Copertina
Autore Mauro Maldonato
CoautoreMario Maj, Alberto Oliverio, Edoardo Boncinelli, Francesco Boncinelli, Giuseppe Mininni
Titolo L'universo della mente
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, meltemi.edu 98 , pag. 120, cop.fle., dim. 12x19x1,1 cm , Isbn 978-88-8353-617-5
CuratoreMauro Maldonato
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe scienze cognitive , psicologia , psichiatria
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Indice


  7 Introduzione
    Mauro Maldonato

 13 La depressione: che cos'è, come nasce, come si affronta
    Mario Maj

 27 La mente e il cervello
    Alberto Oliverio

 45 La nuova scienza della mente
    Edoardo Boncinelli, Francesco Boncinelli

 69 La mente come orizzonte di senso
    Giuseppe Mininni

 93 Dal neurone alla coscienza.
    Per una neuroscienza dell'esperienza
    Mauro Maldonato

115 Bibliografia


 

 

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Pagina 7

Introduzione

Mauro Maldonato


La biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti delucidazioni; non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse queste risposte saranno tali da far crollare tutto l'artificioso edificio delle nostre ipotesi.

Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere


Era solo il 1920 e il grande psicoanalista viennese già presagiva lucidamente la formidabile stagione che sta rivoluzionando le nostre conoscenze sui meccanismi biologici delle funzioni cerebrali superiori. Quanta strada fatta da allora! L'enorme incremento dei dati empirici e sperimentali, propiziato dallo sviluppo delle nuove metodiche di neuroimaging, da un lato; la formulazione di solide teorie e di precise tassonomie mediche e psicologiche dall'altro, hanno indotto molti studiosi a credere che presto si potrà conoscere l'intero arco di eventi che conduce dal neurone al pensiero. Non sempre, tuttavia, questi sviluppi sono stati sostenuti da nuovi modelli e teorie. Sovente, anzi, gli apparati logico-concettuali che avrebbero dovuto chiarire la natura degli eventi psichici corrispondenti non si sono mostrati all'altezza della sfida. Si pensi, solo per fare un esempio, ai tentativi di spiegazione della coscienza mediante precisi algoritmi, poi drammaticamente naufragati di fronte al problema della soggettività consapevole. Credo sia fondato ritenere che tali insuccessi siano da attribuire a una troppo rigida adesione dei neuroscienziati al "mandato conoscitivo" della comprensione della biologia del cervello mutuato da discipline appartenenti alle cosiddette "hard sciences" come la chimica e la biologia; e, per converso, a una flebile propensione di psichiatri, psicologi e scienziati cognitivi a guadagnare le sponde di una rappresentazione complessa della mente.

Il riconoscimento, ormai condiviso dagli studiosi, circa la natura complessa del cervello, esige un cambiamento profondo nello studio della mente e nell'uso delle tecniche di indagine. Proprio un neurobiologo della caratura di Jean-Pierre Changeux ha affermato, tempo fa, che il cervello umano, per la sua complessità, non può essere concepito come un calcolatore fatto di circuiti prefabbricati dai geni. Il suo progressivo costituirsi, attraverso sofisticati processi di selezione neuronale, ne fa qualcosa di molto diverso da un "tutto genetico" cerebrale. Queste competizioni selettive e creative interne al cervello – successivamente trasformate in tracce epigenetiche all'interno di un frame genetico caratteristico della specie – danno sostanza all'evoluzione biologica, creando legami organici con l'ambiente fisico, sociale e culturale.

Basterebbero questi argomenti a dimostrare l'impossibilità di trattare la relazione mente e cervello solo mediante i metodi tradizionali: cioè, scomponendo l'oggetto della ricerca sino alla più semplice entità, analizzando poche variabili alla volta, studiando le relazioni di causalità lineare in assenza di relazioni di feedback e così via. La ricerca nelle neuroscienze richiede, inoltre, capacità di integrazione non solo dei risultati sperimentali, ma anche dei relativi livelli epistemologici, rimediando in tal modo agli innumerevoli ostacoli concettuali e alle altrettante lacune esplicative. Θ tempo, insomma, che le neuroscienze si rendano protagoniste di un vero e proprio autosuperamento. Ciò a cui alludo è una nuova alleanza tra discipline come la filosofia della mente e la filosofia del linguaggio, la linguistica e la neurobiologia, la psicologia e la logica, l'intelligenza artificiale e la scienza cognitiva, che abbia come obiettivo l'individuazione delle infrastrutture neurali e della neurofisiologia della vita di relazione, iscrivendo tutto questo in un nuovo modello biologico complesso del comportamento. Difficilmente, infatti, nascerà una nuova scienza della mente se, oltre alle indiscutibili determinazioni biologiche di ogni individuo, non si riconosce piena dignità scientifica a temi come l'empatia, l'intersoggettività, le qualità estetiche, il libero arbitrio, gli interessi individuali.

