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| << | < | > | >> |Pagina 11Sempre, quando fa freddo, mi sento più solo. Il freddo fuori dalla finestra mi ricorda il freddo del mio stesso corpo. Sono attaccato da due direzioni. Ma resisto, contro il gelo e contro la solitudine. È per questo che ogni mattina faccio un buco nel ghiaccio. Se là fuori, nella baia gelata, ci fosse qualcuno a osservarmi con un binocolo, potrebbe credere che sono pazzo e che sto preparando la mia morte. Un uomo nudo, nel freddo gelido, con un'accetta in mano, che sta facendo un buco nel ghiaccio? In verità, forse spero che un giorno ci sia qualcuno lì fuori, un'ombra nera contro tutto il bianco, che mi vede e si chiede se avrà il tempo di intervenire prima che sia troppo tardi. Ma non è necessario salvarmi, dato che non ho intenzione di suicidarmi.
Un tempo, dopo la grande catastrofe, accadeva che la
disperazione e l'ira fossero così forti da farmi considerare di mettere fine ai
miei giorni. Ma non ci ho mai provato. La vigliaccheria è sempre stata mia
fedele compagna. Allora come oggi, penso che nella vita non bisogna
arrendersi. La vita è un fragile ramoscello sopra un abisso. Vi rimarrò appeso
finché ne avrò la forza. Poi cadrò giù, come tutti, e non so quello che mi
aspetta. Ci sarà qualcuno laggiù ad accogliermi? O sarà soltanto il buio
freddo e duro che mi correrà incontro?
Il ghiaccio è molto esteso. L'inverno è rigido quest'anno, all'inizio del nuovo secolo. Questa mattina, quando mi sono svegliato nel buio di dicembre, mi è sembrato di sentire il ghiaccio cantare. Non so come mi sia venuta l'idea che il ghiaccio possa cantare. Forse è stato qualcosa che mio nonno, che era nato su quest'isola, mi ha raccontato quando ero piccolo. Eppure mi sono svegliato nel buio a causa di un rumore. Non era il gatto, neppure il cane. Ho due animali che dormono più profondamente di me. Il mio gatto è vecchio e anchilosato, mentre il cane è completamente sordo dall'orecchio destro e dall'orecchio sinistro ci sente molto male. Posso passargli accanto senza che se ne accorga. Ma quel suono? Cercai di orientarmi nel buio. Ci volle un po' di tempo prima che capissi che doveva essere il ghiaccio che si muoveva, anche se nella baia era spesso più di dieci centimetri. La settimana scorsa ero più irrequieto del solito, e sono andato fino a dove il ghiaccio incontra il mare aperto. Era a un chilometro dal punto più esterno dell'isola, o forse più lontano. Perciò era impossibile che il ghiaccio potesse muoversi nella baia. Eppure si alzava e si abbassava, crepitava e cantava. Ascoltai quel suono e pensai che la vita era passata molto rapidamente. Ed eccomi qui. Un uomo di sessantasei anni, economicamente indipendente, che porta dentro sé un ricordo che lo tormenta senza sosta. Sono cresciuto in una povertà che oggi è difficile da immaginare. Mio padre era un cameriere sovrappeso, che spesso prendevano in giro, e mia madre cercava di far bastare il denaro che lui portava a casa. Sono riuscito a risalire da quel pozzo di povertà. Quando da bambino venivo qui in estate, non ero assolutamente consapevole del tempo che si restringe ineluttabilmente. A quei tempi i miei nonni erano attivi, non ancora condannati all'immobilità e all'attesa. Mio nonno puzzava di pesce, e a mia nonna mancavano molti denti. Anche se era sempre gentile, per me c'era qualcosa di spaventoso nel suo sorriso che si apriva in un buco nero. Poco fa mi trovavo nel primo atto. Ora è già iniziato l'epilogo.
Il ghiaccio cantava lì fuori nel buio e io mi chiedevo se
stessi per avere un infarto. Mi alzai e misurai la pressione. Tutto a posto,
pressione centocinquantacinque e novanta, polso normale, sessantaquattro
battiti. Cercai di capire se qualche parte del mio corpo fosse dolorante. La
gamba sinistra mi dava leggermente fastidio. Ma lo faceva sempre, e non avevo
motivo di preoccuparmi. Il ghiaccio lì fuori mi rendeva inquieto. Era come uno
strano coro di voci indistinte. Andai a sedermi in cucina ad aspettare l'alba.
