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| << | < | > | >> |IndiceElogio di Alberto Manguel di Enrique Vila-Matas 5 Elogio della Bibbia 13 Elogio del libro tascabile 19 Elogio del libraio 25 Elogio della fiera del libro 41 Elogio dell'orrore 47 Elogio dei racconti per bambini 51 Elogio del piacere 57 Elogio del regalo 63 Elogio della lingua spagnola 69 Elogio degli animali 73 Elogio dell'impossibile 79 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Si racconta che i primi cristiani, per trasportare con discrezione i testi della loro nuova religione, decidessero di ripiegare l'ingombrante rotolo di papiro romano riducendolo così a un libro tascabile. Se siano stati loro, o se sia stato Giulio Cesare, che sembra inviasse così le sue cronache ai corrispondenti, poco importa, ma quel pratico gesto si è meritato la gratitudine di centinaia di milioni di lettori. Gli alti codici rilegati del Medioevo e del Rinascimento, alcuni enormi al punto d'aver bisogno di ruote per il trasporto, altri aristocraticamente alteri dopo travagliate legature, obbligavano il lettore a una certa distanza gerarchica; gli ottavi, d'uso corrente a partire dal XVIII secolo, mantennero un po' di quell'altero prestigio. Tale prestigio, horresco referens, permane ancora oggi nella maggior parte dei supplementi letterari, fra i quali costituisce una chiara eccezione «Babelia», di Madrid. Un libro tascabile, così sembrano credere i critici, non è un libro ma un sottoprodotto del libro, plebeo e svilito e rifiutano di recensirlo. I lettori, naturalmente, sanno che non è così, che le virtù di un libro, ben al di là delle parole che contiene, risiedono nella sua capacità di accompagnarci, di essere discreto, di piegarsi alle nostre esigenze e ai nostri capricci, di non abbandonarci mai per ragioni di peso o di costo o di spazio. L'essere «tascabile», per quel che riguarda un libro, è una qualità che lo trasforma in una parte del nostro corpo, come sarà, una volta che l'avremo letto (è sant'Agostino a dirlo), parte del nostro spirito. Per quei primi cristiani, il libro tascabile doveva contenere, già nella sua stessa forma, la promessa di comunione. | << | < | > | >> |Pagina 25Un po' confuse nell'aspetto generale e tuttavia precise nei loro più intimi dettagli, le librerie del mio passato possiedono un'assoluta e tangibile realtà. Nei miei sogni o nella mia memoria, le loro molteplici forme si confondono le une con le altre. Le loro porte si aprono su magiche caverne di Ali Babà, i loro scaffali percorrono ansiosamente lunghi muri tenebrosi, il legno si oscura o s'illumina misteriosamente, mentre i librai avanzano verso di me mutando volto, abito, voce, pettinatura, e mi raccomandano libri che non ho letto, con tono amabile o altezzoso. Chi decidesse di farlo, può ricostituire la vita di un lettore in più modi differenti: scorrendo i libri della sua biblioteca, studiando le pile di volumi ammonticchiati sul suo comodino, decifrando le note scritte a margine, come Pollicino che segue la traccia dei sassolini bianchi nel bosco. Posso ricostruire la mia vita di lettore seguendo l'una o l'altra di queste file di ciottoli, ma anche, e forse con maggior successo, tornando sui miei passi attraverso le innumerevoli librerie che ho conosciuto nel corso degli anni. Alcune esistono ancora, come quelle vecchie querce che restano in piedi nel mezzo di un bosco devastato; altre sono state distrutte dal tempo o dalle intemperie; altre infine si sono trasformate, per fortuna o per disgrazia, al punto di non essere più riconoscibili. Al di là delle frontiere linguistiche e geografiche, e al di là del tempo, i chilometri di scaffalature che ho percorso sembrano infiniti se penso ai tesori recuperati nel corso di quei numerosi viaggi. Robert Louis Stevenson ha osservato che la destinazione di un viaggio importa meno del viaggio stesso, e che il viaggiatore autentico è quello che viaggia senza meta. Quasi sempre questa è stata la mia intenzione durante i miei giri nelle librerie. E anche nei casi in cui la mia escursione si prefiggeva una meta ben definita, quella di trovare tale o tal altro libro, la varietà offerta alla mia bramosia (varietà che è l'essenza stessa di una libreria) mi distraeva implacabilmente da quel proposito iniziale. Odio le librerie arroganti dove i libri sono riposti in pile ordinate dietro a un bancone che impedisce al cliente l'accesso al Paradiso, librerie in cui dobbiamo richiedere il titolo scelto e dove ci consegnano quel libro, e quello soltanto, tratto dal fondo oscuro di un deposito da un arcangelo vetusto e severo. Ricordo librerie di questo genere a Buenos Aires, soprattutto una che vendeva col contagocce manuali scolastici. E mi dicono che in Russia, prima della perestroika, era così che i librai vendevano le loro avare copie. Sono molte le mie librerie. Siccome l'incarico d'ambasciatore di mio