Tale è la visione che ispira questo libro. Nato per restituire a un pubblico ampio idee e ricerche comunicate da insigni neuroscienziati, psichiatri e psicologi in occasione della rassegna L'Universo della mente (nella primavera del 2007 a Potenza) è divenuto, nel suo farsi, un'istantanea ad alta definizione sulle tendenze e sul dibattito in corso nelle neuroscienze contemporanee. Non è, dunque, una raccolta di saggi. Né un'introduzione alle neuroscienze. Semmai, un approfondimento della vexata quaestio mente-cervello e su alcuni problemi a essa inerenti in ambito normale e patologico, che testimonia della continuità di una ricerca, il cui senso si esplicita nelle domande relative ai modi in cui le neuroscienze sono state concepite lungo il Novecento.

Nella tradizione classica delle scienze della mente la difesa dei propri domini disciplinari ha troppo spesso contribuito a irrigidire le tensioni che segnano il dialogo tra scienza e filosofia, così fecondo di idee e problemi fino alla fine del secolo XVIII. Penso sia essenziale riprendere quel dialogo. Ad esempio, non è una sconfitta della filosofia riconoscere alle competenze del neuroscienziato un certo grado di titolarità, in termini veritativi e validativi, sul problema della coscienza. Θ, anzi, una sua netta conquista. Il viaggio nei segreti della mente umana non richiede l'abiura o la rinuncia alle proprie teorie. Nemmeno l'eliminazione delle differenze con altri programmi di ricerca. Per quanto rigorosa nessuna teoria scientifica può evitare errori al proprio interno o ritenersi autosufficiente nell'affrontare le questioni che l'assillano. Bisogna, dunque, riconoscere serenamente che, nonostante le prodigiose acquisizioni sperimentali, non siamo ancora in grado di comprendere i meccanismi profondi di fenomeni come la percezione, la coscienza, la decisione, la consapevolezza cosciente e così via.

Credo che la differenza tra uno scienziato e un non-scienziato sia nel fatto che il primo confessa immediatamente la propria ignoranza. Non si tratta solo della presa d'atto già implicita nell'affermazione socratica "so di non sapere". Si tratta, come chiarì lucidamente von Foester, di un'ignoranza di secondo grado – "non so di non sapere" – che riguarda tutto ciò che è inaccessibile alla logica formale. Ogni qualvolta, infatti, che ci illudiamo di aver penetrato la realtà ci allontaniamo dal nostro problema fondamentale – quello di trovarci in un punto cieco dal quale non possiamo cogliere le infinite relazioni che ogni oggetto intrattiene con il mondo circostante – che rende ancor più fragile la nostra capacità di conoscere. Non è in gioco, come per Gφdel, l'impossibilità di cogliere la coerenza e la completezza di un sistema formale dal suo interno. Semplicemente noi non siamo (né saremo mai) parte di un sistema formale. Non pratichiamo monologhi, come accade in un sistema formale. Siamo animali dialogici.

Per troppo tempo la categoria di oggettività partorita dalle scienze fisiche ha dominato e diviso le scienze. Una scienza, per essere degna di questo nome, doveva necessariamente definire il suo oggetto e le variabili secondo le quali spiegare e prevedere i fenomeni osservati. Una simile idea della scienza, qualunque sia il suo contenuto, privilegia certezze e risposte a scapito delle domande che le hanno suscitate. Ed è più vicina a una visione del mondo che non a una visione della scienza. Una visione della scienza, invece, dovrebbe avere a cuore innanzitutto le domande, la sperimentazione, la scoperta di nuove leggi, regolarità, invarianze.

Anche per questo appare discutibile la "mutuabilità" del modello fisicalista per le neuroscienze. Come è noto per i sostenitori di tale punto di vista fare scienza significa innanzitutto garantire l'indipendenza dell'oggetto dall'osservatore: dunque, tutto ciò che non pertiene al comportamento dell'oggetto o che dipenda da una scelta soggettiva determina una definizione incompleta dell'oggetto. Del resto, è proprio a partire dall'indipendenza dell'oggetto dal soggetto che nacque il concetto di "realtà fisica": una "realtà" per definizione opposta all'esperienza psicologica dell'uomo.

