacciante presenza di capelli corti, ginocchia scoperte e calze arrotolate. Sono le lavoratrici degli uffici, delle cancellerie e dei negozi, disseminate per tutti i piani dei grattacieli di Downtown, per i lati dei corridoi, cui si accede dall'ingresso principale con decine di ascensori.

Decine di ascensori locali, con fermate ad ogni piano, e decine di rapidi, senza fermate fino al diciassettesimo, ventesimo e trentesimo piano. Strani orologi indicano il piano dove si trova l'ascensore, una luce bianca si accende se scende, una rossa se sale.

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Pagina 51

ODIO NEW YORK DI DOMENICA: verso le dieci nella casa di fronte un impiegato in mutande color lilla tira su la tenda. Senza aver indossato i calzoni, evidentemente, si siede alla finestra con il "World", o forse il "Times", un centinaio di pagine del peso di un chilo. Per un'ora legge le pagine colorate e poetiche della pubblicità e dei grandi magazzini (che formano la concezione del mondo dell'americano medio), poi sfoglia quelle delle rapine e degli omicidi.

L'uomo indossa quindi giacca e pantaloni, dai quali immancabilmente esce la camicia. Intorno al collo si stringe una cravatta color canarino misto rosso fuoco e Mar Nero, annodata una volta per tutte. Vestito, l'americano cerca di trascorrere un'oretta con il padrone dell'albergo o il portiere, seduti sui bassi scalini che circondano lo stabile oppure sulle panchine della vicina, spelacchiata piazzetta.

La conversazione verte su qualcuno che di notte avrebbe ricevuto degli ospiti: pare che li abbiano sentiti bere e, se sono entrati e hanno bevuto, bisognerebbe sporgere denuncia, querelare e cacciare gli adulteri ubriaconi.

All'una l'americano va a colazione dove fanno colazione quelli più ricchi di lui, e dove la sua signora si riempirà di languore e di estasi davanti a un galletto da diciassette dollari. Poi l'americano si recherà per la centesima volta nella tomba a vetrate del generale Grant e della generalessa, oppure, toltosi stivali e giacca, si sdraierà in qualche giardinetto sopra il lenzuolo già letto del "Times", lasciando dietro di sé, a città e cittadinanza, pezzi di giornale, un pacchetto vuoto di chewing-gum e l'erba pestata.

I più ricchi, prima del pranzo, stimolano l'appetito guidando la propria auto, sfrecciando altezzosi accanto a quelle di minor prezzo e guardando di traverso le più sgargianti e costose.

Naturalmente, coloro i quali hanno sullo sportello dell'auto lo stemma dorato di conte o barone suscitano particolare invidia negli americani di basso ceto.

Se un americano è in macchina con una signora che ha mangiato insieme a lui, la bacia senza indugio e pretende di essere ricambiato. Senza questa "minima riconoscenzà" riterrà che i dollari pagati per il conto siano stati spesi invano e non andrà mai più in nessun posto con questa donna ingrata, che sicuramente sarà derisa dalle sue amiche sagge e oculate.

Se l'americano è solo nella sua auto, egli (campione di moralità e pudicizia) rallenterà la marcia e si fermerà davanti a ogni pedone in gonnella solitario e piacente, scoprirà i denti in un sorriso equino e l'inviterà a salire con una spaventosa rotazione degli occhi. La dama che non capisce la sua eccitazione sarà considerata una stupida, incapace di afferrare la fortuna e la possibilità di conoscere il proprietario di una vettura da cento cavalli.

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Pagina 55

I TRATTI DELLA VITA AMERICANA SONO DIFFICILI. È facile dire degli americani cose scontate, trite e ritrite: paese dei dollari, sciacalli dell'imperialismo, ecc.

Questo è solo un piccolo quadro dell'immenso film americano.

Che sia il paese dei dollari lo sa qualsiasi alunno delle scuole elementari. Però questa immagine risulta del tutto sbagliata, se si tiene presente la caccia al dollaro scatenata dagli speculatori nel nostro paese alla caduta del rublo nel 1919, o scatenata in Germania al tracollo del marco nel 1922, quando i detentori di migliaia e milioni di marchi saltavano la colazione nella speranza che la sera il pane diminuisse di prezzo.

