|
|
| << | < | > | >> |Pagina 7Quella notte, quando erano venuti per compiere la loro sacra missione, era stata molto calma. Solo più tardi, il più giovane dei quattro uomini, quello che si chiamava Farid, aveva ricordato che neppure i cani avevano reagito abbaiando. Anche loro erano stati avvolti dalla dolcezza della notte e dalla debole brezza che soffiava dal deserto. Avevano aspettato il calare delle tenebre. L'auto che li aveva portati dalla lontana Algeri a Dar Aziza, il punto di incontro, era una vecchia carretta con le sospensioni agonizzanti. L'autista non aveva aperto bocca per tutto il viaggio. Erano stati costretti a interrompere il viaggio due volte. La prima per una foratura alla ruota posteriore sinistra, quando non erano ancora arrivati a metà strada. Farid, che non aveva mai messo piede fuori dalla capitale, si era seduto appoggiandosi a un masso ai bordi della strada. Era rimasto a fissare affascinato l'immenso cielo stellato mentre gli altri erano indaffarati intorno all'auto. Il copertone che non aveva praticamente più battistrada aveva ceduto a un paio di chilometri a nord di Bou Saada. Ebbero non pochi problemi a svitare í bulloni arrugginiti e a montare la ruota di scorta. Dagli spezzoni di conversazione degli altri, Farid aveva capito che erano in ritardo e che non avrebbero avuto il tempo di fermarsi per mangiare. Avevano ripreso il viaggio. Non lontano da El Qued, il motore si era fermato di colpo. Persero quasi un'ora prima di riuscire a localizzare il guasto e ripararlo. Il loro capo, un uomo alto e pallido sulla trentina con una corta barba, aveva negli occhi quell'intensità e fervore che solo chi era stato chiamato dal Profeta poteva avere. Farid non sapeva il suo nome. E conoscendo le regole di segretezza non si era nemmeno sognato di chiedere chi fosse e da dove venisse. Non sapeva neppure i nomi degli altri due. Conosceva solo il proprio nome. L'auto era ripartita. Il buio si era fatto più intenso. Avevano dell'acqua da bere ma niente da mangiare. Quando finalmente arrivarono a El Qued tutto era calmo intorno. Si erano addentrati nel labirinto di strade anguste e si erano fermati vicino alla piazza del mercato. Appena scesero, l'auto scomparve. La figura di un uomo era apparsa come dal nulla. Senza parlare, aveva fatto un cenno al loro capo e i quattro lo avevano seguito. Fu solo allora, mentre camminavano veloci nel buio di strade sconosciute, che Farid aveva iniziato a pensare seriamente a quello che avrebbero fatto entro breve tempo. Portò la mano sul manico del coltello a lama curva che teneva in una tasca dell'ampio caffettano. Era stato suo fratello, Rachid Ben Mehidi, a parlargli per la prima volta degli stranieri. Notte dopo notte, erano rimasti seduti sul tetto piatto della casa paterna a parlare e a guardare la distesa luccicante di Algeri. Farid sapeva che suo fratello era profondamente impegnato nella lotta per trasformare il loro paese in uno stato islamico che non avrebbe seguito altre leggi se non quella del Profeta. E ogni notte gli parlava di quanto era importante che tutti gli stranieri fossero cacciati dal loro paese. All'inizio Farid si era sentito lusingato che suo fratello gli parlasse di politica. Anche se in un primo momento non aveva capito tutto quello che gli diceva. Fu solo più tardi che si rese conto che aveva un motivo ben preciso per dedicargli tanto tempo. Voleva che Farid partecipasse alla cacciata degli stranieri dal paese. Era passato più di un anno da allora. E ora, mentre Farid seguiva i quattro uomini vestiti di nero attraverso i vicoli bui dove l'aria tiepida della notte era completamente immobile, ebbe la certezza che avrebbe finalmente esaudito il desiderio di Rachid. Gli stranieri dovevano essere cacciati. Ma non