Le travi di legno scricchiolavano. Forse a causa del gelo, o di un topo che si
muoveva attraverso passaggi segreti.
Il termometro fuori dalla finestra segnava diciannove gradi sotto lo zero. Oggi farò come tutti i giorni d'inverno. Metterò l'accappatoio, infilerò i piedi in un paio di stivali tagliati, prenderò l'accetta e andrò giù al pontile. Non ci vuole molto a fare un buco, perché lì il ghiaccio non è così spesso. Mi tolgo l'accappatoio e mi immergo nell'acqua scura. Fa male, ma quando esco è come se il gelo si trasformasse in calore intenso. Scendo nel mio buco nero per sentire che sono ancora vivo. Dopo mi sembra che lentamente la solitudine perda di intensità. Forse un giorno quando scenderò nel mio buco morirò. Dato che tocco il fondo con i piedi, non sparirò sotto lo strato di ghiaccio. Rimarrò immobile e il ghiaccio si richiuderà intorno a me. Sarà Jansson, che consegna la posta qui fra le isole, a trovarmi. Per quanto a lungo vivrà, Jansson non riuscirà mai a capire cosa sia successo. Ma non mi importa. Qui su quest'isola che ho ereditato ho trasformato la mia casa in una fortezza inespugnabile. Quando salgo dietro sulla collina, posso vedere il mare. Qua e là si intravedono solo scogli, dorsi neri e scivolosi che spuntano dalla superficie dell'acqua o del ghiaccio. Se guardo dalla parte opposta, l'arcipelago si fa più fitto. Ma non vedo una casa, da nessuna parte, solo la mia. | << | < | > | >> |Pagina 70Procedemmo.Pensavo a dove avremmo potuto pernottare. Il crepuscolo non era ancora iniziato, ma preferivo non guidare con il buio. Da un po' di anni vedevo male di sera. Nella sua monotonia il paesaggio aveva una bellezza particolare. Attraversavamo spazi in cui non accadeva quasi nulla. Naturalmente era un'illusione. Succede sempre qualcosa che rompe la monotonia. Avevamo appena passato una collina quando notammo un cane fermo sul ciglio della strada. Frenai per non investirlo, nel caso si fosse messo improvvisamente a correre in mezzo alla strada. Dopo che lo avevo sorpassato, Harriet disse che aveva il collare. Alzai lo sguardo sullo specchietto retrovisore e vidi che ci correva dietro. Frenai di nuovo e ci raggiunse. «Ci sta seguendo» dissi. «Credo che sia stato abbandonato.» «Cosa te lo fa pensare?» «Di solito i cani che corrono dietro alle macchine abbaiano.» Harriet aveva ragione. Accostai, il cane si fermò e si accucciò sulle zampe posteriori con la lingua penzoloni. Quando abbassai il finestrino e allungai una mano non si mosse. Vidi che sul collare c'era una piastrina con un numero di telefono. Harriet prese il suo cellulare e compose il numero. Al primo segnale me lo passò. Ma non rispose nessuno. «Non c'è nessuno.» «Se ripartiamo, ci seguirà correndo finché non gli scoppierà il cuore.» Harriet riprese il cellulare e compose un altro numero. Aveva chiamato il servizio informazioni abbonati. «Il numero di telefono è di una certa Sara Larsson che abita a Rödjebyn, in una fattoria chiamata Högtunet. Abbiamo una cartina?» «Sì, ma non è così dettagliata.» «Non possiamo lasciarlo sulla strada.» Scesi e aprii la portiera posteriore. Il cane saltò immediatamente sul sedile e si accucciò. Come una persona molto sola, pensai. Dopo una decina di chilometri arrivammo in un paesino dove c'era un negozio che vendeva un po' di tutto. Entrai e chiesi come potevo arrivare a Högtunet. La commessa, una ragazza che portava un berretto da baseball girato al contrario, mi disegnò una cartina. «Abbiamo trovato un cane» dissi. «Sara Larsson ha uno spaniel» disse la commessa. «Forse le è scappato.» Tornai all'auto, diedi la cartina a Harriet e ripresi a guidare nella direzione dalla quale eravamo arrivati. Il cane rimaneva accucciato sul sedile senza muoversi. Era teso. Poco dopo Harriet mi disse di imboccare una strada che era quasi impossibile scorgere fra i cumuli di neve. Era come entrare in un mondo in cui le direzioni e i punti cardinali avevano cessato di esistere. La strada si snodava fra pini carichi di neve. Era stata ripulita, ma sembrava che non fossero più passate macchine dopo