Avari? No. Un paese che durante l'anno mangia un gelato da un milione di dollari può meritarsi anche altri epiteti.

Il dollaro è il padre, il figlio e lo spirito santo.

Ma non si tratta della bassa spilorceria di chi si rassegna solo alla necessità di avere i soldi, di accumulare un gruzzolo, per poi smettere di lucrare e piantare margherite nel suo giardino. Loro portano la luce elettrica nei pollai di qualsiasi villaggio. I newyorkesi raccontano ancora con simpatia la storia del cowboy Diamond Jim, accaduta nell'Undici.

Ereditata la bella somma di duecentocinquantamila dollari, noleggiò un intero treno di prima classe, lo caricò di vino e di tutti i suoi amici e parenti, arrivò a New York, fece il giro di tutti i locali di Broadway, in due giorni bruciò un paio di milioni di rubli e alla fine ritornò senza un cent ai suoi mustang sul lurido predellino di un treno merci.

No! C'è poesia nell'atteggiamento dell'americano verso il dollaro. Egli sa che il dollaro è l'unica forza nella sua nazione borghese di centodieci milioni di anime (nelle altre anche), e io sono sicuro, a parte ogni altra caratteristica del denaro, che l'americano sia innamorato del colore verde del dollaro, perché vi vede la primavera, e anche del torello riprodotto nell'ovale, che gli sembra il ritratto del suo fisico tarchiato, il simbolo del suo appagamento. Zio Lincoln, da parte sua, e la possibilità per ciascun democratico di eguagliare simili uomini, fanno del dollaro la pagina più bella ed elevata che gli adolescenti possano leggere. L'americano, quando ti incontra, non saluta con un disinteressato:

- Buongiorno.

Ma ti grida con animo partecipe:

- Make money? (Fai i soldi?) - e va oltre.

L'americano non ti dice vagamente:

- Oggi hai un bell' (o brutto) aspetto.

L'americano è preciso:

- Oggi hai una faccia da due cents.

Oppure:

- Hai una faccia da un milione di dollari.

Di te non diranno con aria romantica che sei poeta, o artista, o filosofo, affinché l'ascoltatore si perda in supposizioni.

L'americano è preciso:

- Quest'uomo vale 1.230.000 dollari.

E qui abbiamo tutte le informazioni: sappiamo chi sono i tuoi conoscenti, in quali ambienti vieni ricevuto, dove vai in estate, ecc.

Come hai fatto tutti questi milioni non interessa a nessuno in America. Tutto è business, sono tutti "affari" quelli che producono dollari. Hai percepito i diritti per un poema andato a ruba, è business, hai compiuto una rapina e l'hai fatta franca, anche questo è business.

Ti educano al business fin dall'infanzia. I genitori ricchi sono contenti se il loro figlio di dieci anni lascia perdere i libri e porta a casa il suo primo dollaro, ricavato dalla vendita dei giornali.

- Sarà un vero americano.

In quest'aria di business si sviluppa l'intraprendenza degli adolescenti.

In un campo di bambini, un raduno estivo in colonia, dove ci si irrobustisce con il nuoto ed il football, sono state proibite le parolacce durante la boxe.

- Come si fa a scazzottarsi senza dire parolacce? - protestano accorati i bambini.

Un businessman in erba sfrutta immediatamente questa esigenza. Sulla sua tenda si legge il seguente avviso: "Insegno cinque parolacce russe per un nichel, quindici per due nichel."

E la tenda si riempie di bambini desiderosi di apprendere parolacce sicure, incomprensibili agli allenatori.

Messosi al centro, il fortunato esperto di parolacce russe tiene la sua lezione:

- Tutti in coro: durak!

- Durak!

- Svoloc'!

- Svoloc', non Tvoloc'.

