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| << | < | > | >> |Pagina 71. IL COMMISSARIO SPERANDIO, ANTONIO MARCOSperandio aveva quarantasei anni, era nato a Roma, ed era nato bene. Figlio di due professori universitari di letteratura (letteratura tedesca il padre e letteratura inglese la madre), era poliglotta e notevolmente colto, coltissimo per essere un poliziotto. Bell'uomo, carnagione scura, occhi verdi e barba nerissima, tradiva le origini siciliane della madre, sulla cui potenza genetica nulla aveva potuto il biondo esile padre veneto. Sperandio, dettaglio non irrilevante, era venuto al mondo ed era cresciuto a due passi da Villa Ada, appena più su, vicino a piazza delle Muse, in una palazzina anni '30 di via Adelaide Ristori, una della strade più belle della capitale, e una delle più esclusive. Bell'uomo, ho detto, certo, e anche prestante. E ci teneva molto se si allenava frequentando la villa tutti giorni prima di recarsi al lavoro; perché, grazie al suo magnifico stato di servizio, aveva ottenuto di tornare a Roma, e proprio al Commissariato Parioli. Sperandio si alzava tutti i giorni alle sei, faceva mezz'ora di stretching, si infilava la tuta e, con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, senza aspettare che i cancelli di Villa Ada venissero aperti, si infilava nel buco del muraglione a pochi passi da casa sua e si metteva a correre nel folto della foresta. In quel punto, infatti, il parco è del tutto selvatico, addirittura fiabesco nel suo silenzio e nel suo isolamento. La mattina presto nessuno corre in quei sentieri fra i rovi, in mezzo a alberi abbattuti e sottobosco impenetrabili. Sperandio se ne rendeva conto, quella sua abitudine comportava anche un certo rischio. Ma il rischio è il mio mestiere. Si ripeteva la vecchia battuta nell'atto di varcare il muraglione. Il coraggio non è proprio questo? Paura di cosa? Non temeva davvero di fare brutti incontri. Sapeva come affrontarli. Eppure tutte le mattine riaffiorava la paura di quando aveva deciso di comunicare ai suoi genitori, ex sessantottini oltre che letterati, che aveva deciso di fare il poliziotto. Il poliziotto! Quella punta di dolore tornava varcando il muro del parco all'alba; lui si diceva che era perché anche allora aveva varcato un muro al di là del quale aveva lasciato i suoi genitori, li aveva abbandonati sotto la loro campana di vetro, dentro una bolla fatta di poesia, di arte e di sogni rivoluzionari appassiti. Lui, facendo il poliziotto, sceglieva la realtà più dura, ne era consapevole, ma almeno andava incontro al mondo. Così li aveva persi, irremovibili gli avevano fatto sentire tutta la loro disapprovazione, la loro silenziosa estraneità. Ormai erano morti da parecchi anni, ma lui seguitava a sperare che glielo avessero perdonato quel suo tradimento. Forse per questo, per recuperare la stima di quei due amanti della letteratura, forse per questo Sperandio scriveva poesie, senza molto successo per la verità, ma lui cercava di applicarsi tutti i giorni, la sera, quando tornava alla casa di via Adelaide Ristori e la trovava vuota di affetti ma ancora piena di libri. Quel venti settembre, come sempre, Sperandio rientrato dalla corsa aveva fatto la doccia, aveva mandato giù un caffè ed era andato al lavoro nella sede del commissariato Salario-Parioli di via Guido D'Arezzo n. 22, cinque minuti a piedi da casa sua, tra piazza Ungheria e piazza Verdi. Quel venti settembre Sperandio era in ritardo, così quando arrivò la chiamata fece appena in tempo a saltare su una volante, e in un attimo si ritrovò di nuovo a Villa Ada, ma in basso, ai cancelli del laghetto. | << | < | > | >> |Pagina 92. DEPOSIZIONE SCRITTA DI MANACORDA, GIORGIOGentile commissario Sperandio,
il cadavere del poeta Vasco Sprache l'ho trovato io, e va bene. Lei vuole
sapere con precisione quello che ho fatto e chi ho
incontrato fino a quel momento, e va bene. Lei vuole sapere
quali rapporti avevo - se li avevo - con il morto, e va bene. Lei
ha tanto insistito che io buttassi giù questa relazione (vuole
sfruttare le mie qualità di scrittore, ha detto) in base alla convinzione,
errata, che ricostruendo le prime ore di quella mattinata io possa dare "un
significativo contributo alle indagini" - sono parole sue. La convinzione,
ripeto, è errata, ma se proprio devo, eseguo; anche perché il mio avvocato dice
che non mi posso esimere. Ma agli altri non credo che chiederà una relazione
scritta. Scrivere, come vede, ha i suoi svantaggi. Comunque, la ringrazio del
suo apprezzamento per la mia attività di poeta. Ma i poeti sono conosciuti solo
dai poeti, o aspiranti tali. Siamo sicuri che lei non scriva poesie,
commissario?