l'ultima nevicata. «Ci sono solchi profondi nella neve» disse Harriet. «Portano verso la strada.» Il cane si era messo a sedere. Fiutava e guardava fuori dal finestrino. Fremeva in tutto il corpo come se avesse un gran freddo. Passammo un vecchio ponte ad arco. A un lato della strada si intravedevano parti di uno steccato crollato. La foresta si aprì. Su una piccola altura c'era una casa di legno che non veniva ridipinta da anni. C'erano anche una rimessa e un fienile crollato a metà. Fermai l'auto e lasciai scendere il cane. Corse verso la porta d'ingresso, la grattò con le zampe e poi rimase in attesa. Notai che dal comignolo non usciva fumo. I vetri delle finestre erano coperti di brina. La luce sopra la porta era spenta. Quello che vedevo non mi piaceva. «Sembra di guardare un quadro» disse Harriet. «Esposto nella foresta come su un cavalletto della natura. E l'artista se ne è andato.» Scesi dall'auto e scaricai il deambulatore dal bagagliaio. Harriet scosse il capo e rimase seduta dov'era. Mi fermai al centro del cortile in ascolto. Il cane era immobile con gli occhi fissi sulla porta. Un aratro arruginito spuntava dalla neve come un relitto. Tutto sembrava abbandonato. A parte quelle del cane, intorno non c'erano altre tracce. L'inquietudine cresceva. Mi avviai verso la casa e bussai alla porta. Il cane si alzò. «Chi deve aprire?» sussurrai. «Chi aspetti? Perché eri fermo sul ciglio della strada?» Bussai nuovamente e poi abbassai la maniglia. La porta non era chiusa a chiave, il cane corse dentro. C'era odore di chiuso, l'aria era viziata, come se il tempo si fosse fermato e avesse cominciato a inviare un odore di decomposizione. Il cane era entrato in quella che immaginai fosse la cucina e non ne era uscito. Chiamai senza avere risposta. Sulla sinistra c'era una stanza con mobili antiquati e un orologio a parete il cui pendolo si muoveva silenzioso dietro il vetro. Sulla destra una scala portava al piano di sopra. Mi affacciai alla porta della cucina. Sul pavimento di linoleum grigio una donna era stesa a faccia in giù. Capii immediatamente che era morta. Eppure feci quello che si deve fare in questi casi, mi inginocchiai a terra e cercai di sentire il battito, sulla gola, sul polso e sulla tempia. Era del tutto inutile, dato che il corpo era freddo e rigido. Mi dissi che il cadavere doveva essere quello di Sara Larsson. Faceva freddo nella cucina perché una delle finestre era semiaperta. Era da lì che il cane era uscito per andare a cercare aiuto. Mi rialzai e mi guardai intorno. Era tutto in ordine. Con ogni probabilità Sara Larsson era deceduta per cause naturali. Il suo cuore aveva cessato di battere, forse un vaso sanguigno si era rotto nel cervello. Immaginai che avesse fra gli ottanta e i novant'anni. I capelli bianchi erano raccolti in una crocchia sulla nuca. Girai cautamente il corpo rigido. Il cane osservava teso tutto quello che facevo. Quando la donna fu sulla schiena, si avvicinò e annusò il suo viso. Stavo osservando un quadro diverso da quello che aveva scoperto Harriet. Vedevo l'immagine di una solitudine che non poteva essere descritta a parole. La donna morta aveva un viso bellissimo. C'è una forma speciale di bellezza che è visibile unicamente nei volti di donne molto anziane. Nelle pelli rugose ci sono tutti i segni e i ricordi di una vita che è passata. Donne anziane il cui corpo è già reclamato dalla terra. Pensai a mio padre, agli ultimi tempi prima che morisse. Aveva un cancro che si era diffuso in tutto il corpo. Vicino al letto teneva un paio di scarpe perfettamente spazzolate. Ma non diceva niente, la paura della morte era tale da renderlo muto. Era così dimagrito da essere irriconoscibile. Anche il suo corpo era reclamato dalla terra. Uscii dalla casa. Harriet era scesa dalla macchina e aspettava appoggiata al suo deambulatore. Mi seguì in casa e mentre salivamo la scala si appoggiò al mio braccio. Il cane era sempre in cucina. «È stesa a terra» dissi. «È morta da un po' e il suo viso è giallo. Non è necessario che tu la veda.» «Non ho paura della