Quando arriva a sukin syn deve battere molto, poiché i bambolotti americani pronunciano sukin sign e il giovane ma onesto businessman non intende spacciare parolacce scadenti a un prezzo di tutto rispetto.

Nell'ambiente dei grandi il business assume forme grandiose, epiche.

Tre anni orsono il candidato a una carica municipale lucrosa, tale mister Regelman, aveva l'impellente necessità di sfoggiare, davanti agli elettori, una qualche sua opera filantropica. Decise perciò di costruire una balconata di legno sul litorale per i visitatori di Coney Island.

I proprietari della striscia di spiaggia necessaria, però, chiesero una somma colossale, più di quanto poteva rendere la futura carica. Regelman allora, infischiandosene altamente dei proprietari, fece arretrare l'Oceano con tonnellate di sabbia e ghiaia, ricavò una striscia di terra larga trecento cinquanta piedi e per tre miglia e mezza stese sulla riva un impeccabile tavolato.

Regelman fu eletto.

Nel giro di un anno si rifece abbondantemente delle spese: grazie alla sua influenza riuscì a vendere molto bene a dei pubblicitari tutti gli spazi visibili della sua originale costruzione.

Se è sufficiente la sola pressione indiretta dei dollari per acquistare cariche, notorietà e immortalità, mettendo direttamente mano al denaro ti compri tutto.

I giornali sono stati fondati dai trusts; i trusts, gli affaristi dei trusts, li hanno ceduti in anticipo alle agenzie di pubblicità, ai grandi magazzini. In genere, i giornali sono stati venduti tramite operazioni tanto solide e costose, che la stampa americana viene considerata incorruttibile. Non c'è somma che basti a comperare un giornalista già venduto.

Ma se il tuo prezzo è tale che gli altri ti offrono di più, dimostralo e il padrone stesso ti darà di più.

Titoli? Prego. Giornali e autori di rivista irridono spesso alla stella del cinema Gloria Swanson, ex cameriera che ora vale quindicimila dollari alla settimana, e al suo bel conte, insieme ai modelli di Paquin e alle scarpe Anan, fatte arrivare da Parigi.

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Pagina 62

AMERICA



QUANDO SI DICE "America", si pensa a New York, agli zii d'America, ai mustang, ai Coolidge e agli altri accessori degli Stati Uniti del Nord America.

È strano, ma vero.

È strano, perché di Americhe ce ne sono tre: Settentrionale, Centrale e Meridionale.

Gli U.S.N.A. non occupano neppure tutta l'America Settentrionale e - guarda un po' - hanno confiscato, usurpato e arrogato a sé il nome di tutte le Americhe.

È vero, perché gli Stati Uniti si sono attribuiti il diritto di chiamarsi America con la forza, le dreadnoughts e i dollari, terrorizzando le vicine repubbliche e colonie.

Nei soli tre mesi del mio breve soggiorno gli americani hanno brandito il pugno di ferro sotto il naso dei messicani, colpevoli di aver progettato la nazionalizzazione del loro inalienabile sottosuolo; hanno sguinzagliato battaglioni a sostegno di un certo governo abbattuto dal popolo venezuelano; hanno lasciato intendere inequivocabilmente all'Inghilterra che se non paga i debiti, potrebbe scricchiolare il granaio canadese; con i francesi hanno fatto la stessa cosa e, alla vigilia della conferenza sul rimborso dei debiti da essi contratti, prima hanno inviato i loro piloti in Marocco per aiutare i francesi, poi li hanno richiamati per considerazioni umanitarie, diventando improvvisamente filomarocchini.

Tradotto in russo tutto ciò significa: tira fuori i soldi e avrai i piloti.

Lo sapevano tutti che America e U.S.N.A. sono la stessa cosa, ma Coolidge ha ufficializzato l'affare con uno dei suoi ultimi decreti, definendo se stesso e solo se stesso americano. Non sono servite a nulla le urla di protesta di parecchie decine di repubbliche e persino degli altri Stati Uniti che formano l'America (per esempio gli Stati Uniti del Messico).

La parola "America" è dunque definitivamente annessa.

