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| << | < | > | >> |Pagina 3PREFAZIONEPare che il primo aereomodello di carta di cui si abbia notizia sia stato portato negli Stati Uniti dalla Cina dal Capitano Fear God Bascomb il 1° maggio 1743, ed era ricavato da un foglio di carta piegato di 21,5 x 28 cm. Il primo libro sull'argomento invece pare che sia il PAPER AEROPLANES, di H. G. G. Herklots, pubblicato in Inghilterra da W. Heffer nel 1931. Da allora sono apparsi altri due libri che trattano con diverso impegno l'argomento: «Duza Ksiazka o Malych Samoloach» di Pawel Elsztein (Varsavia 1956) e il classico «Das Kleine Buch von Papierflugzeug» di Richard Katz (1933). L'edizione originale americana di questo volume è il risultato della prima gara per modelli aerei di carta organizzata nel 1966 dal SCIENTIFIC AMERICAN, una delle riviste scientifiche più note del mondo. La «Prima Gara Internazionale di Aereoplani di Carta» suscitò un enorme interesse; i modelli iscritti erano 11.851 e provenivano da 28 paesi diversi; il più piccolo aveva dimensioni di pochi mm., il più grande raggiungeva i 3,353 m. Non sappiamo con quale criterio vennero scelti i modelli, ma una ventina di questi vennero raccolti e pubblicati in questo volume. C'è comunque una differenza sostanziale tra l'impostazione del primo libro di Herklots e quella del Scientific American. Herklots, che pure lamentava con 35 anni di anticipo la mancanza di un vasto trattato sull'argomento, riteneva che i modelli di carta potessero giocare un ruolo di primaria importanza come «possibilità di evasione mentale in questo incalzante progresso civile». Un hobby, insomma. Il Scientific American, invece, crede che i modelli di carta possano costituire oggetto di una vera e propria ricerca scientifica. Herklots fece un'altra osservazione intelligente: «nessuno, egli dice, ride di chi gioca a golf o a rugby, si ha un enorme rispetto di chi gioca a scacchi o a bridge, ma quando io mi metto a ritagliare i miei modellini, gli amici mi prendono in giro». In fondo anche noi pensiamo la stessa cosa; abbiamo quasi paura di costruire e lanciare quei pochi modelli che abbiamo imparato da ragazzi, e solo quando un bambino ce ne offre l'occasione siamo ben felici di preparargliene uno e «collaudarlo» di persona. Pare che, in Italia, l'unico ambiente serio in cui gli aeromodelli vengono presi in considerazione con metodo e ricerca scientifica sia il Politecnico di Milano. La dimostrazione di ciò è il modello n. 20, visto uscire dalle finestre di un'aula del biennio d'Ingegneria! Ma torniamo all'edizione originale di questo libro: la stampa locale, e non solo quella, s'interessò enormemente a questa gara, provocando a volte situazioni anche imbarazzanti. Per esempio a pag. 37 del New York Times del 12 dicembre 1966, la Lockheed California Corportion spiegava come si dovesse, per salvare l'andamento della bilancia dei pagamenti, produrre un aereo supersonico civile negli Stati Uniti anziché comperare il Concorde o il russo TU-144; a pag. 38 dello stesso giornale appariva l'annuncio della gara di modelli di carta indetta da Scientific American. Scherzo del fato o dell'impaginatore? La cosa comunque suscitò un autentico vespaio: alcuni accusarono la Lockheed di aver fatto in modo che gli articoli apparissero così vicini per trarne vantaggio; altri accusarono Scientific American; altri ancora parlavano di un «divario» tra URSS e USA, a favore della prima, per quanto riguardava gli aerei di carta. È stato questo «incidente», più ancora che la gara, che creò interesse tra i giornali anche stranieri. Il France Soir scriveva «...attendiamo con impazienza i risultati di queste prime prove ... in ogni caso è una notizia che rispecchia perfettamente certe qualità tipiche degli americani: ingenuità e ingegnosità, senso di umorismo e franchezza ...». Il Nouvel Observateur, organo ufficiale della sinistra francese, fu più cauto, riportando la notizia senza commenti, forse in attesa di vedere se il modello vincente non venisse per caso usato a scopi militari. La gara