Molti pensatori e anche molti scienziati vanno sostenendo l'urgente necessità di sfuggire a questa opposizione. Anche se con fatica, sta nascendo una nuova concezione dell'oggettività scientifica che evidenzia il carattere complementare e non contraddittorio delle scienze sperimentali (che in ogni caso creano e manipolano i loro oggetti) e delle scienze narrative (che studiano le storie e il loro senso). Non è un altro tipo di scienza, né la messa in questione della tradizione classica delle neuroscienze. Si tratta di rinnovare l'oggetto della ricerca in questa stessa tradizione (che è tradizione di invenzione e non di riduzione) attraverso un linguaggio che renda comprensibili i processi e gli eventi che le scienze cognitive tradizionali hanno sin qui definito tramite approssimazioni fenomenologiche. Tutto ciò nella consapevolezza che se è vero che, allo stato, né la scienza né la filosofia possono dirci molto sulla relazione mente-corpo, sulla coscienza e altro ancora, sia la scienza che la filosofia hanno in comune questi stessi problemi.

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Pagina 13

La depressione: che cos'è, come nasce, come si affronta

Mario Maj


Quello della depressione è un tema che negli ultimi anni è diventato assai popolare, ma sul quale esistono molta confusione e diversi equivoci.

Il primo equivoco consiste nel confondere la condizione clinica chiamata depressione con la tristezza normale o demoralizzazione.

Θ comune il dolore che coglie l'essere umano quando un avvenimento avverso colpisce la sua esistenza precaria, o quando la discrepanza tra la vita com'è e come potrebbe essere diventata il centro della sua fervida riflessione (Arieti, Bemporad 1978, p. 17).

Questo dolore, questa sofferenza a cui va incontro il 100 per cento degli esseri umani più volte nel corso della propria esistenza è la tristezza normale o demoralizzazione. Si tratta di un'esperienza del tutto fisiologica, la cui intensità e durata appare proporzionata all'entità dell'evento avverso, e che non richiede l'intervento del medico né tanto meno dello specialista, mentre può giovarsi di un supporto psicologico o, molto più comunemente, del sostegno che alla persona possono fornire i familiari e gli amici.

Θ meno comune, ma abbastanza frequente da costituire uno dei principali problemi psichiatrici, il dolore che non si attenua col passare del tempo, che sembra esagerato in rapporto al presunto evento precipitante, o inappropriato, o non collegato ad alcuna causa evidente (ib.).

Questa è la depressione, una condizione patologica a cui va incontro nel corso della propria esistenza tra il 7 e il 15 per cento degli esseri umani; una condizione che può insorgere anche senza nessun evento scatenante, oppure può conseguire a un evento, ma appare allora inappropriata o sproporzionata rispetto a quell'evento, per la sua intensità, per la sua durata e per il grado di compromissione del funzionamento sociale e lavorativo che produce.

La depressione e la demoralizzazione sono dunque due condizioni differenti. In molti casi anche il profano è in grado di distinguerle, sulla base del criterio suddetto della presenza o meno di un evento scatenante e della proporzione tra evento e risposta. In altri casi, però, la diagnosi differenziale può essere difficile e richiedere tutta l'esperienza dello specialista. Ciò accade più frequentemente nel soggetto molto giovane, nell'anziano, o nella persona che ha una patologia fisica cronica o invalidante.

Come mai questa distinzione tra depressione e demoralizzazione non viene chiarita quando si parla alla gente? A volte per ignoranza. Altre volte per malafede, perché indubbiamente quanto più si rinforza il messaggio che la depressione è una condizione a cui tutti prima o poi andiamo incontro, tanto più ampia è l' audience di cui si richiama l'interesse.

Le conseguenze di questa confusione tra depressione e demoralizzazione possono essere molto serie. Accade abbastanza frequentemente, ad esempio, che personaggi pubblici raccontino la loro storia alla televisione o su una rivista dichiarando di essere stati colpiti dalla depressione e di esserne usciti grazie alla propria forza di volontà o al calore dei familiari o degli amici, e invitando le persone depresse a diffidare dei farmaci e di qualsiasi altro intervento specialistico. Nella quasi totalità dei casi si tratta di persone che non hanno sofferto di una vera depressione, ma hanno soltanto attraversato un periodo di demoralizzazione, e il loro messaggio può essere estremamente dannoso per le persone veramente depresse e per i loro familiari, che possono essere indotti a non iniziare o a interrompere una terapia che sarebbe stata efficace.

