Copertina
Autore Léo Malet
Titolo La notte di Saint-Germain-des-Prés
EdizioneFazi, Roma, 2003, Tascabili 27 , pag. 186, dim. 130x195x12 mm , Isbn 978-88-8112-391-9
OriginaleLa nuit de Saint-Germain-des-Prés
EdizioneFleuve Noir, Paris, 1982 [1955]
TraduttoreFederica Angelini
LettoreElisabetta Cavalli, 2003
Classe noir , gialli , narrativa francese
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Pagina 9 [ inizio libro ]

Capitolo I
Da l'échaudé al freddato



Il metrò mi estromise a Saint-Germain-des-Prés. Uscii dal vagone che ero, per così dire, annegato da quanto stavo sudando. Era un'umida notte di giugno, con un temporale di Marsiglia sospeso sulla capitale che continuava a minacciare senza mai passare all'azione.

In superficie faceva ancora più caldo che sottoterra.

Sbucai sul viale all'ombra della chiesa e mi feci strada attraverso la rumorosa folla di pedoni cosmopoliti che ondeggiava sull'ampio marciapiede, lungo i cancelli della piccola piazza, indifferente al vasellame storico che l'immarcescibile chincagliere ambulante Bernard Palissy, dall'alto del suo piedistallo, continua instancabilmente a proporre.

L'atmosfera era impregnata di uno stagnante odore composito in cui i vapori della benzina e l'asfalto liquefatto si coniugavano al tabacco biondo e ai profumi pregiati. Sembrava Montmartre nel 1926, senza Chateau Caucasien. In strada, macchine sontuose, con le carrozzerie macchiettate dai riflessi morenti dell'insegna al neon del gran caffè della piazza, procedevano lentamente, cercando senza molte speranze un posto libero per parcheggiare.

La terrazza del Mabillon, che arrivava fino al piccolo canale di scolo, e quella della Rhumerie-Martiniquaise, contenuta bene o male nello spazio delle assi sopraelevate, gareggiavano in animazione, con la necessaria percentuale di gente ubriaca. Tra i due bistrot pieni fino a scoppiare, la stradina de l'Echaudé, cara ad Alfred Jarry, che ci aveva collocato la sua stazione di servizio di lavaggio del cervello, mi apparve come un'oasi di freschezza e tranquillità. Sopra i tetti delle auto in sosta, la rampa illuminata de l'Echaudé, lo snack bar di Henri Leduc, formata da una successione di lampadine elettriche multicolore, nella migliore tradizione popolare di luminarie per il 14 luglio, mi indicò la strada.

Feci rotta verso l'ingresso.

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Pagina 18

Seguii lo scrittore e mi sedetti al suo tavolo. Era cosparso di palline di mollica nervosamente impastate e macchie di vino rosso decoravano la tovaglia. Il mio ospite chiamò il cameriere incaricato del servizio in sala e il ragazzo si affrettò a prendere l'ordinazione e a portarci ciò che avevamo chiesto. Accanto a noi, la coppia dall'aspetto cinematografico recitava la parte del bacio fino al soffocamento. Sembrava che nessuno dei due soffrisse d'asma. La luce di una lampada a muro cadeva in pieno sul volto di Saint-Germain che potei così esaminare meglio. In realtà non mi interessava affatto, ma fu automatico. Tutta una rete di piccole rughe gli attraversava la fronte, mentre le tempie erano incorniciate da zampe di gallina. Gli occhi grigi, quasi prossimi alle lacrime, e mobili come quelli di un uccello notturno, riflettevano una specie di smarrimento indefinibile. Forse si drogava, come molti dei suoi colleghi. Dire che non me ne fregava nulla di quel personaggio non sarebbe esatto. Quella sera non ero andato a spasso nel quartiere per vedere lui e mi aspettava un lavoro un po' più importante che ascoltare uno scrittore spaccone inebriarsi delle sue stesse parole, ma non mi sarebbe dispiaciuto scoprire perché Tintin, in genere estremamente cortese e distinto, perlomeno in passato, si fosse spinto a offenderlo pubblicamente e con un tale ardore. L'ubriachezza non era sufficiente a spiegare l'accaduto. Doveva esserci dell'altro. Quel Saint-Germain doveva aver passato il limite. Forse avrei potuto capire come e perché durante la conversazione. In ogni caso, mi sarebbe servito a far passare il tempo. Mi sentivo un po' nervoso. Un po' nervoso e non lontano dall'essere sbronzo. Quanto avevo bevuto al bancone, quello che stavo sorseggiando al tavolo, il calore soffocante e la prospettiva del lavoro che mi aspettava, il tutto cominciava a sortire qualche effetto. Ero stato un po' stupido ad abbandonarmi così alla mia tendenza al bere a poche ore da una partita tanto difficile. Mi ripromisi di sistemare la cosa ordinando un bel pò' di caffè nero prima di togliere le tende. Nell'attesa, tanto valeva conversare educatamente con il mio ospite. Neanche a dirlo, mi fece domande sul mio lavoro:

«Ho spesso sentito parlare di detective privati, ma non ho mai avuto l'occasione di conoscerne di persona», fece lui. «Forse è imperdonabile per uno scrittore, ma le cose stanno così. Del resto non possiamo sapere tutto. In cosa consiste esattamente il suo lavoro?».

«Più che altro pediniamo mariti per conto delle mogli e mogli per conto dei mariti», spiegai. «Talvolta la cosa si spinge oltre. Quando si comincia un'inchiesta non si sa mai dove si può andare a parare».

«Capisco...».

Assunse all'improvviso un'aria più concentrata di un pastis, che è la più bella bevanda del mondo:

«...Casi psicologici interessanti? Sa, io sono uno scrittore...».

«La vita è di certo più complicata e fertile di peripezie di tutto quello che potete accumulare voi nei vostri libri», dissi. «Ma è anche più segreta. Non è vero? Lei, con la sua immaginazione, arriva a delle conclusioni. La vita invece non conclude».

«Giustissimo», concordò lui.

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Pagina 62

«Già... ed è Nestor che si becca il lavoro sporco. Perché é un lavoro sporco, signore. Dei poliziotti me ne frego, ho passato la vita a mandarli al diavolo e a far loro delle porcherie, ma possono spezzarmi le reni quando vogliono e impedirmi di guadagnarmi il pane, ed è esattamente quello che faranno se scoprono che sono coinvolto in questo affare. Quindi sono per forza obbligato a prendere delle precauzioni, no? Non sono un ex poliziotto che si è messo in proprio e può sperare nell'indulgenza degli ex colleghi. Sono diventato detective, un po' come potevo diventare poeta. Solo che il mio nome è inciso su una targa sopra una porta invece che stampato sulla copertina di un libro. Sono un franco tiratore. Mi guadagno da vivere alla giornata, senza l'aiuto di nessuno o quasi. Si potrebbe dire che mi inoltro nella giungla imbracciando un fucile per cacciare i due pasti e il pacchetto di tabacco quotidiani. Come vede, non calcolo nemmeno la colazione. Oh! Non mi lamento della mia sorte. Sono stato io a volerla così. Ma devo fare comunque attenzione. Per poter tener duro».

«Non si esagiti così», fece l'uomo dell'Assicurazione, guardandomi con una leggera inquietudine.

«Tutto a posto», dissi, sollevato. «Per oggi ho esaurito la mia vena lirica. Torniamo a Charlie MacGow. Si poteva contattarlo solo all'hotel e bisognava andarci piano, nell'interesse sia mio che suo. La mia presenza doveva passare inosservata. Non potevo farmi annunciare alla reception o introdurmi di nascosto al Diderot, con il rischio di farmi interrogare da un cameriere zelante. Il mio stratagemma aveva solo dei vantaggi. Comprometteva forse un poco la reputazione della mia amica, ma è una ragazza che ne ha viste ben altre...».

Il signor Grandier abbozzò un gesto significativo. Dire che non gli interessava la reputazione di una troglodita che viveva con trenta bigliettoni al mese, e nemmeno tutti i mesi, non rende l'idea.

«...solo che, sorpresa! MacGow era morto».

«Avrebbe potuto informarmi subito sull'esito del suo tentativo, come convenuto. Anche per annunciarmi questo fastidioso contrattempo».

«E a cosa le sarebbe servito? Era più urgente distrarre la mia ausiliaria e allontanarla dal luogo del delitto...».

Spiegai perché.