comunque si svolse in un clima di festa nazionale: la finale fu ripresa da una compagnia televisiva e la partecipazione della stampa eguagliò quella verificatasi in occasione della visita di Paolo VI. Si organizzarono eliminatorie presso un centinaio di scuole di ogni ordine e grado e persino alla Lockheed, alla Grumman e alla Douglas; il Chronicle si offrì dì curare la gara sulla West Coast ed esaminò più di 3000 modelli; sulle sue colonne uscirono continue notizie sull'andamento della gara. Il direttore incaricò David Perlman, redattore scientifico del giornale e ricercatore di prim'ordine, di interessarsi all'argomento, e questo nel giro di pochi giorni fece un mucchio di scoperte sugli aerei di carta, che regolarmente comunicò ai lettori. Si venne così a sapere tra l'altro che Vittorio Sarti nel 1828 progettò un veicolo con ali di carta, a metà tra un elicottero e un veliero, che avrebbe dovuto librarsi in volo alla prima brezza. Nel 1847 Werner Siemens, ufficiale delle Forze Armate tedesche, disegnò il primo razzo: la sua coda somiglia agli attuali modelli di carta. A Perlman va anche il merito di aver riportato in luce l'Origami, un'arte giapponese che si sviluppò dal 782 al 1184 d.C., che consiste nel piegare la carta, in modo da ottenere animali od altri oggetti, per esempio, nel nostro caso, aerei, senza l'uso di forbici o colla. Pare che intorno al 700 d.C., o giù di lì, alcuni aerei costruiti in legno e carta sottile ed equipaggiati con oggetti a punta abbastanza pesanti fossero addirittura usati in battaglia come armi d'offesa. Molti degli 11.851 modelli giungevano alla Segreteria della gara accompagnati da dettagliate lettere che ne spiegavano le origini e le caratteristiche tecniche, altri venivano spediti con un francobollo attaccato al muso e l'indirizzo sulle ali; altri ancora arrivarono negli involucri più strani: tubi di cartone, scatole a foggia di hangar, barattoli di caffè, scatole da scarpe o sigarette. Dall'esame delle lettere e dei plichi possiamo notare con quale interesse e spirito i concorrenti partecipassero alla gara. Più numerosi di tutti erano i bambini; alcuni scrivevano che avrebbero voluto vincere perché i loro amici li avevano presi in giro mentre costruivano i modelli, altri perché non avevano mai vinto niente; altri ancora declinavano semplicemente le generalità aggiungendo il nome dell'insegnante e di tutti i parenti più stretti. Qualcuno diceva di aver visto volare modelli per mezz'ora (ovviamente lanciati da grattacieli, come quello di William Pain che, lanciato dal 31° piano del Time Life Building volò per un'ora e trentatre minuti prima di «sparire alla vista»). Due sorelle di Los Angeles presentarono un modello svelando un segreto di famiglia; pare che fosse dovuto al leggendario Barone Von Lufthaven, e che le istruzioni per il disegno del modello fossero state tramandate di padre in figlio fino a loro, dal lontano 1° aprile 1767. Arrivò perfino una lettera con le istruzioni in giapponese (o forse in cinese) ma, non si sa bene perché, il modello non fu ammesso alla gara. Al termine della gara le polemiche non finirono; per esempio, mentre il Prof. David Azen dell'Università di Princeton riteneva di non avere scoperto nulla di nuovo, il Prof. Edmund V. Laitone, dell'Università di Berkeley era di parere decisamente opposto, e puntava le sue speranze soprattutto sul modello che noi riportiamo al n. 17. Addirittura avvalorava la sua tesi dicendo che quella che prima era stata per lui solo una felice intuizione ora poteva essere confermata sperimentalmente; aveva infatti costruito una galleria del vento con una bilancia capace di misurare portanza e resistenza del modello con una precisione di 1/10 di grammo, dieci volte più sensibile di qualsiasi altra bilancia. Nell'ultimo comunicato apparso sui giornali, Scientific American proclamava i vincitori, ed è interessante notare come fossero persone che potevano basarsi su una loro passata esperienza. Il Capitano Barnaby è un pioniere dell'Aereonautica; altri due conobbero Orville Wright in persona. | << | < | |