Il secondo equivoco fondamentale nasce dal fatto che la depressione viene spesso considerata una condizione unitaria e omogenea, che si manifesta sempre allo stesso modo, che ha sempre la stessa origine e che si cura sempre allo stesso modo, mentre in realtà non esiste la depressione, ma esistono le depressioni, cioè una gamma di condizioni depressive che si manifestano in maniera differente, nella cui genesi i fattori biologici, psicologici e sociali intervengono in misura differente, e che si curano in modo differente. Questa gamma di condizioni depressive può essere rappresentata come un continuum che porta agli estremi due condizioni tipiche, due prototipi, che si chiamano rispettivamente depressione maggiore melancolica e depressione minore ansiosa. Nella pratica clinica noi incontriamo molti quadri che riproducono più o meno esattamente l'uno o l'altro di questi due prototipi, ma anche diversi altri che si dispongono idealmente nei punti centrali di questo continuum, che presentano cioè caratteristiche intermedie o miste. Come vedremo tra poco, nella depressione maggiore melancolica la componente biologica è più significativa e il ruolo dei farmaci è essenziale, mentre nella depressione minore ansiosa la componente psicosociale è più importante e le psicoterapie sono più efficaci.

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Pagina 27

La mente e il cervello

Alberto Oliverio


Esistono specifiche sedi cerebrali responsabili delle diverse attività mentali? E se è possibile che alcune attività abbiano una loro "sede", la loro comprensione passa attraverso lo studio delle strutture nervose che ne sono alla base, oppure l'essenza delle funzioni mentali dipende essenzialmente da un "programma", innato o acquisito, ed è al programma che bisogna guardare se si vuole comprendere la mente? E in quest'ultimo caso, che significato ha privilegiare la descrizione di strutture e meccanismi nervosi, cioè dell' hardware, anziché concentrarsi sul programma, su un software che minimizza il ruolo delle singole parti e circuiti?

Questi due diversi approcci teorici, il primo fondato sullo studio delle sedi della mente, il secondo su un'ottica che privilegia le funzioni, hanno cominciato a delinearsi intorno alla fine del Settecento e costituiscono a tutt'oggi due modi opposti di guardare al cervello che hanno risentito di pesanti condizionamenti ideologici: ovviamente le posizioni odierne sono ben diverse rispetto a quelle del passato, quando le neuroscienze muovevano ancora i primi e incerti passi, ma ieri come oggi le teorie sul funzionamento cerebrale rispecchiano più ampie visioni del mondo in quanto il cervello è una sorta di luogo simbolico o di specchio delle concezioni politiche, religiose, sociali. D'altronde, le teorie della mente non sono soltanto improntate a delle vaste concezioni filosofiche ed epocali ma risentono anche, in quanto si riferiscono alla materialità del cervello e ai suoi "meccanismi", dello sviluppo di quelle tecnologie che possono sottendere delle metafore e suggerire dei modelli del funzionamento della "macchina" cerebrale: così, nel tempo, gli scienziati e l'immaginario collettivo hanno guardato al cervello attraverso l'ottica della meccanica, dell'elettromeccanica, della telefonia e, per ultimo, dell'informatica.


Teorie della mente

La concezione informatica rappresenta, come le precedenti, una metafora del cervello, dell'intelligenza e più in generale della mente, oppure tra le menti biologiche e quelle artificiali esistono dei forti punti di contatto, come suggeriscono oggi numerose teorie di tipo "funzionalista" e in particolare la scienza cognitiva? La nostra mente potrà essere compresa se saremo in grado di comprendere le "istruzioni" o i programmi che sono implementati nei circuiti nervosi, le funzioni computazionali che sarebbero alla base del nostro agire, ricordare e riflettere? Questi interrogativi affondano le loro radici nel passato, quando iniziarono a strutturarsi due opposte fazioni: da un lato i sostenitori di un approccio al comportamento e ai diversi aspetti della mente basato sullo studio delle loro basi biologiche e della loro eventuale localizzazione in specifiche strutture cerebrali; dall'altro i sostenitori di un'ottica di tipo funzionalista che mirasse a scoprire le modalita attraverso cui si formavano delle associazioni tra i diversi stimoli ambientali e più in generale tra uno stimolo e una risposta.