morte, ma è terribile che io debba essere morta per così tanto tempo.» Morta per così tanto tempo. Più tardi avrei ricordato quelle parole che Harriet aveva pronunciato nell'ingresso buio, prima di entrare in cucina dove giaceva il cadavere della donna. Restammo in silenzio. Poi ci spostammo in giro per la casa, volevo cercare qualcosa che mi permettesse di rintracciare qualche parente. Un tempo in quella casa c'era stato un uomo, lo avevo capito dalle foto alle pareti. Ma adesso Sara Larsson era rimasta sola con il suo cane. Quando scesi dal piano di sopra, Harriet stava posando un asciugamano sui viso della donna. Chinarsi le era costato un grosso sforzo. Il cane si era accucciato in una cesta vicino al fornello e seguiva ogni nostro movimento. Telefonai alla polizia. Ci volle un po' per spiegare dove ci trovavamo. | << | < | > | >> |Pagina 119Mia figlia non aveva un pozzo. Naturalmente non c'erano tubature dell'acqua nella sua roulotte, e neppure una pompa nello spiazzo. Per andare a prendere l'acqua doveva seguire un sentiero in discesa, attraversare una parte della foresta e arrivare a una fattoria abbandonata con i vetri delle finestre in frantumi e cornacchie appollaiate sul bordo del comignolo. Lì c'era una pompa arrugginita che forniva acqua. Quando alzai e abbassai la leva, udii il ferro stridere. Le cornacchie non si mossero. Quella fu la prima cosa che mia figlia mi chiese. Di andare a prendere due secchi d'acqua. Sono felice che non mi abbia detto altro. Avrebbe potuto urlarmi di sparire o essere colta da un eccesso di gioia per avere finalmente incontrato suo padre. Invece mi chiese di andare a prendere l'acqua. Presi i secchi e mi avviai lungo il sentiero coperto di neve. Mi domandai se di solito andasse a prendere l'acqua in accappatoio rosa e tacchi alti. Ma soprattutto mi chiesi cosa fosse successo tanti anni prima e perché non ne avessi mai saputo niente. La fattoria abbandonata distava circa duecento metri. Quando Harriet mi aveva detto che la donna della roulotte era mia figlia, avevo subito capito che era vero. Harriet non sapeva mentire. Cercai di rievocare il momento in cui l'avevamo concepita. Mentre camminavo nella neve pensai che l'unica spiegazione logica era che Harriet si fosse accorta di essere incinta dopo la mia scomparsa. Quindi dovevamo averla concepita circa un mese prima. La foresta era immersa nel silenzio. Mentre avanzavo nella neve avevo l'impressione di essere un troll di un'antica saga. Avevamo sempre fatto l'amore sul divano letto di Harriet. Era lì che mia figlia era stata concepita. Quando Harriet mi aveva aspettato inutilmente, non lo sapeva ancora. Lo aveva capito soltanto dopo, e io ero sparito. Pompai l'acqua. Posai i secchi ed entrai nella casa abbandonata. La porta d'ingresso era bloccata. Quando la spinsi con un piede si staccò dai cardini e si schiantò sul pavimento. Le stanze erano pervase da un odore di muffa e legno marcio. Tutto quello che rimaneva ricordava una nave naufragata. Sui muri, sotto la carta da parati stracciata, si intravedevano pezzi di giornali. Il Ljusnan del 12 marzo 1969. «Uno scontro frontale sulla». Il resto non c'era. «La signora Mattsson mostra la fotografia di uno dei suoi acquarelli». La fotografia era rovinata, tutto quello che si vedeva era il viso della signora Mattsson e le sue mani, nessun acquarello. In una stanza c'erano i resti di un letto matrimoniale. Era stato fatto a pezzi, probabilmente a colpi d'accia. Qualcuno in preda all'ira lo aveva distrutto perché non potesse essere mai più usato. Cercai di immaginare le persone che erano vissute in quella casa e un giorno se n'erano andate per non tornarci più. Ma i volti erano girati. Le case abbandonate sono come teche di un museo che hanno perduto il loro contenuto. Uscii dalla casa e pensai che, del tutto inaspettatamente, nelle foreste a sud di Hudiksvall avevo trovato una figlia, che doveva avere trentasette anni e viveva in una roulotte. Una donna che era uscita nella neve indossando un accappatoio rosa e scarpe con i tacchi alti. Una cosa era chiara.
