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| << | < | > | >> |IndiceYUNIER RIQUENES, La fiamma in bocca 7 MICHEL ENCINOSA FÚ, Layla, o il detestabile sotterfugio dei silenzi 16 OSDANY MORALES, Il discepolo / Il maestro 30 MARIELA VARONA, Anna Lidia Vega Serova legge un racconto erotico nel patio di un museo coloniale 45 AHMEL ECHEVARRÌA, Terra 58 DELIS GAMBOA, Se fosse già lunedì 65 AGNIESKA HERNÁNDEZ, Pezzi della verità 79 YORDANKA ALMAGUER, Ricordati di santificare le feste 90 RAÚL FLORES, Denti 99 GLEYVIS CORO MONTANET, La voce che non è di Björk 105 JORGE ENRIQUE LAGE, La Macchina 117 YOSS, Decalogo semiserio per orientarsi nella narrativa breve cubana 129 DANILO MANERA, Orfani e fantasmi 137 NOTIZIE SUGLI AUTORI 146 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Ad Arianna e a Orestes A Delis Gamboa Amo la fiamma dei cerini, anche se ormai non vogliono più bruciarmi le dita. Ne porto sempre una scatola in tasca, ben riparata dall'umidità. Li tengo tra le dita e li guardo finché si spengono, ne accendo uno e poi un altro e non mi addormento. La fiamma degli accendini non mi piace, è irregolare, brucia con meno sofferenza. Neanche la mamma dorme, è una persona che pensa più di quanto vive e che aspetta Orestes. Accende una sigaretta dietro l'altra. Questo mi piace: tiene sollevata la parte incandescente in modo che le illumini il viso. Dopo essere andata a letto, non parla né si rialza per controllarmi. Così io ne approfitto, mi giro di spalle e sfrego i cerini, ne accendo uno dopo l'altro. Ma se oggi non ci addormentiamo, è perché abbiamo fame. Non si resiste tutta la notte con un pezzo di pane e un po' di caffè. Lei ha bevuto solo una tazza del caffè colato per primo, il più forte. Oggi non c'è niente, piccola, mangia tu anche il mio pane. Ma io l'ho lasciato lì dov'era, oggi non ho fame, mamma. Perché se no anch'io me ne sarei bevuta una tazza. È la prima volta che non mi fa da mangiare. È tornata dalla strada che era già notte e si è chiusa in bagno per più di un'ora. Poi è uscita riordinandosi la faccia. Non c'è niente da mangiare, nulla con cui preparare qualcosa, figlia mia. Lo sai che razza di padre hai. Sei stata a prenderlo alla bottega? Non andarci più, e mi ha abbracciato forte. | << | < | > | >> |Pagina 65La mano di Víctor Manuel rimase sospesa a mezz'aria per qualche secondo e poi, improvvisamente, ricadde lungo il corpo. La cintura gli scivolò dalla mano. Vitico sentì piegarsi le ginocchia. La vista gli si annebbiò e vide il maestro alla lavagna che scriveva il compito.
Il maestro si volta e aspetta che tutti finiscano di copiare gli
esercizi. Le parole risuonano nelle orecchie di Vitico: "Lo sapete:
chi non lo fa, lunedì niente ricreazione."