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Pagina 69

La mente come orizzonte di senso

Giuseppe Mininni


[...]

Per agganciare tale vortice di senso che le darebbe nuovo slancio, la psicologia deve fronteggiare la sfida di ripensare l'intero suo apparato interpretativo, sottraendosi alla coazione a ripercorrere le vie tracciate nel Novecento, ancorché con metodiche sempre più raffinate. Tale obiettivo può essere raggiunto attraverso un confronto serrato tra l'"epistemologia naturalista" e l'"epistemologia culturalista". Per sottrarsi sia alla corrente tradizionale dei paradossi filosofici che alla recente deriva di riduzionismo neuroscientifico, occorre che la psicologia faccia valere l'intero ventaglio dei suoi strumenti interpretativi, da quelli che documentano l'utilità del suo dialogo con le scienze della vita a quelli che esibiscono le sue interazioni con le scienze della cultura.


Culturalizzare la mente

Non v'è dubbio che la mente (umana) esiste grazie al cervello (umano) e, quindi, ogni sforzo compiuto dalle neuroscienze per la comprensione di come funziona il cervello può avere l'effetto collaterale di chiarire meglio anche come opera la mente. Tuttavia, la mente (umana) non esiste soltanto grazie al cervello (umano), ma anche grazie ai suoi stessi prodotti, che retroagiscono innescando forme diverse di autopoiesi. Molto illuminante al riguardo è il noto esempio del bastone del cieco proposto da Gregory Bateson (1972, p. 459):

Immaginiamo che io sia cieco e usi un bastone. Per camminare devo toccare le cose: tap, tap, tap. In quale punto del bastone incomincio io? Il mio sistema mentale finisce all'impugnatura del bastone? O finisce dove finisce la mia pelle? Incomincia a metà del bastone? Oppure sulla punta?

La mente del cieco trabocca dal cervello al bastone, organizzando un sistema di elaborazione dell'informazione in grado di superare almeno un po' la menomazione sensoriale.

Questo esempio ha un valore più generale perché il bastone può facilmente divenire simbolo di quella vasta gamma di strumenti con cui la specie umana (cieca a se stessa) media il suo rapporto con il mondo. Una rilevanza del tutto speciale va attribuita a quelle tecnologie sempre più complesse e versatili che consentono le pratiche della comunicazione umana, perché esse generano delle vere e proprie "Brainframes" di massa, capaci di organizzare l'esperienza collettiva del reale.

[...]

"Computer" e "contexter"

Se la mente è insieme un fenomeno naturale e un prodotto storico-culturale, la comprensione del "Body-Mind-Problem" che assilla filosofi e scienziati richiede il superamento di qualsiasi posizione riduzionistica a favore di forme sempre più avanzate di integrazione tra l'"epistemologia naturalistica" e l'"epistemologia culturalistica" (Hartmann, Lange 2000). L'opzione naturalistica risulta largamente prevalente, perché lo spirito del tempo è marcato da una grande fiducia verso le neuroscienze, che promettono all'uomo di "liberarlo dal male". Essa è esposta ai rischi del riduzionismo perché le sue teorie sono ispirate all'aforisma del neurobiologo Crick (1994), secondo cui "Non sei altro che un ammasso di neuroni". Le ricerche della psicobiologia e della psicologia evoluzionistica sono orientate da questo presupposto e considerano la mente come un "Information Processing System" (IPS), cioè come un computer intracerebrale che acquisisce, elabora e conserva le informazioni raccolte dall'esterno.

L'"epistemologia naturalista" ha tratto nuovo slancio dall'analogia tra la mente e il computer. Essa poggia sul fatto che queste due "entità" hanno una struttura linguistica (o, per meglio dire, semiotica). Infatti, per funzionare, entrambi i sistemi hanno bisogno di un "linguaggio macchina", cioè una serie di formule capaci di ricevere le informazioni codificate come input, analizzarle e compiere su di esse le operazioni richieste, così da trasformarle in output. L'uomo e il computer realizzano in sostanze differenti – la corporeità biologica e la fisicità meccanica – una stessa forma di intelligenza propria degli "Information Processing Sistems". A ben guardare, la rilevanza dell'analogia "mente-computer" consiste nell'evidenziare la natura semiotica dei fenomeni esaminati, in quanto mostra che per parlare dei processi cognitivi dobbiamo comunque utilizzare una terminologia semiotica: mssaggi sensoriali, codifica di informazioni, tracce mnestiche, icone immaginifiche, attivazione di scenari, scelte abduttive e così via.