Harriet non l'aveva preparata. Naturalmente mia figlia
sapeva di avere un padre, ma non sapeva che fossi io. Non
ero il solo a essere rimasto sorpreso. Harriet ci aveva lasciati entrambi a
bocca aperta.
Presi i secchi e mi avviai. Perché mia figlia abitava in una roulotte nel mezzo della foresta? Chi era? Quando ci eravamo stretti la mano non avevo avuto il coraggio di guardarla negli occhi. Un forte odore di profumo mi aveva colpito. La sua mano era sudata. Posai i secchi per riposare le braccia. «Louise» dissi ad alta voce a me stesso. «Ho una figlia che si chiama Louise.» Quelle parole mi ammutolirono, mi fecero provare un vago senso di paura ma anche di euforia. Harriet era arrivata sul ghiaccio con l'hydrocopter di Jansson e mi aveva portato la notizia della morte che la stava aspettando e insieme di una vita. Portai i secchi fino alla roulotte e bussai alla porta. Louise aprì. Ai piedi aveva ancora le scarpe con i tacchi alti, ma aveva cambiato l'accappatoio con un paio di pantaloni e un maglione. Aveva un bel corpo. Provai un senso di imbarazzo. All'interno non c'era molto spazio. Harriet era seduta dietro un minuscolo tavolo vicino al finestrino. Sorrideva. Ricambiai il sorriso. Faceva caldo. Louise stava preparando il caffè. Aveva una bella voce, proprio come quella di sua madre. Se il ghiaccio sapeva cantare, mia figlia sapeva farlo altrettanto bene. Mi guardai intorno. Un mazzo di rose essiccate pendeva dal soffitto, su un lato c'era uno scaffale con carte e lettere, su uno sgabello una vecchia macchina da scrivere. C'era una radio, ma non un televisore. Ero inquieto per il modo in cui viveva, mi ricordava il mio. E ora hai fatto la tua comparsa, pensai. Nel modo più inatteso possibile. Louise posò un termos e delle tazze sul tavolino. Mi sedetti accanto a Harriet. Louise rimase in piedi fissandomi. «Sono felice di non essermi messa a piangere» disse. «Ma lo sono ancora di più per come hai accettato la notizia che ti è piombata addosso. Non hai reagito con rabbia.» «Non ho ancora capito bene cosa stia succedendo. E poi non perdo quasi mai il controllo.» «Forse perché non credi che sia vero?» Pensai ai vecchi faldoni polverosi con i monotoni verbali delle dichiarazioni giurate dei giovani che cercavano di discolparsi. «Sono convinto che sia la verità.» «Ti addolora non avere avuto la possibilità di conoscermi prima? Che io sia entrata nella tua vita così tardi?» «Ho imparato a sopportare il dolore» risposi. «In questo momento sono soprattutto meravigliato. Un'ora fa non avevo figli, non avrei mai creduto che fosse possibile.» «Che lavoro fai?» Mi girai verso Harriet. Dunque non le aveva mai parlato di suo padre, non le aveva neppure detto che era un medico. La cosa mi sconvolse. Cosa le aveva detto di me? Che ero uno passato per caso? «Sono un medico. O almeno lo sono stato.» Louise mi osservò con la tazza sollevata a mezz'aria. Notai che portava anelli su tutte le dita, persino sul pollice. «Che tipo di medico?» «Chirurgo.» Fece una smorfia. Pensai a mio padre e alla sua reazione quando, a quindici anni, gli avevo detto della mia scelta. «Puoi scrivere una ricetta?» «Non più. Adesso sono in pensione.» «Peccato.» Louise poso la tazza e si mise un berretto di lana fatto a ferri. «Per urinare si va dietro la roulotte, poi si copre tutto con la neve. Se si tratta d'altro, si va dietro la legnaia.» Uscì tenendosi in equilibrio sui suoi tacchi alti. Mi rivolsi a Harriet. «Perché non me lo hai detto? È una vergogna!» «Non parlarmi di vergogna! Non sapevo come avresti reagito.» «Sarebbe stato più facile se mi avessi preparato.» «Non osavo. Avresti anche potuto interrompere il viaggio, lasciandomi sulla strada. Come potevo sapere che lo avresti voluto un figlio?» Harriet aveva ragione. Non poteva sapere come avrei reagito. Aveva tutte le ragioni per non fidarsi di me. «Perché vive in questo modo? Come si mantiene?» «È stata una sua scelta. Io non so