Il direttore disse: — Entrate in aula. Anche quelli dell'ultimo anno. E rimanete tranquilli fino a quando non arriva il maestro. — I ragazzi obbedirono e dai loro banchi continuavano a guardare le macchine attraverso la finestra, saltavano di gioia nel vedere che nessuna di loro si fermava: il maestro Ramón non era arrivato. L'orologio di Karel segnava le nove e tutti protestavano perché il maestro non arrivava, del resto erano stanchi di aspettare. Il direttore controllò l'orologio e propose di attendere ancora mezz'ora: se non si fosse presentato in quell'arco di tempo, allora li avrebbe mandati a casa. Che tirassero fuori i quaderni: gli esami incombevano. Prima delle nove e mezza si presentò una signora che portava una lettera del maestro, nella quale si scusava con il direttore per non essersi presentato, ma purtroppo dallo scorso fine settimana aveva la febbre alta. Che mandasse a casa i suoi ragazzi. Avrebbero recuperato l'indomani. In fretta e tutti contenti, presero gli zainetti e uscirono. — Magari fosse malato anche domani — disse Karel. – Sì – confermò Vitico. – Che se ne stia con la febbre tutta la settimana. Le ragazze protestarono per la sconsideratezza e la crudeltà dei ragazzi. Dicevano di essere dispiaciute per il maestro, poveretto, così magrolino e tanto buono. – Cos'è, volete fare lezione? – No – risposero tutte. – E allora? – Però non ci fa nemmeno piacere che sia malato. – È l'unico modo perché se ne stia a casa. Non volevano più sentire quelle assurdità e si tapparono le orecchie con le mani. Questo li indispettì a tal punto che iniziarono a correre loro intorno, a spingerle, a strattonarle per gli zainetti e gridare "oche ritardate". Le femmine contraccambiarono con "checche" e si piegarono per raccogliere dei sassi. I maschi iniziarono a correre, urlando più forte gli insulti. Lungo la strada si divisero fino a quando si ritrovarono soltanto Karel e Vitico. Erano felici di tornare a casa prima delle dieci di mattina. Avrebbero avuto tempo per pulire le gabbie dei conigli, pescare o farsi un bagno nel fiume. Si tolsero le camicie e le riposero negli zainetti: se Jacinto non era in casa, sarebbero entrati nel suo cortile a raccogliere le noci di cocco cadute per terra. Lo avevano già fatto in passato. La prima volta erano spaventati. Si erano limitati a prenderne una a testa e uscire di corsa. Jacinto aveva un'altra casa in paese dove trascorreva la maggior parte del tempo. Spesso lo vedevano attingere acqua dal pozzo, oppure affilare il machete, ma distoglievano subito lo sguardo perché non capisse che erano loro quelli che entravano in casa sua quando lui non c'era. Giorni addietro a Vitico sembrò che lo stesse fissando. Cercò di guardarlo con la coda dell'occhio, facendo il finto tonto e camminando il più veloce possibile. Non gli avevano mai chiesto di regalargli o vendergli un cocco. Avrebbero avuto voglia di farlo, ma non si erano mai decisi. Non volevano che intuisse che erano i due ladruncoli. Oltre lo steccato videro le piante cariche di cocchi e iniziarono a correre per vedere chi dei due arrivava prima. Karel fu il più veloce e gli disse di sbrigarsi. Aprirono la porta, guardando di continuo verso la strada, ed entrarono. Ne misero due o tre negli zainetti, poi uscirono senza voltarsi indietro. Dopo qualche metro iniziarono a parlare. – È meglio se non entriamo più, Karel. – Hai paura? – Tu anche. – È che questo cocco è così buono... — Ne hai presi tre? – Tre. Avevano abbastanza tempo, quindi decisero di andarseli a mangiare tranquilli sotto una pianta di mango nel pascolo. Il cocco si sbuccia facilmente. Lo si capovolge e con una pietra gli si dà un colpo al centro. Il guscio si apre in tre parti, cosicché rimane la noce dura. Dentro ti aspettano l'acqua e la polpa immacolata. – Lasciamo gli altri per dopo? Li nascosero nell'erba. Karel viveva da questo lato del fiume e