Cosa si nasconde dietro quella parola?

Che cos'è l'America, cosa sono la nazione americana, lo spirito americano?

Io ho visto l'America solo dal finestrino del treno.

Ma non è poco per un paese come l'America, che è attraversato in lungo e in largo da linee ferroviarie disposte in fila per quattro, per dieci, per quindici. E dietro queste linee altre linee, oblique, di altre compagnie ferroviarie. Non esiste un orario unico, poiché lo scopo principale di queste linee non è il soddisfacimento degli interessi dei passeggeri, ma il dollaro, la concorrenza con l'industriale vicino.

Perciò, quando acquisti un biglietto in una stazione di una grande città, tu non sei affatto sicuro che questo sia il mezzo più rapido, economico e comodo di collegamento fra le città che t'interessano. Tanto più che tutti i treni sono insieme espressi, diretti e rapidi.

Un treno impiega trentadue ore da Chicago a New York, un altro ventiquattro, un altro ancora venti. Eppure si chiamano tutti espressi.

Sugli espressi i viaggiatori infilano il biglietto dietro la fascia del cappello. È più comodo. Non bisogna cercarlo nervosamente all'arrivo del controllore, che con il solito gesto tende la mano al cappello e si stupisce oltremodo se non vi trova il titolo di viaggio. Se prendi il vagone letto, che in America è molto rinomato essendo a parere unanime il più confortevole e comodo, tutti i tuoi principi organizzativi saranno sconvolti in due riprese, al mattino e alla sera, da un tramestio stupido e assurdo. Alle nove di sera cominciano a smontare il vagone diurno, tirano giù le tavole ribaltabili, sistemano il letto, fissano le aste di ferro, infilano gli anelli delle tendine, incastrano le barriere di ferro con grande frastuono. Tutte queste calcolate manovre si effettuano con il treno in marcia e alla fine, lungo il vagone, si ricavano dall'uno e dall'altro lato venti cuccette disposte su due piani e chiuse da apposite tendine. Al centro resta uno stretto passaggio, anzi una vera e propria fessura.

Per poter passare durante la sistemazione dei letti, occorre compiere autentici giochi di prestigio con i posteriori di due inservienti negri infilati fino al collo nelle cuccette abbassate.

Ne giri uno, lo fai ritrarre fin quasi nella piattaforma del vagone (in due è impossibile passare, specialmente se in mezzo c'è pure la scaletta per salire al secondo piano), cambi posto con lui e finalmente rientri di nuovo nel vagone. Spogliandoti trattieni trepidante le tendine che vorrebbero aprirsi, onde evitare esclamazioni indignate di organizzatrici sessantenni di qualche associazione di giovani cristiane, che si stanno svestendo nella cuccetta di fronte.

Durante le operazioni ti dimentichi di ritrarre completamente i piedi nudi che sporgono dalla tendina e il negro ti passa dondolando sui calli con i suoi cinque pud di peso, accompagnato dalle tue maledizioni. Alle nove del mattino comincia il baccanale dello smontaggio, per riportare il vagone al suo "aspetto diurno".

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Pagina 79

La visita alla fabbrica si svolge a gruppi di cinquanta persone. Si va sempre avanti, inesorabilmente. Alla testa cammina un uomo della Ford. Si va in fila indiana, senza fermarsi mai.

Per ottenere il permesso si riempie un modulo in una stanza dov'è in mostra la decimilionesima Ford con tutte le scritte per l'anniversario. Ti riempiono le tasche di volantini pubblicitari della Ford poggiati a mazzi sui tavoli. I distributori dei moduli e gli accompagnatori hanno l'aspetto dei vecchi imbonitori in pensione dei negozi di svendita.