padre ci aveva condotti in Israele poco dopo la mia nascita, la mia prima libreria si trovò a Tel Aviv. La ricordo dalla statura dei miei quattro o cinque anni: una porta di legno scuro, uno stretto corridoio tappezzato di libri che si innalzavano fino al soffitto. Per forza di cose, il mio interesse era concentrato sugli scaffali più bassi, dal momento che già allora come adesso non volevo che nessuno mi aiutasse nelle mie ricerche. Gran parte del piacere consisteva nel perdermi da solo in quelle foreste polverose: ho imparato molto precocemente che i veri lettori non amano cacciare in branco. | << | < | > | >> |Pagina 41Circa duemila anni fa, íl poeta Marziale, per prendersi gioco di quanti accumulano libri senza leggerli, descrisse la via dei Librai a Roma, di fronte al Foro di Cesare, dove era possibile vedere annunciati i nomi dei poeti le cui opere erano disponibili fra le ultime novità. Gli avvisi ricoprivano gli androni: Marziale riteneva che la selezione fosse assurdamente vasta. Che cosa avrebbe detto allora delle migliaia e migliaia di autori i cui nuovi titoli invadono gli spazi delle fiere del libro attorno al globo? Come in un bazar o in un cimitero, gli editori innalzano stand o mausolei per esporre i loro nuovi prodotti o le loro nuove reliquie: in tali fiere, la durata di un libro interessa meno della sua novità. Assimilando la vendita di libri alla vendita di pane e di formaggio, gli editori anglosassoni parlano adesso di the shelf-life of a book, la sua durata sugli scaffali, dando luogo a liste di bestseller che si tramutano di settimana in settimana nell' ubi sunt delle nostre letterature. | << | < | > | >> |Pagina 57La mia biblioteca è una sorta di autobiografia. Nel proliferare degli scaffali vi è un libro per ogni istante della mia vita, per ogni amicizia, per ogni delusione, per ogni cambiamento. Segnano i miei anni come le pietre bianche che indicano la strada di un pellegrino. Un'annotazione sul margine, una macchia di caffè, un biglietto del tram dimenticato servono a segnalare antichi anniversari. La mia copia del Don Chisciotte (in due volumi, curato da Isaías Lerner e Celina S. de Cortàzar, con illustrazioni di Roberto Páez, pubblicato dall'amata e compianta Eudeba, vittima come tante buone cose della dittatura militare) mi riporta al mio Colegio Nacional di Buenos Aires, alle affascinanti lezioni di letteratura spagnola in cui lo stesso Lerner, brillante erudito, ci comunicava la sua passione per la lettura lenta, insegnandoci a indugiare su un testo fino a conoscere a memoria la sua accogliente geografia. Lerner ci ha insegnato a diventare amici dei classici, a sentirli intimi senza lasciarci intimidire. La cronaca di quegli anni è tracciata nel mio Garcilaso, nella mia Celestina, nel mio Gonzalo de Berceo, nel mio Arcipreste de Hita. La mia amicizia con loro data da quelle lezioni. Il mio piacere della lettura è ancora più antico. Racconti, leggende, avventure, le vite ricche e rischiose del Capitano Nemo, di Sherlock Holmes, di Renart la volpe e del Gatto con gli stivali, di Robinson Crusoe, di Pinocchio, di Narizinho, e di tanti altri che ho conosciuto tra le pagine di un libro, sono stati miei fin da prestissimo. Due aspetti della lettura mi davano piacere soprattutto: conoscere la conclusione dei loro viaggi e poterla dimenticare quando riaprivo il libro ancora una volta. Una delle meraviglie della lettura, comune nei bambini e nei lettori di una certa età, è la ripetizione. I teologi hanno decretato che neppure Dio può ripercorrere il passato; tale potere negato a qualsiasi Autore appartiene tuttavia a ogni lettore disposto a ritornare alla prima pagina di un racconto. Piacere del dialogo con antichi illuminati, piacere dell'avventura straordinaria. Ancora, e non minore, piacere dell'esperienza indiretta, vissuta da un altro soltanto per noi. Vivere nell'Inghilterra di Dickens, nella Madrid di Galdós, nella Sicilia di Pirandello; assistere alle scoperte di Fabre e di Plinio; sentire la passione di Medea, la desolazione di Törless, la ribellione di Montag, la tristezza di Pel di carota – essere, per un momento, quel che hanno sognato di essere quelle creature soavemente immortali. Vivere l'impossibile: perdermi nell'oscuro piacere degli incubi di Bioy Casares, di Stevenson, di Wells, di Silvina Ocampo, di Cortázar, di Tibor Déry, di Kobo Abe.
A volte, la funzione dei miei libri è rivelatrice.
Leggere per la prima volta Benjamin, sir Thomas
Browne, Chesterton, Calasso, Vila-Matas ed essere
guidato attraverso un luminoso labirinto di idee che
sembra costruito per aiutarmi a pensare, diventa per
me un'esperienza equivalente all'illuminazione di cui
parlano i sapienti. In quelle sere epifaniche il piacere è puramente e
profondamente intellettuale, un atto di cui le nostre società oggi disprezzano
il valore.
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