Vitico lo accompagnò fino a casa. Rimase un po' a guardare i conigli e poi se ne andò. Passando sopra la palma che fungeva da ponte, tirò fuori il pezzo di cocco rimasto nella cartella. Doveva mangiarlo prima di arrivare a casa. Magali si sorprese nel vederlo e abbozzò un sorriso. Aracelis usci sbucciando una banana. – E tu che ci fai qui? – Non avevamo scuola. – Come mai? – Il maestro è malato. Magali si sistemò sulla sedia accavallando le gambe. Gli diede una rapida occhiata e girò la testa da un'altra parte. Da quel giorno i due distoglievano gli sguardi e si rivolgevano a malapena la parola. Del resto, nemmeno lei era tornata a parlare di quanto si era fatto grande, di come si stava facendo carino. Proprio un bel ragazzo. Quel giorno, a mezzogiorno, era come se all'improvviso ci fosse un'altra dentro di lei. Da allora Vitico era tornato a casa di Magali solo per sbrigare qualche commissione e poi se ne andava subito. Era qualcosa di involontario: davanti a lei si sentiva umiliato e in colpa. Magali era bella, con un corpo prorompente. Aveva scoperto di desiderarla e quando capiva che qualcuno le ronzava intorno si arrabbiava. Lei, che quel giorno chiuse la porta e gli disse "vieni", sembrava un'altra persona. Ancora adesso gli sembrava di sentirla, vederla, avvertire il suo sguardo trasfigurato mentre, con brusca tenerezza, gli intimava di seguirla. | << | < | > | >> |Pagina 79La Tricheca non era amica di nessuno, ma aveva sempre gente intorno, l'adulavamo per ottenere l'ultimo centimetro delle sue sigarette. Fumava a tutte le ore, di giorno, di notte, mentre mangiava; in una mano il cucchiaio e nell'altra la sigaretta; un boccone, un tiro, una tosse dal profondo dei polmoni, di quelle che rimescolano tutti i catarri del corpo. Era l'unica della prigione a cui non avessero mai cambiato cella e tutte noi che eravamo lì la conoscevamo fin dal primo giorno. Nessuna era entrata in carcere prima di lei; nessuna reclusa poteva dire da quanto tempo La Tricheca fosse in gabbia. Era una donna d'età indefinita, una qualunque dai quarant'anni in su, ma era impossibile dire se sessanta o cinquantadue. Aveva le dita giallastre per la nicotina e le labbra cerchiate da una macchia dello stesso colore. Si mangiava il tabacco delle sigarette. Parlava poco, dormiva meno delle altre e aveva un mazzo di carte che faceva invidia a tutte; perciò non lo condivideva con noi. La Tricheca si sedeva sul pavimento e noi ce ne stavamo lì rapite a guardare i suoi assi e i suoi re. Quando perdeva al solitario si infuriava. Quelle tra noi che riuscivano a vedere l'interno della sua cella le suggerivano di tentare di nuovo, con più calma, e di provare qualche trucco per vincere. Alcune mormoravano, per divertirsi, che La Tricheca aveva ucciso il marito per una lite durante una partita a carte. Si diceva che fossero entrambi giocatori accaniti e che nessuno dei due andasse a lavorare: scommettevano continuamente tra loro, vincendo e perdendo sempre lo stesso denaro. Se uno restava senza niente, allora l'altro gli cedeva qualche soldo per continuare la partita. Scommettevamo quel poco che avevamo sull'ipotesi che il marito della Tricheca avesse osato imbrogliare: sostituì una carta mentre lei andava in camera a cambiare il bambino, senza accorgersi di essere tenuto d'occhio grazie a uno specchio. Le più giovani ripetevano questa storia quasi tutte le notti, arrivando fino al punto oscuro: sapevamo tutte che La Tricheca aveva ammazzato il marito, ma non era per nulla chiaro come e perché. Si discuteva se era stato per le carte, per il piccolo o per un tradimento. La Tricheca aveva aspettato che lui si addormentasse per dargli un colpo d'ascia in testa. Alcune aggiungevano che dopo l'aveva fatto a pezzetti, altre che lo aveva bruciato, cucinandolo in una pentola a pressione, poi aveva messo i pezzi in un sacco e li aveva gettati nel