«Sì, naturalmente», approvò. «È stato lei a fare in modo che venisse avvertita la polizia?».

«Sì, prima scoprivano il cadavere, meglio era».

«Chiaramente. Ha ispezionato la camera?».

«Ci sono rimasto un quarto d'ora e dovrò far disinfestare i vestiti. Nessuna traccia dei gioielli, se è questo che vuole sapere. In caso contrario, sarebbero già sulla sua scrivania».

Sospirò:

«Li avrà mai posseduti davvero?».

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Pagina 89

Il tizio che vidi uscire dal palazzo dove, al momento, abitava Bernard Lebailly mi colpì per l'aspetto funereo. Facce simili le avevo viste solo dagli esattori, dalla parte sbagliata dello sportello. O a Bagneux, dietro i carri funebri e tra i cipressi. Era un uomo nel pieno degli anni, di statura media, corporatura normale, con addosso un sobrio completo confezionato di un colore neutro, destinato, se non avesse avuto quell'aria venefica che si sprigionava dall'insieme, a passare inosservato. E forse era quello che gli accadeva nella vita quotidiana tra i comuni mortali. Ma io possiedo un naso organizzato per fiutare «le cose che sono dietro le cose», come dice Michel Krauss, il pittore di Quai des Brumes. Innanzitutto pensai che fosse cieco. E questo per via dei suoi occhi, riparati sotto arcate prominenti, in un viso freddo, inespressivo e lontano, occhi che non vivevano, spenti, di un'indicibile e toccante malinconia. Rattristati. Di una tristezza interiore, che si sentiva senza dover ricorrere alla fascia da lutto e altre smancerie. L'aria di un vedovo. Non saprei meglio caratterizzare il personaggio. E per me questo descrive perfettamente ciò che voglio dire. Non ho mai evocato senza malessere lo stato di vedovanza di un uomo. Per le vedove non è la stessa cosa. Forse a causa di quella celebre e allegra che esercita un'influenza sulle consorelle, anche se piegate dal dolore. Ma un vedovo! È senza appello, irrimediabile, colpito da maledizione, smarrito. Per me è legato a un'atroce idea di mutilazione sessuale.

L'uomo s'immobilizzò sul bordo del marciapiede, abbassò la testa, contemplò la punta delle sue scarpe nere o il liquido equivoco che ristagnava nel canaletto di scolo, non so, cercando per i suoi tetri pensieri una risposta che tardò ad arrivare, si scosse e attraversò la strada con passo fiacco. Quel tipo era lontano da rue des Quatre-Vents. Lontano. Molto lontano. Lo sa il diavolo dove. Lo seguii con lo sguardo. Qualche passante lo incrociò, senza accordargli alcuna attenzione. Lo vidi superare la soglia di un bistrot.

Mi scossi a mia volta, rifeci il percorso in senso inverso, ed entrai nell'edificio. Venendo dalla fornace che era la strada, sotto quel cielo di giugno, l'androne umido e buio esercitava tutto il suo fascino seduttore. L'odore di segatura fresca solleticava piacevolmente le narici. Attraverso la porta aperta all'estremità dell'androne si vedeva una parte del cortile, dove si trovava la falegnameria-ebanisteria. Vi si affaccendavano degli operai che stavano fischiettando un ritornello in voga, indifferenti a tutto ciò che non era il loro lavoro. Il canto serico di una grande pialla manovrata con cura rispondeva agli stridii della sega elettrica.

Imboccai la scala, dopo aver lasciato passare una vecchia che la scendeva. La porta del nuovo alloggio di Bernard Lebailly era oggi decorata da un pezzo di carta su cui era stato tracciato da una mano maldestra il nome del portiere d'hotel disoccupato. Sabato non c'era niente di simile. Quel dettaglio poteva significare che aspettava una visita e che, di conseguenza, non sarei rimasto scornato. Me lo figuravo sprofondato nel letto, una sigaretta in bocca, i piedi sollevati, mentre divorava un Simenon o un Boileau-Narcejac, ma non sono infallibile. Bussai alla porta. Avrebbe potuto essere chiusa meglio. Sotto il mio tocco, seppur leggero, si aprì. Siccome nessuno salutò la mia intrusione con le appropriate ingiurie precedenti a una fragorosa espulsione, entrai nella camera pulita.

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