È vero: ho trovato il cadavere e, sì, lo conoscevo; insomma,
l'ho incontrato tante volte. In un certo senso, è vero, un compagno di strada,
come lei ha insinuato, o solo ipotizzato. Certo era un poeta, o quasi, cioè
molti credono di essere dei poeti.
Non se la prenda, commissario, se scrive poesie, voglio dire.
Guardi che finirò col parlare di poesia, eh sì, perché per me
quel giorno è stato speciale anche per un'altra ragione, una cosa bella,
commissario, mica un omicidio. Una cosa bellissima:
Renzo mi ha telefonato perché è uscita sui giornali la notizia
che sono candidato al Nobel. Si dice che vada a un italiano - e
insomma, sì, lo devo ammettere, sembra che sia vero, o almeno molto probabile.
Mi hanno già cercato i giornalisti svedesi.
Indiscrezioni plausibili, le chiamano. Ma insomma, vedremo.
Comunque a lei non interessa. Lei vuole sapere di quella maledetta ammazzatina,
come si dice in Sicilia.
Dunque, il punto di incontro è il laghetto basso, è lì che si trovano quelli che corrono, e se cambi gli orari cambiano le persone che incontri. Noi arriviamo sempre alle sei e mezza, e ci sono Marisa e Maria, che è una moretta che quando corre non gli daresti due lire, ma poi nelle gare va come il vento, forse perché è così magra; Marisa, invece, è più elastica e c'ha un fisico, commissario, con tutte le cose giuste al posto giusto, che quando quella coda di cavallo bionda gli danza perpendicolare al sedere... In generale quando arrivo io loro due, sole o accompagnate, già corrono intorno al lago, e ogni tanto qualcuno mi chiede (perché io come al solito aspetto Ulisse) hai visto Marisa? Hai visto Maria? Uno è Pietro, la capoccia a palla di biliardo, ha un negozio di attrezzi sportivi, lui viene sempre a chiacchierare con me, tutto sommato è quello che mi sta più simpatico, mi racconta dell'amante brasiliana, della moglie che l'ha buttato fuori casa e poi se l'è ripreso. Sì, lo confermo, Pietro c'era il 20 settembre, e anche Marisa e Maria. Ma mica c'erano solo loro, e io in un modo o nell'altro, una battuta l'ho scambiata con tutti. Per esempio Filippo. Tu arrivi e lui sta già lì ma non corre, ha un problema a un piede, però viene comunque perché vuole vedere gli amici e prendere una boccata d'aria prima di andare a lavorare. Filippo è asciutto, alto e ha l'aria di un signore sofferente o forse solo triste; è l'unico in quell'ambiente che ha una passione culturale, gli piace la storia dell'arte. Una volta abbiamo parlato di Michelangelo. Se c'è uno che non è sospetto, commissario, quello è Filippo, è troppo gentile. Non ce lo vedo proprio. | << | < | > | >> |Pagina 20Martini, Fabrizio
Io? Faccio il meccanico, e allora? No, commissario, non ricominciamo con i
miei precedenti politici. Parliamo del Settantasette, non so se si rende conto.