Per l'"epistemologia culturalista", invece, non è sufficiente mappare gli sbalzi umorali e le reazioni elettrochimiche di un cervello innamorato per "comprendere" che cosa prova il giovanotto che sta correndo a un appuntamento con un mazzo di fiori in mano. Molte correnti assimilabili a una critica dell'epistemologia naturalista – dalla fenomenologia al socio-costruzionismo, dalla psicologia culturale alla psicologia discorsiva – individuano nell'esperienza e nel significato l'asse di costituzione di un'impresa intellettuale e professionale – la psicologia –, capace di salvaguardare insieme "i diritti della soggettività" e il "rigore della conoscenza scientifica" (Armezzani 1999, p. 24). Questa posizione è argomentata da quei neurobiologi e psicologi culturali per i quali la mente è un "Information Contextualizing System" (ICS), cioè una matrice unitaria di attribuzione di senso (Mininni 1985). I cervelli umani risultano capaci di trasformare l'informazione in significati perché la loro evoluzione risente dell'inserimento in determinati contesti storico-culturali.

L'"epistemologia culturalista" sviluppa tale consapevolezza semiotica puntando sull'analogia tra la mente e il testo, ritenuti entrambi degli "Information Contextualizing Systems". Che cosa comporta pensare la mente come un testo, cioè come un sistema che contestualizza l'informazione? Anzitutto il testo potrebbe essere visto come un pallone sgonfio, che riceve forma (e peso) via via che gli interlocutori vi soffiano dentro i significati, attingendoli al loro orizzonte interpretativo. Le caratteristiche definitorie del testo (coesione, coerenza, intenzionalità, situazionalità, intertestualità ecc.) risultano applicabili alla comprensione specifica della mente perché esaltano l'attivazione di dinamiche olistiche ed "espansionistiche". Intesa come forma di vita propria delle persone, la nozione di testo sollecita una rete di rinvii ad altro da sé, che possiamo esplicitare utilizzando vari prefissi adattabili al termine "testo". Infatti, se consideriamo il "testo" come l'esito di un processo di comunicazione linguistica, esso risulta comprensibile soltanto qualora:

1) sia inserito in un con-testo, cioè valorizzi le coordinate spazio-temporali e i rapporti di ruolo tra i partecipanti a un dato evento comunicativo;

2) sia attivato da un pre-testo, perché gli atti di enunciazione sono costruiti su accordi preventivi (realizzati magari tramite altri codici) e su una precedente esperienza del mondo;

3) sia retto da un ipo-testo, in quanto gli enunciati nel testo sono generati da strutture profonde che controllano non solo l'assetto morfo-lessicale e sintattico, ma anche i profili intonazionali, i registri socio-situazionali, i generi discorsivi ecc.;

4) prenda corpo nell' inter-testo, in quanto ogni segmento testuale attiva dei potenziali di connessione ad altri, producendo una molteplicità di scenari interpretativi;

5) si proietti nel dia-testo, in quanto gli enunciati nel testo coniugano le logiche movimentate della cooperazione e del conflitto tra chi prende parte a quell'evento comunicativo;

6) si realizzi come iper-testo, in quanto gli enunciati attraversano le maglie sempre aperte della tessitura in modo da navigare nell'universo delle significazioni possibili, spostando in modo sia pure infinitesimale i margini già costituiti;

7) possa funzionare da meta-testo, in quanto gli enunciati disseminano informazioni sul tipo di relazioni esistenti o ipotizzabili tra i partecipanti a un evento comunicativo, sulle ragioni per cui sono costruiti nel modo in cui lo sono, stabilendo differenze e creando opposizioni.

La complessità della pratica comunicativa umana resa evidente dalla sua trama testuale fa sì che essa sfugga alle possibilità di calcolo e di elaborazione di qualsiasi computer. Se optiamo per una spiegazione del linguaggio in termini di semplice "informazione", stiamo comprimendo le capacità simboliche dell'uomo nelle maglie della sua logica minima. Quando la mente opera come un "elaboratore di informazioni", circoscrive i suoi poteri di significazione negli schemi ristretti del mero "segnale" e non sfrutta tutte le potenzialità testuali del "segno". Poiché il linguaggio umano, oltre a essere pratica di informazione, è narrazione, invenzione, fabulazione, presupposizione, gioco combinatorio, routine interazionale, sfida e lotta per il senso, rende possibile alla mente un modo diverso di operare: la contestualizzazione delle informazioni.

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