Inizia la visita. Una pulizia impeccabile. Nessuno si ferma neppure per un istante. Uomini con il cappello passeggiano, osservano e prendono continuamente nota di qualcosa su dei fogli di carta. Evidentemente contabilizzano i movimenti degli operai. Non si sente una parola, né rumori isolati. Solo il ronzio operoso di tutta la fabbrica. Le facce sono verdastre e le labbra nere come nelle riprese cinematografiche. È l'effetto delle lunghe lampade al neon. Dopo il reparto degli attrezzi, le presse e la fonderia comincia la famosa catena di montaggio. Il lavoro scorre davanti agli operai. Nudi telai passano come se l'automobile fosse ancora senza calzoni. Si sistemano i parafanghi, l'automobile continua ad avanzare insieme a te in direzione dei motoristi, le gru calano le carrozzerie, i cerchioni arrivano rotolando, le ciambelle dei pneumatici scendono in continuazione dal soffitto, gli operai sotto la catena battono qualcosa col martello, gli operai in piedi su piccoli e bassi carrelli armeggiano ai lati. Dopo essere passata per migliaia di mani, l'automobile assume il suo aspetto finale in una delle ultime fasi e qui sale sulla vettura il pilota, la macchina si stacca dalla catena e si dirige da sé verso il cortile. Abbiamo già visto al cinema tutto questo, ma esci dalla fabbrica ugualmente sbalordito.

Usciamo sulla via Woodword dopo aver attraversato i reparti ausiliari con balle di lana, con migliaia di pud di alberi a gomito che volano sopra la tua testa agganciati alle catene delle gru (Ford fa da sé tutte le parti delle sue macchine, dal tessuto al vetro). Accanto s'innalza la più grande centrale elettrica del mondo, anch'essa di Ford.

Un compagno di gruppo, vecchio operaio della Fard che a causa della tubercolosi ha dovuto lasciare il lavoro dopo due anni, vede anche lui per la prima volta tutta la fabbtica. Mi dice con tabbia: "Ti mostrano solo la facciata, ti porterei a vedere le fucine sul River, dove la metà degli operai lavora nel fuoco e l'altra metà nel fango e nell'acqua."

La sera gli operai corrispondenti del giornale comunista di Chicago "Daily Worker" mi dicono:

- Male, malissimo. Non ci sono sputacchiere. Ford si tifiuta di metterle. Dice: "Non mi serve che voi sputiate. Mi serve che sia tutto pulito. Se volete sputare, compratevi le sputacchiere da soli".

...C'è la tecnica, è vero, ma va bene per lui, non per noi.

...Ci passa gli occhiali con il vetro spesso per una migliore protezione degli occhi, e il vetro costa anche caro. Che bontà! Ma lo fa solo perché se i vetri fossero sottili potremmo rimetterci gli occhi e allora dovrebbe pagare. Il vetro spesso, invece, viene solo scalfito, ma gli occhi ne risentono ugualmente a distanza di un paio di anni. In tal caso però non si paga.

...Per mangiare danno 15 minuti. Si consuma un pasto freddo accanto alle macchine. Secondo il codice del lavoro sarebbe obbligatorio un locale per la mensa.

...Licenziano senza nessuna indennità.

...I sindacalisti non li assumono. Non c'è la biblioteca. C'è solo il cinema. Però proiettano solo film su come si lavora più in fretta.

...Credi che non si verifichino incidenti? Sbagli. Semplicemente non se ne parla sui giornali, morti e feriti vengono portati via su una comune macchina Ford, invece che con l'autoambulanza.

...Il sistema di Ford è solo in apparenza a orario (otto ore il giorno), in realtà è autentico lavoro a cottimo.

...Ma come lottare contro Ford?

...Spioni, provocatori, agenti del Ku-Klux-Klan, e gli stranieri sono dappertutto più dell'80%.

Come si fa a fare agitazione in cinquantaquattro lingue?

Alle quattro ho assistito all'uscita degli operai ai cancelli della Ford. Sfiniti si sedevano in tram e si addormentavano.

A Detroit si registra il maggior numero di divorzi, il sistema di Fard rende gli operai impotenti.