fiume. C'era sempre qualcuno in disaccordo con una delle tante versioni. Noi scettiche difendevamo La Tricheca dicendo che bastava guardarla negli occhi per vedere che il suo passato ancora le faceva male, per questo non parlava. E anche molte di quelle sbattute in prigione per avere aggredito i mariti la appoggiavano, a loro sembrava giustissimo fare a pezzi un mascalzone. Gli uomini si meritavano di essere conciati per le feste, soprattutto quelli che si sollazzavano a guardare le altre donne per strada e le desideravano tutte tranne la loro; a quelli bisognava cavargli gli occhi, così che non potessero guardare manco la propria nonna. Le carcerate che entravano in galera per questi motivi erano ben viste dalle altre, o almeno, nessuna osava dar loro fastidio. Pestavamo invece chi finiva in prigione per aver ucciso un bambino, come una che aveva avvelenato il figlio con la scusa che il poveretto era anormale e le aveva rovinato la vita. A quelle spegnevamo le sigarette in faccia, le costringevamo a ingoiare i propri assorbenti zuppi di sangue, le tenevamo ferme in due o tre per sputargli addosso e mettergli merda nella vagina, affinché si riempissero di tutte le infezioni del mondo e non potessero mai più partorire nulla, nemmeno un mostro. Con La Tricheca era diverso. Sarebbe stata un'innominabile senza quella storia che lei non raccontava e che nessuna di noi conosceva per intero. L'unico dettaglio sicuro era che aveva fatto secco il marito in un colpo solo e che era passata molta acqua sotto i ponti da quando era entrata in prigione; ormai non aveva più occhi fascinosi, né pelle bianca e capelli lisci. Sentir parlare di una qualche bellezza della Tricheca risultava macabro. Non riuscivamo a immaginarcela come una donna attraente. Bastava guardarla per sentire una certa repulsione per le sue mani callose, le unghie circondate da carne insanguinata a furia di mangiarsi la pelle, i capelli radi e scomposti sulla fronte, la pelle rugosa e lurida. Era disgustosa quando mangiava con le mani al posto di usare le posate. Dalla sua cella proveniva un nauseabondo odore di urina, più penetrante di qualsiasi tanfo tipico della prigione, ecco il motivo di quel peculiare soprannome cui rispondeva senza irritarsi. Puzzava come una tricheca, sebbene nessuno avesse mai annusato o visto una tricheca. Si accasciava sul letto come un animale stanco e ed era goffa nei movimenti, una tricheca fatta e finita, una bestia che nel sonno si lasciava sempre sfuggire qualche grido. A volte usava il suo pesante corpo per mettersi in mezzo durante le liti. Si frapponeva tra due carcerate che volevano ammazzarsi, alzava le braccia e le donne venivano separate da una mole che non si azzardavano a colpire. Si diceva che alla Tricheca facesse schifo il sangue, altre sostenevano che fosse solo paura. Il giorno in cui due delle ultime arrivate si azzuffarono, La Tricheca stava mangiando come sempre, alternando tiri di sigaretta e bocconi, e strillò loro di non cercarsi guai, stupide, altrimenti non sarebbero mai uscite di prigione. Una strappò l'orecchio all'altra con un morso lasciando al suo posto un buco scuro circondato da pezzi di carne sfilacciata. La Tricheca guardò il risultato del litigio, ebbe un conato di vomito e gli occhi le se rivoltarono verso l'alto, facendosi completamente bianchi, mentre crollava sulle sue stesse gambe diventando tutta giallastra. Corremmo ad aiutarla. Neppure quelle che facevano palestra tutti i giorni e avevano le spalle larghe riuscirono a sollevarla da terra; bisognò soccorrerla lì, anche se rinvenne molto velocemente, forse per effetto del colpo. Quella notte la nostra immaginazione si fece più fervida. Avevamo pensato a tutto tranne che La Tricheca si spaventasse alla vista del sangue. Ma allora, come aveva potuto squartare il marito, bollire i pezzi e gettare il corpo nel fiume? Parlavamo tutte