Certo che sono ancora di sinistra, ma qua dentro, a Villa Ada, ognuno la pensa
come gli pare e corriamo tutti insieme. No, io le gare non le faccio. Io
c'ho l'officina da mandare avanti. Ma quale poeta, commissario! E poi, poeta o
non poeta, fatto sta che l'hanno ammazzato,
poveraccio. Sì, lo so come la pensava. Qualcosa gliela posso dire perché una
volta, non mi sentivo bene... Mal di pancia, commissario: cacarella. Mi sono
dovuto ritirare... Mentre ero lì, accucciato per terra, non è comparso lui? Mi
ha guardato ed è partito in una roboante filippica: che ci voleva Hitler, che
non bastava neppure Mussolini, ormai la gente caga ovunque, e poi
tutti corrono, le donne anche loro con il culo di fuori e le tette
al vento... Io l'ho affrontato, ero quasi più incazzato per i discorsi politici
che per l'interruzione. Ma le pare, commissario,
uno sta in pace al cesso e arriva un pazzo neonazista che invoca Hitler! Alla
mia reazione è scomparso, si è buttato giù per
una forra, che poi ho visto che c'è una specie di scaletta, mi sa
che se l'è scavata lui. Io? No, io no, signor commissario io non
ho mai scritto poesie. Neppure allora quando si diceva che il
privato era politico. Va be', ma non conta, e poi non credo che
nessuno le potesse prendere per poesie. Sì, magari non riuscite, ma sì, è vero
le ho scritte e, sì, lo ammetto, erano poesie politiche perché a me mi piaceva
la politica, anzi mi piaceva la lotta, mica la letteratura. E chi aveva letto
mai niente! Di poesia intendo. Facevo un discorso andando a capo, per me quella
era la poesia... No, il morto non so se era bravo. Sì ne ho anche letta una, le
attaccava agli alberi. L'alibi? E non so commissario,
stavo qua. No, ho corso con il gruppone. No, non mi sono assentato, oggi con la
pancia sto bene. Mi scusi, commissario, ma
io sono uno allegro, forse per questo mi hanno fatto presidente. Sì, presidente
delle Tartarughe di Villa Ada, la nostra associazione di runner, sì, insomma, di
quelli che corrono. Siamo
nati da una scissione della prima associazione: le tartarughe
hanno abbandonato gli scoiattoli, gli Scoiattoli di Villa Ada, e io
sono il presidente delle Tartarughe. Perché fa quella faccia,
commissario? Forse siamo un po' bambini, ma non siamo cretini. E poi se
cominciamo la giornata tornando al parco come
quando eravamo piccoli, che male c'è? Certo, sì, c'ha ragione...
Fino a quando qualcuno non ci rimette la pelle. Ma io i miei li
conosco tutti. Non posso permettermi di garantire per nessuno se non posso
garantire neppure per me stesso, non le pare?
L'alibi, ma gliel'ho detto... Non basta? Sì, stamattina parlo strano perché ho
mal di denti. Tanto a casa che ci facevo, allora vado a lavorare e poi dal
dentista. Lei non può capire, ma noi che
corriamo ce ne freghiamo delle malattie e degli acciacchi. Noi
siamo abituati a soffrire, cerchiamo di essere sempre un passo
oltre i nostri limiti. Lei pensi alle maratone. Qui c'è gente che
tutti i giorni si fa almeno dieci chilometri col sole, col freddo,
col ghiaccio, con la febbre, il mal di pancia, la bronchite. Per
fermarli bisogna abbatterli, e più vecchi sono e meno si fermano. Noi siamo
convinti che l'unica vera medicina è correre, correre, correre.