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FILOSOFIA SPICCIOLA SU LUOGHI PROFONDI




    Mi sto trasformando
                       non in Tolstoj, ma in grassone, -
    mangio,
           scrivo,
                  tonto dal calore.
    Chi non ha filosofato sopra il mare?
    L'acqua.
    Ieri
        l'oceano era maligno
                            come un diavolo,
    oggi
        è più mansueto
                      d'una colomba sulle uova.
    Quale differenza!
                     Tutto scorre...
    Tutto si trasmuta.
    L'acqua
           ha
             il suo tempo:
    ore di flusso,
                  ore di riflusso.
    Ma dalla penna di Steklov
                             l'acqua
                                    non si è mai ritirata.
    Ingiusto.
    Un pesciolino morto
                       galleggia solitario.
    Pendono
           le sue pinne
                       come alette ferite.
    Galleggia da settimane,
                           e non ha
                                   casa
    né tetto.
    Ci viene incontro,
                      più lento del corpo d'una foca,
    il piroscafo dal Messico
                            mentre noi
                                      vi andiamo.
    Non è possibile altrimenti.
                               Divisione
    del lavoro.
    È una balena, dicono.
                         Può darsi.
    Una specie di Bednyj-pesce,
                               grosso tre bracciate.
    Solo che Dem'jan ha i baffi in fuori,
                                         e la balena
    in dentro.
    Gli anni sono gabbiani.
                           Prendono il volo in fila,
    e giù in acqua,
                   a impinzarsi di pescetti la pancina.
    Sono spariti i gabbiani.
                            Propriamente parlando,
    dove sono gli uccellini?
    Io nacqui,
              crebbi,
                     mi nutrirono con il poppatoio, -
    ho vissuto
              e lavorato,
                         diventando vecchiotto...
    Ed ecco anche la vita passerà
                                 come sono passate
    le isole Azzorre.
Scritta a bordo della nave Espagne, datata 3 luglio Oceano Atlantico.

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BROADWAY



    L'asfalto è vetro.
                     Cammino e tintinno.
    Alberi e fili d'erba
                        ben rasati.
    Da sud
          a nord
                vanno le avenues
    da est a ovest
                  le streets.
    E in mezzo -
    (dove il costruttore le ha portate) -
    le case
           di impossibile lunghezza.
    Alcune
          lunghe fino alla luna,
    altre
         fino alle stelle.
    Gli yankee
              sono pigri
                        a far andare le suole:
    è più semplice
                  e rapido l'ascensore.
    Alle sette
              è il flusso umano
    alle diciassette
                    il riflusso.
    Stridono i congegni,
                        un rumore infernale,
    e nel chiasso la gente
                          non dice una parola,
    ma più lenta
                mastica il suo chewing gum
    solo per lanciare
                     un make money.
    Una mamma
             dà il seno
                       al bambino.
    Il bambino,
               col naso che cola,
    al serio
            business
                    è tutto intento:
    non un seno,
                ma un dollaro
                             pare che succhi.
    È finito il lavoro.
    Avvolgi il corpo
                    nell'incessante
                                   vento elettrico.
    Se vuoi andare sotterra
                           prendi il subway,
    per il cielo
                c'è l'elevated
    I vagoni
            viaggiano
                     alti come fumo,
    si sfregano
               ai calcagni
                          delle case,
    cacciano
            la coda
                   sul ponte di Brooklyn
    e la nascondono
                   negli antri
                              sotto l'Hudson.
    Sei assonnato,
                  abbagliato.
    E
     dalla tenebra
                  come un tamburo,
    ti batte sulle tempie:
                          "Coffee Maxwell
    good
        to the last drop".
    E quando le luci
                    commciano
                             a scavare la notte,
    beh, non esagero,
                     è tutto un bagliore!
    Guardi a sinistra:
                      mammina mia!
    A destra:
             madre mia, mammina!
    Che spettacolo per gli amici di Mosca.
    A vederne la fine
                     un giorno non basta.
    Questa è New York.
                      Questa è Broadway.
    How do you do!
    Della città di New York
                           sono entusiasta,
    ma non mi strappo
                     il berretto dalla testà.
    I sovietici hanno
                     di che essere fieri:
    noi i borghesi
                  li guardiamo dall'alto.
Datata 6 agosto 1925, New York.