insieme e nessuna menzionava più la fame o la voglia di fumare. Le più lontane dalle nostre celle urlavano chiedendo se era vero che La Tricheca era svenuta. Lei ascoltava i commenti ed era come se non le importasse. Nel corridoio si diffuse una sola idea: La Tricheca aveva paura del sangue. | << | < | > | >> |Pagina 105A mia nonna, che mi ha sempre visto perdere. Sono dipendente da una sola droga, forse la migliore: fingere che i problemi non esistano. Niente siringhe o grandi spese. Sembra una porcheria, invece è piacevole come uno sballo da stramonio, deliziosa come gli spinelli. C'è chi impiega altre sostanze chimiche, la mia è la sega mentale. Ho amiche che giocano a domino, che si lanciano nel business delle antenne paraboliche o seguono i risultati del baseball. Io opto per la sega mentale continua. Per un trip del genere non occorre essere ricca o ideologa o avere le conoscenze giuste. Basta che qua, nella testa, una possa stravolgere quel che deve, da una legge di Newton al tasso di cambio del peso cubano convertibile. Sì, persino questo. Con un po' d'immaginazione tutto diventa modificabile, persino il valore del CUC. Alcuni la chiamano alienazione, io la chiamo ditalino o droga, in base al mio umore. Ho soffiato il trucco alla tv, alla propaganda, al film Dancer in the dark, alla vita stessa: in una testa, tutto può essere alterato e una può difendersi, senza il bisogno di essere ricca, ideologa o piena di agganci. Perché quale ricchezza, quali relazioni, quale ideologia ha mai la gente? Nessuna ideologia, amore o rispetto per niente che non sia la goduria più sfacciata! Qui inseguiamo tutti la stessa cosa. Certo, se una vivesse, non so... a Las Vegas, ma andare in cerca di goduria a Cuba... ah, ah. È ovvio che qui bisogna inventarsi qualche droga. Per questo ognuno ha la sua. Nessuno ce la fa a vivere al naturale. Il brutto è che subito dopo l'entusiasmo dovuto al miglioramento, all'illusione di miglioramento che si crea, proprio lì, subito dopo la droga, cominciano i guai... Sì, perché, che si può fare alla fin fine con un'illusione senza prospettive? Che fare – e credo che persino Lenin si ponesse questa domanda – se la realtà non è una nuvola? È proprio lì che il trucco della sega ti si ritorce contro, quando smette di essere la dolce bugia dell'inizio. Tuttavia, non so come, la gente esce da questi brutti momenti e va avanti. Credo che, nonostante tutto, nessuno si stanchi mai della sua droga. Ho visto tanta gente ridotta a uno straccio a furia di giocare a domino, o di orientare la parabolica sotto la pioggia, o di tifare spassionatamente per la squadra degli Industriales, da dover dedurre che l'ubriacatura, qualsiasi ubriacatura, persino l'ubriacatura di merda secca, è efficace. Se è vero che addirittura io, non so come, mi riprendo ogni giorno dagli smacchi e vado avanti. Come si spiegherebbe, altrimenti, la resistenza del terzo mondo, la sopravvivenza dei neri, delle donne, degli omosessuali? Come si spiegherebbe, altrimenti, la vita in una provincia? Io, per esempio, mi ubriaco con le mie manie di grandezza. Sogno una voce che mi dice: è arrivata la tua ora, al che io aggiungo, per rafforzare l'idea, immagini entusiaste. Questa è la mia pillola stupefacente, la mia masturbazione immaginaria: l'idea di una voce dentro la mia testa, effetto dell'autosuggestione; qualcosa che mi sono ripromessa di ascoltare un po' come Björk Guδmundsdóttir, la cantante islandese che è stata anche protagonista di Dancer in the dark, il film sulla povera, piccola cieca immigrata alla quale non rimaneva altra via d'uscita se non ricorrere sempre all'immaginazione, così vedeva la gente ballare in gigantesche coreografie in stile show di Broadway. Sicché, lasciando da parte la distanza tra me e Björk, tra come si sogna in Islanda e a Cuba, tra l'interpretare il ruolo di un personaggio in un film e il dramma di