li avrebbero scortati fino alle navi o agli aerei. Sarebbero stati uccisi. E quelli che non erano ancora entrati nel paese ci avrebbero pensato due volte prima di farlo. La tua è una missione sacra, Rachid aveva ripetuto infinite volte. Il Profeta ne gioirà. Quando saremo riusciti a trasformare questo paese così come Lui lo vuole, il tuo futuro diventerà luminoso. Farid strinse con forza il manico di avorio intarsiato del coltello. Rachid glielo aveva dato la sera prima quando si erano salutati sul tetto della casa del padre. Arrivati alla periferia della città, si fermarono. Il vicolo sfociava in una piazza. Il cielo stellato sopra di loro era chiaro. Rimasero nell'ombra, addossati al muro di una casa con le persiane abbassate. Dall'altro lato della piazza, al di là di un'alta inferriata, c'era una villa dai muri di pietra. L'uomo che li aveva guidati fin là scomparve silenziosamente fra le ombre. Erano di nuovo in quattro. Tutt'intorno era il silenzio e la calma più assoluta. Farid non aveva mai provato una simile sensazione ad Algeri. Nei suoi diciannove anni di vita non era mai stato avvolto da un tale silenzio. Neppure i cani, pensò. Neppure i cani sembrano volere rompere questo sacro silenzio. Alcune finestre della villa davanti a loro erano illuminate. Improvvisamente udirono il rumore di un motore. I fari asimmetrici di un autobus vetusto illuminarono la piazza per poi sparire verso il centro del paese. Tornò il silenzio. La luce a una delle finestre si spense. Farid cercò di calcolare quanto tempo fosse passato da quando erano arrivati nella piazza. Forse una buona mezz'ora. Aveva fame. Non aveva mangiato niente tutto il giorno. Le due bottiglie d'acqua che avevano portato con loro erano ormai vuote. Si sentiva la gola arsa. Ma non avrebbe chiesto nulla. L'uomo che li comandava si sarebbe adirato. Stavano compiendo una missione sacra, e soffrire la fame e la sete era una prova della loro fede. Un'altra luce si spense. Qualche minuto dopo anche l'ultima finestra piombò nel buio. Continuarono ad aspettare. Poi, il loro capo fece un cenno con la mano e attraversarono rapidamente la piazza. Un vecchio con un bastone in mano dormiva appoggiato al cancello della villa. Una sorta di guardia, pensò Farid. Il loro capo lo toccò con un piede. L'uomo non fece in tempo ad aprire gli occhi che il capo si chinò su di lui tenendo il suo coltello sulla guancia dell'uomo. Il capo bisbigliò qualcosa all'orecchio del vecchio. L'uomo si alzò, Farid capì dai suoi movimenti rigidi che l'uomo era paralizzato dalla paura. Il capo fece un cenno quasi impercettibile con la testa e l'uomo si allontanò zoppicando. Spinsero il cancello che cigolò leggermente ed entrarono nel giardino. L'aria era pervasa da un forte profumo di gelsomino misto a quello di spezie delle quali Farid non riusciva a ricordare il nome. Tutto era sempre avvolto nel silenzio. Sull'alta porta di ingresso della villa era affissa una targa in ottone con le parole: Ordine delle sorelle cristiane. Farid cercò di capire cosa quelle parole significassero. In quello stesso istante qualcuno appoggiò una mano sulla sua spalla. Farid trasalì e si volse. Era il capo. Gli parlava per la prima volta, così sottovoce che neppure la brezza notturna poteva sentire quello che stava dicendo. «Siamo quattro» sussurrò. «Anche in quella casa sono quattro. Dormono, una in ogni camera. Le camere sono una di fronte all'altra in un corridoio. Sono vecchie e non opporranno resistenza.» Farid osservò gli altri due uomini. Avevano qualche anno più di lui. Farid ebbe la sensazione che a differenza di lui non fosse la loro prima missione. Ma si sentiva calmo. Rachid gli aveva promesso che quello che avrebbe fatto era nel nome del Profeta. Il capo lo fissò, come se