Moretti, Fausto Perché ho un braccio finto? Perché non ho più quello vero, commissario. Va be', non se la prenda, è che adesso ho un negozio di antiquariato, ma io col legno c'ho sempre lavorato. Ho vissuto dieci anni nel Borneo, quando ero giovane, tra i trenta e i quaranta. Il periodo più bello della mia vita. È lì che ho perso il braccio. No, io non abbattevo gli alberi - che poi dovevamo segare solo i più grandi, ma sa com'è, alla fine li prendevamo tutti, tanto poi la foresta pluviale nel giro di cinquanta anni si ricostituisce, e a loro lì non gliene frega niente, quello è il loro petrolio, non hanno altro. L'ecologia è una stronzata dell'occidente, loro devono mangiare: so-prav-vi-ve-re. Io gli alberi non li tagliavo, non ho perso il braccio così. Il fatto è che un bel giorno ho deciso che attraversavo il Borneo da sud a nord, volevo andare dove non va nessuno, e ci volevo andare da solo, così mi sono comprato un barchino a motore e ho navigato fiumi e paludi fino all'ultimo villaggio abitato. Che c'entra? C'entra commissario, c'entra. Non voleva sapere del braccio? E allora ascolti. Al villaggio ci sono rimasto un mese. Mi hanno chiesto perché volevo andare dove i bianchi non vanno, e io gli ho detto che quella era la mia vacanza. Non so se hanno capito che cosa voleva dire vacanza, ma per loro era importante che non ci andavo per lavoro, cioè per rapina. Hanno fatto molte riunioni e alla fine hanno deciso che chi voleva poteva farmi da guida. Me ne servivano due e si sono presentati in più di venti. Perfino lì i soldi valevano qualcosa. Li ho esaminati, ci ho parlato e alla fine ho scelto, un po' a caso per la verità... Siamo partiti leggeri, pensi che abbiamo preso solo trenta chili di riso, una bottiglia d'olio e dieci chili di sale, per il resto abbiamo mangiato i frutti degli alberi e gli animali della foresta, soprattutto serpenti. Le mie guide delle volte si fermavano di colpo e annusavano l'aria, poi cambiavano direzione, si sentiva un fruscio e un animale si infilava in una tana. Se non lo catturavano subito, lasciavano un segnale. Mangiavamo molto pesce, li prendevano con le mani nei fiumi e nei torrenti, se c'era bisogno chiudevano uno specchio d'acqua con delle pietre, insomma facevano delle piccole dighe. Ma la cosa peggiore non erano i serpenti o gli altri animali, la cosa peggiore erano gli insetti: zanzare, moschitos di tutti i tipi, ma soprattutto vespe che sembravano elicotteri, e alcune erano mortali. La notte dormivamo col fuoco acceso... Va be', il braccio, ho capito. È stata una pianta commissario, una pianta che mi ha tagliato e la ferita non si è più rimarginata. Me l'avevano detto di stare attento, che non c'era salvezza se la sfioravi, ma io non l'ho riconosciuta e il taglio è andato in suppurazione. Per fortuna eravamo alla fine del viaggio. Mi sono salvato e ho perso il braccio. Soddisfatto commissario? Anche troppo, eh! Ma glielo dovevo raccontare come è successo,visto che questo è il mio alibi, o mi sbaglio? Con un braccio solo non posso ammazzare nessuno. E poi io non ho mai scritto poesie, commissario, neppure per sbaglio. Mai. Guardi, sono appena stato a New York, dove ho partecipato alla maratona. Qui siamo solo io e Ulisse che facciamo le maratone all'estero, la prima volta siamo andati insieme a Stoccolma; in America doveva venirci anche lui, ma aveva problemi di lavoro... No, per dire che se non ho scritto una poesia sulla maratona di New York, vuol dire che proprio sono negato. È stata una cosa fantastica! Commissario, lì ci sarebbe davvero voluto un poeta! E allora mi è venuto in mente un canto che quegli indigeni mormoravano la sera, come una litania, me la sono fatta tradurre e parlava di un ragazzo che correva nella giungla, ma non per andare a caccia, solo per correre, per correre incontro alla vita. E aveva un ritmo, una melodia incalzante e