vivere una vita del cazzo, e glissando sul fatto che, insomma, le mie immagini non legano nemmeno le scarpe alle geniali sequenze del film e soprattutto la voce che ascolto non è quella di Björk, alla fine non mi trovo affatto male con la fantasia, la droga, il trip mentale che mi regala la voce in falsetto di un tale chiamato Sánchez, menzionato dai media come Sánchez, meglio noto come Sánchez, il funzionario, il Grande Benefattore, il braccio destro del Ministro. È sua la voce che mi incoraggia, la voce nasale di quest'uomo che assomiglia a un mugik ed è amico personale o consulente del Ministro e a prima vista non sembra così importante e chiunque, non appena lo vede, pensa che possa essere un fantoccio, ma non lo è, perché è stato qui due mesi fa e nessuno è riuscito a dimenticarselo. Dev'essere per questo che è diventato la mia illusione ricorrente, perché si parla ancora di ciò che ha detto Sánchez, di ogni suo gesto, persino del tipo di bicchiere in cui ha bevuto. Anche perché ogni volta che il Ministro appare in televisione, lì, al suo fianco, c'è sempre Sánchez, a figura intera o di scorcio. Così, si passa persino il tempo a caccia di un braccio, di una spalla, di un pezzo qualsiasi dell'uomo di fiducia, l'archivio del capo, l'individuo che il Ministro cerca come appoggio in mezzo a quella giungla di teste e l'unico con cui scherza in mezzo alla sua grande solitudine di Ministro. Allora è logico che io non smetta di sognare che Sánchez venga e mi dica: è arrivata la tua ora, è arrivata la tua ora. La masturbazione mentale si trasforma in un vizio molto più contagioso quando fa effetto. E Sánchez ha già fatto effetto da solo, anche fuori dalla mia testa. È un uomo di potere, un tipo forte, autentico e autonomo. Così viene verso di me nei miei sogni. Viene dall'Avana, a bordo di un pullman Yutong senza freni, appoggiato docilmente allo schienale del sedile davanti, ossessionato da me: mi pensa ed è determinato a salvarmi perché sa quanto posso offrire al paese. | << | < | > | >> |Pagina 137È una Cuba stranamente piovosa e fredda quella che agli inizi del 2009, festeggiati i 50 anni della sua Rivoluzione, entra nel secondo mezzo secolo di regime castrista. Il líder máximo, anziano e malato, non compare in pubblico dal suo parziale ritiro il 31 luglio 2006 e ha cessato i chilometrici discorsi e le straripanti presenze televisive. I cubani si sono ormai abituati alle sue resurrezioni sporadiche e impallidite, con una foto durante la visita di qualche capo di Stato, e alle "riflessioni" che pubblica sul "Granma" (organo del Comitato centrale del Partito comunista cubano, di cui è ancora Primo segretario), firmate con il nome modesto di compañero Fidel, miscele di ricordi e attualità in cui si propone come padre morale della patria. Il possibile impatto destabilizzante della sua dipartita è stato abilmente ammortizzato in modo preventivo. Chi compare è il fratello Raúl Castro, che ebbe in consegna gli incarichi di maggior rilievo ed è stato eletto Presidente il 24 febbraio 2008. All'inizio il cambio della guardia, per quanto relativo, destò speranze. Raúl volle mostrarsi come pragmatico gestore di possibili cambiamenti, capace di riconoscere magagne e assurdità del sistema, avviare discussioni aperte e proporre riforme significative. Ma la delusione non ha tardato ad arrivare. La sua azione si è ridotta finora a piccole misure palliative, appena simboliche. Poi ha annunciato nuove austerità e controlli, rinviando tutto al VI Congresso del Partito comunista cubano, previsto entro il 2009. Nel suo discorso a Santiago di Cuba per il cinquantenario, non ha taciuto il rischio che il socialismo cubano crolli e si autodistrugga. Ha esortato i futuri dirigenti a resistere, preservando l'opera della Rivoluzione, e a non lasciarsi tentare dal canto di sirena del nemico, che sarà sempre aggressivo, traditore e