gli avesse letto nel pensiero. «Quattro donne vivono in questa casa» bisbigliò. «Sono delle straniere che hanno rifiutato di lasciare il nostro paese di propria volontà, quindi devono morire. Inoltre sono cristiane.» Ucciderò una donna, pensò Farid. Questo Rachid non glielo aveva detto. E doveva averlo fatto per un solo motivo. Non aveva alcuna importanza. Non faceva alcuna differenza. Entrarono nella casa. Non avevano avuto problemi a forzare la semplice serratura. All'interno, l'aria era calda e stagnante. Uno di loro accese una torcia elettrica e illuminò la scala che portava al piano superiore. Il corridoio era illuminato dalla debole luce di una lampada. Avanzarono in un silenzio di tomba. Rimasero immobili un istante a osservare le quattro porte chiuse. Ognuno di loro aveva estratto il proprio coltello. Il capo mosse la testa come aveva fatto con il vecchio davanti al cancello. È venuto il momento, pensò Farid. Ora non devo avere un attimo di esitazione. Rachid gli aveva detto che doveva agire con rapidità, evitare di fissare gli occhi, concentrarsi invece sulla gola e tagliare con un movimento rapido e sicuro. Dopo, il ricordo di come tutto si era svolto era stato molto vago e indistinto. Forse la donna stesa sul letto sotto un lenzuolo bianco aveva i capelli grigi. Nella debole luce del lampione i lineamenti del suo volto erano rimasti confusi. Quando Farid aveva scostato il lenzuolo, la donna aveva subito aperto gli occhi. Ma prima che avesse il tempo di gridare o di capire cosa stesse succedendo, con un singolo movimento Farid le aveva tagliato la gola facendo un passo all'indietro per evitare che il sangue gli macchiasse il caffettano. Poi, senza guardarla, si era girato ed era uscito dalla stanza. Non erano passati più di trenta secondi. Involontariamente li aveva contati nella sua mente. Si avviò nel corridoio seguendo due degli altri quando udirono la voce bassa del quarto. Si fermarono come paralizzati. C'era un'altra donna in una delle camere. Una quinta donna. Secondo le loro informazioni, non avrebbe dovuto essere in quella casa. Era un'estranea, forse in visita. Ma anche lei era straniera, disse l'uomo che l'aveva scoperta. Il capo entrò nella stanza. Farid che era dietro di lui vide che la donna si era raggomitolata in posizione fetale. La sua paura sembrava vibrare nell'aria. Farid non riuscì a evitare un nodo alla gola. Sull'altro letto giaceva il corpo di un'altra donna. Il lenzuolo era impregnato di sangue. Poi, con un movimento rapido il capo si avvicinò al letto e tagliò la gola della quinta donna. Uscirono dalla casa inosservati così come vi erano entrati. L'auto li stava aspettando in una delle stradine buie. Al sorgere dell'alba erano ormai lontani da El Qued e dai corpi delle cinque donne.
Era il mese di maggio del 1993.
La lettera arrivò a Ystad il 19 agosto. Aveva notato il timbro postale e il francobollo dell'Algería e pensando che fosse una lettera di sua madre aveva aspettato ad aprirla. Le piaceva leggere le sue lettere con calma. Dallo spessore della busta dovevano essere molte pagine. Non aveva avuto notizie da sua madre per tre mesi e certamente aveva molto da raccontarle. Posò la busta sul tavolino del soggiorno.
Avrebbe aspettato la notte, quando tutto fosse più tranquillo.
Non riusciva però a evitare un vago senso di inquietudine.
Perché questa volta sua madre aveva scelto di scrivere nome
e indirizzo a macchina? Scrollò il capo. Certamente la spiegazione era nella
lettera. Poco prima di mezzanotte aveva aperto
la porta del balcone e si era seduta sulla sedia a sdraio fra le
piante. Era una bella e calda serata di fine agosto. Forse una
delle ultime di quell'anno. L'autunno scandinavo era poco
lontano, in attesa. Aprì la busta e iniziò a leggere.