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Pagina 172

IL PONTE DI BROOKLYN



    Emetti, Coolidge,
    un grido di gioia!
    Per una bella cosa
                      nemmeno io risparmio le parole.
    Diventa rosso
                 dalle mie lodi
                       come la stoffa della nostra bandiera,
    anche voi siete
                   i dis-united States
                                      of
    America.
    Come un credente invasato
                             va
                               in chiesa
    o si ritira,
                austero e semplice,
                                   in un èremo, -
    così io
           nel grigiastro
                         balenio della sera
    entro,
          dimesso, sul ponte di Brooklyn.
    Come un vincitore irrompe
                             in una città
                                         demolita
    sui cannoni dalla bocca
                           lunga come giraffa,
    così, ubriaco di gloria,
                            affamato di vita,
    io penetro,
               superbo,
                       sul ponte di Brooklyn.
    Come uno sciocco pittore
                            nella Madonna d'un museo
    configge il suo occhio,
                           amoroso ed acuto,
    così io,
            cosparso di stelle,
                               dal sottocielo
    guardo
          New-York
                  attraverso il ponte di Brooklyn.
    New-York,
             sino alla sera plumbea
                                   e afosa,
    ha obliato
              le sue pene
                         e la sua altezza,
    e soltanto
              le anime delle case
    si levano
             nella diafana fosforescenza delle finestre.
    Qui
       pizzica appena
                     il prurito degli elevators.
    E solo
          da questo
                   leggiero prurito
    comprendi
             che i treni
                        strisciano tintinnando,
    come se qualcuno
                    riponesse stoviglie in una credenza.
    Quando poi
              sembra che dalla sorgente del fiume
    un droghiere trasporti
                          zucchero
                                  da una fabbrica,
    passano
           sotto il ponte alberi di nave,
    piccoli
           di misura come spilli.
    Io sono orgoglioso
                      di questo
                               miglio metallico,
    vive in esso
                s'innalzano le mie visioni:
    invece di stili
                   lotta
                        per le costruzioni,
    calcolo rigoroso
                    di bulloni
                              e d'acciaio.
    Se
      verrà
           la fine del mondo
    e il nostro pianeta
                       dal caos
                               sarà disgregato,
    e se d'ogni cosa
                    resterà
                           solo questo
    ponte impennato sopra la polvere dello sfacelo,
    allora,
           come da ossetti
                          più esili di aghi
    crescono
            i pangolini
                       nei musei,
    così
        con questo ponte
                        il geologo dei secoli
    saprà
         ricostruire
                    i giorni del presente.
    Egli dirà:
              "Questa
                     zampa d'acciaio
    collegava
             mari
                 e praterie,
    di qui
          l'Europa
                  si slanciava verso l'Ovest,
    gettando
            al vento
                    le piume degli Indiani.
    Ricorda
           una macchina
                       codesta costola.
    Pensate,
            le braccia non vi basterebbero
    se, piantando
                 un piede d'acciaio
                                   su Manhattan,
    verso di voi
                per il labbro
                             voleste tirare Brooklyn.
    Dal viluppo
               di fili elettrici
    riconosco
             l'epoca
                    seguente al vapore.
    Qui
       la gente
               già
                  urlava alla radio,
    qui la gente
                già
                   volava in aereo.
    Qui
       la vita
              era
                 per gli uni spensierata,
    per gli altri
                 un lungo
                         gemito di fame.
    Di qui
          i disoccupati
    si buttavano
                a capofitto
                           nello Hudson.
    E più lontano senza impedimenti
                                   il mio quadro
                                                s'allarga
    per corde-funi
                  sino ai piedi delle stelle.
    Io vedo:
            qui
               si fermò Majakovskij,
    si fermò
            e, sillabando, componeva versi".
    Sgrano gli occhi
                    come un Eschimese innanzi al treno,
    m'attacco
             come s'attacca all'orecchio una zecca.
    Il ponte di Brooklyn:
    questa sì...
                È una gran cosa!
Scritta a New York fra il 6 agosto e il 20 settembre.

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