straziante... No, commissario. Sì commissario, certo che mi piaceva, ma non era poesia come la si intende da noi, quella era, come dire, la voce degli abitanti delle foreste. Commissario gliel'ho già detto, non ho mai scritto poesie. E non ne sono neanche mai stato contaminato, come dice lei. Contaminato? Anche se la frequentazione di quei popoli e delle loro litanie, dei loro canti, o delle loro preghiere, mi ha molto affascinato. No, insisto, non ho mai pensato di scrivere poesie, ma certo mi sarebbe piaciuto essere o diventare, che so?, uno sciamano... o magari un poeta, che forse sono gli sciamani di oggi. | << | < | > | >> |Pagina 505. LA VISITA A VILLA ADA
Il questore, dottor Argante Incravallo, rimase a guardare la scrivania linda
lucida geometrica, tranne quel mucchio di carte
abbandonate dal commissario Sperandio lì davanti, al centro di
quello spazio, dall'altra parte, dove sedeva e parlava, parlava e
rimestava fra quei documenti cercando sempre nuove pezze
d'appoggio al suo strologare senza costrutto. In un patetico tentativo di fuga
da tutto quel disordine, il questore alzò gli occhi
al soffitto, fece girare la poltrona dirigenziale sulla lunga vite di
legno e abbassò lo sguardo verso il piccolo spicchio di azzurro
che compariva all'angolo tra i due palazzi che di sguincio gli
toglievano tutta la luce, e così, stufo anche del neon e della lampada da tavolo
formato Ministero degli Interni, si alzò di scatto e si fece chiamare la
macchina. Voleva fare un passeggiata,
doveva uscire. Fu solo nella scomoda volante bianca e blu, fu
solo al "Mi dica dotto', dove andiamo?", che senza pensarci disse "Villa Ada",
godendo del silenzioso stupore dell'autista che
mai, ma proprio mai, l'aveva accompagnato a perdere tempo
in una villa. "Il signor questore va ai giardinetti!" pensò l'autista Esposito,
ma non disse nulla. Mai avrebbe osato pronunciare una battuta tanto irriverente.
Usciti da via San Vitale, giocando sulle corsie preferenziali - era pur
sempre il Questore di Roma - raggiunsero la Salaria e,
da lì, presa via di Ponte Salario, costeggiando il muro della caserma dei
carabinieri con su scritto "limite invalicabile", arrivarono davanti
all'ingresso di Villa Ada dalla parte del laghetto. Incravallo disse all'autista
di seguirlo, che lui aveva bisogno
di camminare e magari gli veniva di riflettere a voce alta e se
era solo l'avrebbero preso per matto. "Agli ordini, signor questore!" Incravallo
alzò gli occhi al cielo e gli disse: "Venga, venga, Esposito, e la pianti col
signor questore. Andiamo a fare due
passi in un parco!" La macchina l'avevano parcheggiata prima
dei cassonetti in quella specie di budello chiuso tra l'incipiente Monte Antenne
con il Circolo del tennis Parioli, il citato muraglione off limits dei
carabinieri e il muro che delimitava la
villa: quasi un piccolo canyon o il possibile letto di un torrente, che davanti
al cancello virava bruscamente a destra accentuando la cupa atmosfera di
chiusura. Fu quindi con un certo
sollievo che Incravallo entrò nell'ampia pianeggiante valletta
col suo piccolo lago nel quale si specchiavano alberi, nuvole,
persone e animali in un piombo azzurrino venato da tutta quella verzura,
soprattutto le alte betulle del promontorio che si allungava sull'acqua,
dall'altra parte, proprio di fronte all'ingresso, velando appena la grande
parete di bosco che saliva
verso gli altri ingressi della villa, quelli dalla parte della Salaria
dritta e pianeggiante che punta verso via Po e, da lì, verso piazza Fiume e la
stazione Termini. Incravallo, che non c'era mai
stato, rimase senza fiato, anche perché quella scena era punteggiata dai gridi
dei gabbiani, quasi fosse il chiuso specchio di
mare di un fiordo norvegese ingentilito dalla luce mediterranea e dalla
mediterranea rigogliosa vegetazione. Uno strano
effetto di partecipazione e straniamento: essere a casa ed essere lontanissimi.