Solo dopo, quando aveva letto la lettera fino all'ultima riga e l'aveva posata, incominciò a piangere. Capì subito che la lettera era stata scritta da una donna. Non era stata solo la grafia a convincerla, era stato anche qualcosa nella scelta delle parole. Lo stile con il quale una donna sconosciuta aveva cercato di comunicarle nel modo più gentile possibile quell'orribile fatto. Ma niente aveva più valore o significato. Rimaneva solo quello che era accaduto. Niente altro. La donna che aveva scritto si chiamava Françoise Bertrand e apparteneva al corpo di polizia. Senza che lo avesse scritto chiaramente si capiva che aveva una qualche funzione nella commissione massacri algerina. Era per questo che si era interessata di quello che era successo una notte di maggio nella città di El Qued, a sud-ovest di Algeri. Così come erano descritte, le circostanze sembravano chiare ed evidenti e totalmente agghiaccianti. Quattro suore di nazionalità francese erano state assassinate da ignoti. Con tutta probabilità da quei fondamentalisti che avevano deciso di cacciare dal paese tutti gli stranieri. In quel modo lo stato si sarebbe indebolito fino ad autodistruggersi. Dal vuoto di potere che si sarebbe venuto a creare sarebbe così nato uno stato fondamentalista. Le quattro suore erano state sgozzate, gli assassini non avevano lasciato tracce, solo sangue, dappertutto solo sangue scuro coagulato. Ma era stata trovata una quinta donna, una turista svedese che aveva rinnovato svariate volte il suo permesso di soggiorno nel paese e che per puro caso aveva fatto visita alle suore ed era rimasta a dormire da loro proprio quella notte, quando quegli uomini sconosciuti erano entrati nella casa con i loro coltelli. Dal passaporto che avevano trovato nella sua borsetta avevano saputo che si chiamava Anna Ander, che aveva sessantasei anni e che risiedeva legalmente nel paese. Avevano inoltre trovato un biglietto aereo aperto per la Svezia. Vista la gravità dell'uccisione delle quattro suore e dato che Anna Ander viaggiava sicuramente da sola, gli investigatori avevano deciso per motivi politici di ignorare la quinta donna. Non era mai stata in quella casa in quella notte nefasta, non aveva occupato nessun letto. L'avevano invece fatta morire in un incidente d'auto e l'avevano seppellita in una tomba senza nome nel deserto. Tutte le sue cose e le sue tracce erano state raccolte e fatte sparire. Era stato a quel punto che Françoise Bertrand era entrata in scena. Era stata chiamata una mattina presto dal suo capo, scriveva nella lunga lettera, e le era stato ordinato di recarsi immediatamente a El Qued. La donna era già stata sepolta nel deserto. A Françoise Bertrand era stato affidato il compito di eliminare ogni eventuale traccia residua e di distruggere il passaporto e tutti i suoi averi. Anna Ander non era mai arrivata né aveva mai soggiornato in Algeria. Cancellata da tutti i registri ufficiali avrebbe così smesso di essere un problema algerino. Ma nella casa di El Qued, Françoise Bertrand aveva trovato una borsetta che nella loro fretta gli investigatori sbadati che l'avevano preceduta non avevano scoperto. L'aveva trovata dietro a un armadio senza riuscire a capire come avesse potuto esserci finita. Nella borsetta c'era una lettera che Anna Ander aveva iniziato senza sapere che non sarebbe mai riuscita a finirla. Una lettera indirizzata a sua figlia che viveva in una città chiamata Ystad nella lontana Svezia. Françoise Bertrand si scusava per avere letto quella corrispondenza privata. Si era fatta aiutare da un artista svedese alcolizzato che conosceva ad Algeri, che gliel'aveva tradotta, senza immaginare di cosa si trattasse. Aveva letto e riletto quelle