malintenzionato. Ma per il momento la decrepita generazione storica di 50 anni fa non ha ceduto le leve del potere. A inizi marzo 2009, Raúl, con il beneplacito del fratello maggiore, ha ordinato un vistoso rimpasto di governo, specie nei settori dell'economia e degli affari esteri, e la destituzione di parecchi alti funzionari. Due nomi eccellenti, Carlos Lage e Felipe Pérez Roque, già vicinissimi a Fidel e indicati come possibili protagonisti della successione (il primo agiva come coordinatore del governo e il secondo, portavoce internazionale, era considerato il capofila dei giovani "talebani" ortodossi), sono stati rimossi con accuse di ambizione e indegnità. Raúl ha scelto quadri a lui più consoni, ristrutturando i ministeri verso un'istituzionalizzazione vigilata del processo decisionale, al limite della militarizzazione. I maggiori successi di Raúl, un po' come avveniva per Fidel, sono quelli di politica estera: pieno inserimento dell'isola nell'America Latina progressista, non solo grazie all'alleato di ferro Hugo Chávez, e ottimi rapporti con Cina e Russia e vari Stati del sud del mondo. Il quadro economico è invece disastroso, segnato dal dirigismo centralistico, le pastoie di una burocrazia abnorme, il peculato e le malversazioni, la mancanza di incentivi e diritti di proprietà. L'isola vive prevalentemente di servizi per il Venezuela di Chávez, turismo e rimesse degli emigrati. La povertà è diffusa: gli esigui salari e le ancor più basse pensioni non coprono le esigenze base delle famiglie e gli alimenti distribuiti con il razionamento sono del tutto insufficienti. I livelli di istruzione e sanità sono precipitati, con strutture fatiscenti e i migliori maestri e medici impegnati in Venezuela a cambio di petrolio. Tra agosto e settembre 2008, la situazione si è aggravata per il devastante passaggio degli uragani Gustav e Ike, che hanno provocato perdite ingentissime, distruggendo metà dei raccolti e molti allevamenti e danneggiando mezzo milione di case. Da allora i mercati sono spesso vuoti.
La pur palese incidenza in tale contesto dell'embargo statunitense
(esecrabile e infatti condannato ogni anno in sede Onu) non è
probabilmente decisiva, sia perché a lungo compensato dalle enormi
sovvenzioni sovietiche (e ora da quelle venezuelane), sia perché ripetutamente
aggirato. La colpa più grave dell'embargo, il cui fallimento è riconosciuto
ormai anche negli USA, è stata forse proprio quella
di fornire un eterno alibi per giustificare il soffocante monolitismo
chiuso al dialogo e la repressione di qualunque discrepanza. Ora la
speranza di molti, dopo i deprimenti anni di George W. Bush, è rivolta al nuovo
corso di Barack Obama, che ha già ammorbidito alcune misure restrittive nei
confronti di Cuba ed è interessato a riformulare i rapporti tra gli USA e
l'America Latina.
Un indicatore sempre positivo a Cuba è quello dell'alto numero di
laureati, autentico tesoro del paese. E l'abbondanza di talento anima la vita
culturale anche in mezzo a tante ristrettezze. Durante gli
"anni zero" si è affacciata perentoriamente alla scena letteraria la seconda
generazione nata e cresciuta nell'era rivoluzionaria. Una generazione che è
stata, fin dall'adolescenza o dalla prima giovinezza,
sotto gli effetti dirompenti del
período especial,
un eufemismo locale per indicare l'emergenza seguita al crollo del Muro di
Berlino (e dunque del blocco politico-economico in cui Cuba era inserita),
emergenza che da provvisoria è diventata infinita. Conoscono perciò molto da
vicino la penuria di beni di prima necessità, i trasporti deficitari, il mercato
nero e la microcriminalità, il ritorno della
prostituzione, il nepotismo e la corruzione, la rete poliziesca capillare, la
scarsa offerta di librerie e cinema, il dissenso zittito e incarcerato, la
doppia valuta e la doppia morale.
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