Essere a Roma eppure in un posto in qualche
modo selvaggio, anche se intorno a lui tutto era normale: la
piccola giostra per i bambini con i cavallucci e le automobiline
di plastica, la gabbia con i tappeti elastici, il baracchino per la
cassa. Verrà aperto solo il sabato e la domenica, pensò lasciando scorrere
davanti ai suoi occhi corridori coi polpacci ipertrofici e i moncherini
accostati al petto come stantuffi, mamme
con le ampie molleggiate carrozzine, vecchie signore in precario equilibro a
causa del cane al guinzaglio, atletiche fanciulle
con la coda di cavallo, e asciutti signori in pensione che rosapaonazzi
tagliavano il vento immemori della loro non più verde età. Da questo punto di
vista, dal punto di vista del pubblico, Villa Ada corrispondeva a come se l'era
immaginata, e ciò
era riposante. Stava appunto tentando di rilassarsi, quando vide un grande
uccello nero piombare nell'acqua, infrangerne lo
specchio in mille pezzi e uscirne con una preda nel becco. Un
cormorano! I prati per le famigliole, l'incipiente autunno con le
prime foglie gialle e rosse qua e là già ai piedi degli alberi, i ragazzi, non
sempre giovanissimi, che giocavano a pallone nello
spiazzo sulla destra del laghetto - e dal cielo cade un rapace e
fulmina un pesce che riteneva di essere al sicuro a pelo d'acqua. Incravallo non
si fidava di quel cielo azzurrissimo con
quelle nuvole nette, lavorate, i bordi bianchissimi e l'anima nera, che si
vedeva benissimo, o almeno si intuiva, che da un momento all'altro potevano
scoppiare come altrettante bombe rovesciando sull'umanità gaudente una pioggia
di pece. Il questore aveva spesso di questi pensieri catastrofici, un po' da
punizione divina, diluvio universale, disastro ecologico. In fondo
pensava che l'umanità si meritava una certa dose di flagelli divini. Non che lui
li auspicasse, o forse sì, visto che le punizioni
umane non funzionavano sperava in punizioni ultraterrene,
insomma voleva molto che l'inferno esistesse, anche se non ci
credeva per niente: "Sarebbe troppo bello" gli uscì con un sospiro. "Che cosa?"
fece l'autista. "Eh?" "Che cosa sarebbe troppo bello..." "Lasci perdere, sarà il
mio mestiere, divento negativo." Intanto avevano girato a destra seguendo il
viale sterrato che costeggiava il muro dalla parte di Forte Antenne, dove,
lui lo sapeva, c'era un bunker sede dei Servizi, come si dice in
gergo. "Quante volte gli hanno cambiato il nome e sono rimasti sempre lì." Ma
scacciò quel pensiero fastidioso attribuendolo al suo pessimismo. "Un pessimismo
istituzionale" aggiunse, contento della formula che lo sgravava di
responsabilità. L'umor nero non era suo, non era incistato nelle sue cellule,
era il cinismo delle istituzioni che gli era entrato nelle ossa,
forse addirittura una forma di sadismo, quella specifica del Ministero degli
Interni, il punto più oscuro di ogni governo. "Il buco del culo di Ludovico il
Moro" gli venne da pensare, e si
mise a ridere ricordando la battuta da ginnasiale che rispondeva alla seriosa
domanda: "Qual è il punto più oscuro della Storia?" L'appuntato-chauffeur lo
guardava esterrefatto: il signor questore rideva da solo!
Le nuvole intanto stracciavano il cielo in lungo e in largo e le cime degli alberi frusciavano e ondeggiavano come in un film di Dario Argento, il suo regista preferito, ma all'occhio esperto del questore non sfuggiva la fila di alti allori che separava il viale dal muro di cinta. "Un buon nascondiglio, per esempio per un agguato... o un buon cesso" aggiunse vedendo biancheggiare fazzolettini di carta alla base di quelle nobili piante che tanto avevano a che fare con la poesia. Poco più avanti il viale si divideva, a sinistra circumnavigava il laghetto, andando dritti invece ci si addentrava nella giungla, in mezzo alla biforcazione c'era un lieve avvallamento, un vasto prato con qualche albero: "Se piove diventa un gigantesco pantano" mormorò incontrando il bovino consenso dell'appuntato. Il questore non poteva sapere quanto aveva ragione, alle prime piogge quel prato annegava in una iridescente palude: gli alberi si specchiavano in un'acqua densa impenetrabile oscura. Incravallo aveva una particolare sensibilità