poche righe e non aveva potuto fare a meno di sentire un acuto senso di rimorso per quello che era successo a quella quinta donna. Non solo per il fatto che fosse stata assassinata così brutalmente in Algeria, quella terra che Françoise amava con tutta la sua anima, quella terra ferita e lacerata da conflitti interni. Nella sua lettera aveva anche cercato di spiegare cosa succedeva nel suo paese e aveva anche parlato di sé. Suo padre era nato in Francia ma la sua famiglia si era trasferita in Algeria quando era ancora bambino e lì era cresciuto. Aveva sposato un'algerina e Françoise, che era la loro primogenita, si era sentita per lungo tempo divisa tra la Francia e l'Algeria senza capire esattamente a quale paese appartenesse. Ma col tempo, il periodo di incertezza era svanito e Françoise Bertrand non aveva più avuto dubbi. L'Algeria era la sua terra. E i contrasti che stavano lacerando il suo paese le procuravano un acuto senso di sofferenza. Ed era anche per questo che non voleva svilire ancora di più né il proprio paese, né se stessa, contribuendo a fare sparire quella donna, trasformando la verità in un inesistente incidente d'auto e pretendendo che Anna Ander non fosse mai stata in Algeria. Tutto ciò le aveva impedito a lungo di dormire, scriveva Françoise Bertrand. Alla fine la sua coscienza aveva prevalso, aveva messo da parte la sua lealtà per il corpo di polizia e si era decisa a scrivere alla figlia di quella donna per dirle tutta la verità. L'unica cosa che chiedeva in cambio era che il suo nome non fosse mai rivelato. Quello che scrivo è la pura verità, aveva scritto. Forse sbaglio a raccontare tutto questo. Ma non potevo più vivere normalmente con questo peso. Ho trovato una borsetta con dentro una lettera che una donna ha scritto a sua figlia. Ho sentito che era mio dovere inviartela e raccontare come ne sia venuta in possesso. Questo è tutto. Oltre alla lettera, Françoise Bertrand aveva messo nella busta il passaporto di Anna Ander. Ma la figlia non aveva letto quella lettera che non era mai stata finita. L'aveva posata sul balcone e aveva pianto a lungo. Solo all'alba si alzò e andò in cucina. Rimase seduta per molto tempo, immobile, la mente vuota. Ma poi aveva iniziato a pensare. Improvvisamente tutto le sembrò chiaro. Si rese conto che tutti quegli anni erano stati una lunga attesa. Non lo aveva mai capito prima. Non si era mai resa conto né che stava aspettando né quale fosse l'oggetto di quell'attesa. Ma ora sapeva. Aveva una missione e non era più costretta a esitare per portarla a termine. Ora era arrivato il momento giusto. Sua madre non c'era più. Una porta si era aperta completamente. Si alzò e andò a prendere le strisce di carta e il libro che erano in una scatola sotto il letto. Tornò in cucina e posò tutto sul tavolo. Sapeva che vi erano esattamente quarantatré strisce di carta. Su una sola di queste aveva tracciato una croce nera. Iniziò a piegare le strisce metodicamente, una dopo l'altra. La croce era sulla ventisettesima. Aprì il libro e fece scorrere l'indice sulla lista di nomi. Fissò il nome che lei stessa aveva scritto e lentamente i contorni di un viso si formarono nella sua mente. Chiuse il libro e lo ripose insieme alle strisce di carta nella scatola. Sua madre era morta. Le sue esitazioni erano svanite. Non era più possibile tornare indietro. Decise di concedersi un anno. Per lasciare che il dolore si attutisse, e per fare tutti i preparativi necessari. Un anno e non un giorno di più. Tornò sul balcone. Accese una sigaretta e osservò la città che stava svegliandosi. Nubi nere di pioggia stavano avvicinandosi dal mare. Poco prima delle sei andò a dormire.
Era la mattina del 20 agosto 1993.
|