quello che fa.» «Qualcosa saprai.» «Scrive lettere.» «Ma non può vivere di questo!» «Sembra di sì.» D'un tratto mi venne in mente che le pareti della roulotte erano sottili, e forse mia figlia stava ascoltando da fuori. Forse aveva ereditato il mio vizio di origliare. Abbassai la voce fino a ridurla a un sussurro. «Perché si veste in quel modo? Perché va in giro con quelle scarpe dai tacchi alti?» «Mia figlia...» «Nostra figlia!» «Nostra figlia è sempre stata una bambina testarda. Già quando aveva cinque anni sentivo che sapeva cosa voleva, ma io non l'ho mai capita.» «Cosa vuoi dire?» «Louise ha sempre vissuto senza curarsi troppo di cosa pensavano gli altri. Prendi le sue scarpe. Sono molto costose. Ajello, fatte a Milano. Non ci sono molte persone che hanno il coraggio di vivere in questo modo.» La porta si aprì, nostra figlia era tornata. «Ho bisogno di riposare» disse Harriet. «Sono stanca.» «Tu sei sempre stata stanca» disse Louise. «Non sono sempre stata così malata.» Per un attimo sibilarono, come gatte. Sibili né ostili né amichevoli. Dunque per Louise non era un segreto che Harriet sarebbe morta presto. Mi alzai per permettere a Harriet di sdraiarsi sullo stretto letto. Louise si tolse le scarpe e si infilò un paio di stivali. «Usciamo» disse. «Ho bisogno di muovermi. Mi pare che siamo un po' scossi tutti e due.» Nella direzione opposta rispetto alla fattoria abbandonata c'era un sentiero spalato fra la neve. Portava al di là di una vecchia baracca, in una fitta macchia di abeti. Louise camminava rapidamente e io facevo fatica a starle dietro. D'improvviso si fermò e si girò verso di me. «Credevo che mio padre fosse partito per gli Stati Uniti per poi sparire. Un padre di nome Henry, che amava e studiava le api. In tutti questi anni non mi ha mai mandato un solo barattolo di miele. Credevo fosse morto. Ma tu non sei morto, sono riuscita a conoscerti. Quando torneremo alla roulotte ti farò una fotografia insieme a Harriet. Ho tante fotografie di lei, da sola o con me. Ma voglio averne una dei miei genitori insieme, prima che sia troppo tardi.» Riprendemmo a camminare lungo il sentiero. Pensai che in qualche modo Harriet le aveva detto come stavano le cose. O almeno le aveva spiegato quanto poteva spiegarle senza mentire del tutto. Ero andato negli Stati Uniti ed ero sparito, e da giovane mi ero interessato alle api. E senza dubbio era vero che non ero ancora morto. Continuammo a camminare fra la neve. Louise avrebbe avuto la fotografia dei suoi genitori. Non era troppo tardi per scattare la foto che le mancava. | << | < | > | >> |Pagina 139Salimmo in macchina. Quando arrivammo alla strada principale, Louise mi disse di svoltare a sinistra. Passarono alcuni camion carichi di tronchi, sollevando una densa nuvola di neve. Dopo diversi chilometri Louise fece un cenno a destra, un cartello indicava che stavamo andando verso Motjärvsbyn. Gli abeti crescevano vicino ai bordi della strada che era stata ripulita dalla neve in modo approssimativo. Louise continuava a guardare dal finestrino e sentii che stava canticchiando una melodia. La riconoscevo ma non ne ricordavo il titolo.Arrivammo a una deviazione. Louise fece un cenno verso sinistra. Dopo qualche centinaio di metri la foresta si aprì e vidi una fila di fattorie, ma le case erano vuote, morte, con comignoli senza fumo. Solo la casa alla fine della strada, un edificio a due piani con una veranda dipinta di verde, mostrava segni di vita. Un gatto era seduto sulla scala e dal comignolo usciva del fumo. «Via Salandra a Roma» disse Louise. «È una strada che voglio vedere almeno una volta. Sei mai stato a Roma?» «Ci sono stato diverse volte. Ma non conosco questa via.» Louise scese dall'auto e io la seguii. Dall'interno della casa di legno, che aveva sicuramente più di cento anni, si udiva musica lirica. «Qui abita un genio» disse Louise. «Giaconelli Mateotti. Adesso è vecchio, ma un tempo lavorava per