per gli stati confinanti con l'orrore o forse solo con l'inconscio o almeno con il sogno: ecco, il paesaggio che aveva intuito non era reale, non sembrava reale. Dopo un paio di curve si trovarono fra due muraglioni di rovi, al di là dei quali si gonfiava il buio fitto e impenetrabile di una lussureggiante vegetazione. Il questore era disposto a scommettere che neppure i giardinieri della villa avevano mai osato mettere piede là dentro, ammesso che ci fosse un accesso: "Solo col machete o un bulldozer..." Il sentiero, ancora abbastanza largo, affrontava un tratto pianeggiante in cui la temperatura calò in modo sensibile - lì non arrivava mai il sole - tanto che, come Incravallo appurò più tardi, veniva chiamato la ghiacciaia di Villa Ada; con un'espressione un po' arcaica: ghiacciaia, non frigorifero. Ci pensò molto, al momento opportuno, come se quel leggero anacronismo linguistico potesse significare qualcosa, ma per il momento si strinse solo nella giacca incrociando le braccia per scaldarsi un poco. "Che freddo!", biascicò Esposito cacciando un urlo mentre un biscione di almeno un metro ondeggiava nella polvere costeggiando i rovi: "Esposito!" lo rimproverò Incravallo: "E che sarà mai!" "Mi scusi signor questore, è che a me i serpenti..." "Ma non è un serpente, è solo una biscia..." "Sarà pure una biscia, come dice lei, ma a me mi pare che striscia come un serpente." "Esposito, noi siamo le forze dell'ordine. Porti una divisa, ma che figura mi fai fare. Che figura facciamo!" e accelerò il passo quasi a prendere le distanze bofonchiando tra sé che non se lo sarebbe dovuto portare appresso. Intanto Esposito, toccato nell'amor proprio, suo e dell'arma cui apparteneva, per riscattarsi si era lanciato all'inseguimento della biscia con il fermo proposito di ammazzarla a manganellate benché sospettasse che si sarebbe trattato di uso improprio di un'arma d'ordinanza. Preso dalla febbre della caccia trovò un pertugio tra i rovi ci si infilò senza starci troppo a pensare, tanto che quando Incravallo si girò non lo vide più e, dopo averlo chiamato più volte, fu costretto a tornare indietro. All'altezza del pertugio Esposito emerse dai rovi con un radioso sorriso, brandendo in una mano insanguinata il manganello e nell'altra, anch'essa rigata dai rovi, il biscione con il capo fracassato. Aveva la divisa strappata, era senza berretto e con riccioli ormai sale e pepe che gli scendevano sulle orecchie e sulla fronte. Incravallo guardò il suo non più giovane eroe e scoppiò a ridere, a ridere, a ridere, singhiozzava, tirava il fiato piegato in due, e come alzava gli occhi e lo vedeva con quel trofeo penzolante nella sinistra e il manganello brandito come uno scettro nella destra, ripiombava in quel suo disperato ilare singhiozzare - con il risultato di precipitare Esposito nel mare della più vasta delusione, tanto che azzardò: "Col signor questore non va mai bene niente!" Ma era una cosa che sapevano tutti i collaboratori di Incravallo: parlava poco, sorrideva di meno e chiedeva di più, ma la cosa terribile era quando rideva. "Una risata ci seppellirà tutti", era una delle poche cose che ripeteva. "State attenti, state attenti... Ma no, lasciate perdere, tanto una risata oceanica ci seppellirà, seppellirà l'umanità intera." | << | < | > | >> |Pagina 62Incravallo, che intanto di era avvicinato, si rese conto che tra le colonne della piccola costruzione erano state tirate su delle pareti, ma non si trattava di opere in muratura, era masonite o compensato pittato di bianco. Si trattava, si rese conto, di un tempietto di fattura ottocentesca trasformato in abitazione da qualche audace estetizzante barbone, il quale aveva provveduto a chiudere la sua magione con un lucchetto che Esposito, con l'aiuto di una piccola arrugginita sbarra di ferro recuperata tra le arcate della sottostante esedra, scardinò facendo saltare le viti a occhiello che lo tenevano alla masonite dell'improvvisato portale. A giudicare dall'arredamento si trattava di un barbone particolare, molto, molto, particolare: lo spazio consentiva un letto quasi matrimoniale, "alla francese" pensò Incravallo, insomma una piazza e mezza, con testiera intagliata in un bel mogano lavorato con legno più chiaro, due pregevoli comodini altrettanto elaborati incorniciavano il letto, che era collocato alla destra entrando; un piccolo comò, anch'esso primo Novecento, completava la metà di quello spazio circolare dedicata al riposo, mentre sulla sinistra, in qualche modo di fronte al letto, c'era un tavolo-scrivania con due cassetti e delle applicazioni dorate, delle fronde, e agli angoli, là dove si dipartivano le gambe, le stesse decorazioni in metallo dorato raffiguravano degli strumenti musicali, lire o arpe, Incravallo non distingueva bene, forse per lo stupore non era in grado di prestare troppa attenzione a quei dettagli. Tutto era in ordine e tutto sembrava pulito. Incravallo lasciò che gli occhi si abituassero alla penombra, allora fu chiaro che quella strana luminosa massa gialla collocata al centro della scrivania era una macchina da scrivere, una Lettera 32, un vero e proprio reperto archeologico. Una Olivetti tutta d'oro! Allora esiste, pensò Incravallo cercando di controllare l'eccitazione, la sfiorò con un dito, con il palmo della mano, ma poi la sollevò tirando un sospiro di sollievo: non era d'oro, ma d'oro era dipinta. Certo, faceva un bell'effetto: "Sembra una scultura pop" pensò, e poi: "Se è vero che il pop riattribuiva senso e significato agli oggetti di consumo cambiandone le dimensioni o esagerando i dettagli, dipingere un oggetto d'oro è un gesto estremo per riportarlo dentro un mondo di valori, infatti: cosa ha più valore dell'oro?" Girando lo sguardo sullo scaffale alla destra della scrivania e vedendo che si trattava solo di libri di poesia, aggiunse con un filo di ironia: "Forse solo le poesie che con quella macchina dorata si possono scrivere." Poesia contemporanea, titoli che a Incravallo non dicevano niente. Ne prese in mano qualcuno: Attilio Bertolucci, La camera da letto, addirittura due volumi! Quattro libri di un certo Giorgio Caproni, e poi quel Dario Bellezza di cui aveva parlato Sperandio, e tutta l'opera di Pier Paolo Pasolini, anche lui, ma che bella edizione! Un'antologia curata dal noto Manacorda, un'altra da tali Berardinelli e Cordelli... "Forse dovrei leggere questi libri, studiare le antologie, capire chi è stato escluso, o incluso, o dove hanno pubblicato questi poeti, chi da grandi editori e chi da piccoli o piccolissimi... Le invidie, i gruppi l'un contro l'altro armati... Ma anche Sperandio che queste cose, da quanto ho capito, un po' le conosce, non è arrivato a niente. Allora?" Incravallo parlava da solo, tanto che Esposito si era messo con le braccia incrociate davanti alla porta aperta ascoltando il mormorio del suo superiore senza prestare attenzione a quello che diceva, in qualche modo ascoltava il rumore del cervello del questore al lavoro. Era un po' come la musica del motore di una macchina di grossa cilindrata, e, in quanto autista del capo, di motori se ne intendeva, il loro silente rombare era per lui un vero piacere. Incravallo, in effetti, pensava a voce alta, cosa che gli capitava soprattutto quando doveva mettere insieme le tessere di un puzzle senza vedere l'insieme: "Questo non è un barbone. La pulizia, i libri. Non c'era un filo di polvere, i mobili, la macchina da scrivere dorata: è un poeta che ha fatto qui il suo studio clandestino. Ma può essere chiunque! Il tempietto ha esteso all'infinito la rosa dei sospettabili: possono essere tutti quelli che corrono qui, ma anche tutti quelli che non corrono qui. Possono essere tutti i poeti del pianeta ma non è escluso che la poesia non c'entri per niente; può darsi che lo Sprache sia stato ucciso perché il suo cane ha pisciato sui cartoni di un altro disgraziato... Ma il modo come l'hanno ammazzato... E chi lo dice che quel modus operandi sia per forza di un poeta? Magari siamo noi che gli attribuiamo una forza simbolica che invece non ha, magari è stato solo un pazzo che si è divertito a realizzare una sua fantasia o, appunto, un barbone offeso che ha messo in opera arcane simbologie mafiose, magari viste solo alla televisione, o conosciute nel suo luogo di origine; barboni calabresi o siciliani - o extracomunitari."| << | < | |