i Gatto, la famosa stirpe di calzolai. Angelo Gatto in persona, il fondatore del laboratorio agli inizi del Novecento, ha insegnato il mestiere a Giaconelli quando era ancora molto giovane. Adesso Giaconelli esercita la sua arte fra queste foreste. Si era stancato del traffico della città, dei clienti famosi che non accettavano il fatto che ci vogliono tempo e pazienza per fare grandi scarpe.» Louise mi fissò e sorrise. «Voglio farti un regalo» disse. «Voglio che faccia un paio di scarpe per te. Quelle che porti sono un insulto per i tuoi piedi. Giaconelli mi ha parlato delle piccole, magnifiche ossa e dei muscoli che ci permettono di camminare e correre, di stare sulle punte per diventare ballerini o semplicemente per riuscire a prendere qualcosa da uno scaffale alto. Conosco cantanti liriche che più che del regista o del direttore d'orchestra si curano delle scarpe con cui si esibiscono.» La fissai. Era come ascoltare mio padre. Il cameriere dispotico che ormai da anni giaceva in una tomba. Anche lui mi aveva parlato delle cantanti liriche. Era strano pensare che mio padre e mia figlia avrebbero avuto tante cose di cui parlare. Ma farmi regalare un paio di scarpe? Volevo protestare, ma Louise alzò una mano, salì la scala, fece spostare il gatto e aprì la porta. La musica ci accolse. Proveniva dal fondo della casa. Attraversammo la stanza in cui Giaconelli conservava le pelli e le forme. Su una parete c'era un quadro con un proverbio, forse dipinto da lui stesso. Qualcuno di nome Zhuang Zhou aveva detto: «Quando le scarpe calzano bene non si pensa più ai piedi». Tutte le pareti della stanza, dal pavimento al soffitto, erano occupate da scaffali pieni di forme, su ogni paio c'era un'etichetta con un nome. Louise ne prese alcune, quando lessi i nomi rimasi stupefatto. Giaconelli aveva cucito scarpe per presidenti americani ormai morti, ma conservava ancora le loro forme. C'erano nomi di direttori d'orchestra e di attori, di persone giustiziate o fatte sante. Aggirandomi fra tutti quei piedi famosi, provai una sensazione di vertigine. Era come se le forme stesse fossero arrivate fra la neve, attraverso la foresta, per far sì che il maestro, che io non avevo ancora incontrato, potesse cucire le sue magnifiche scarpe. «Duecento diverse operazioni» disse Louise. «Ecco quanto ci vuole per fare una sola scarpa.» «Deve costare molto» dissi. «Trattare le scarpe come gioielli.» Louise sorrise. «Giaconelli mi deve un favore. Gli farà piacere contraccambiare.» Contraccambiare. Quando era stata l'ultima volta che avevo sentito usare quella parola antiquata? Non ricordavo. Forse nel mezzo della foresta la lingua sopravvive in un modo diverso, mentre nelle grandi città alcune parole vengono bandite come fuorilegge. Continuammo ad avanzare nella vecchia casa. Ovunque forme, attrezzi, una stanza era pervasa dall'odore intenso delle pelli conciate, impilate su alcuni semplici tavoli di legno. La musica cessò. Adesso, quando ci muovevamo, potevamo udire il vecchio pavimento scricchiolare. «Spero che ti sia lavato i piedi» disse Louise quando arrivammo davanti all'ultima porta chiusa. «Altrimenti?» «Giaconelli non dirà niente. Ma gli dispiacerà.» Louise bussò alla porta e l'aprì. A un tavolo, sul quale era disposta ordinatamente una serie di attrezzi, un uomo anziano stava lavorando a una forma, in parte coperta di pelle. Portava gli occhiali ed era calvo, a parte alcuni ciuffi di capelli sulla nuca. Era molto magro, uno di quegli uomini che danno l'impressione di essere senza peso. Nella stanza c'era soltanto quel tavolo. Le pareti erano nude, nessuno scaffale con forme da scarpe, soltanto pareti di legno. La musica proveniva da una radio appoggiata sul davanzale della finestra. Louise si chinò e baciò il vecchio sulla fronte. Sembrava essere felice di vederla, posò la scarpa marrone che stava cucendo. «Questo è mio padre» disse Louise. «È tornato dopo tutti questi anni.» «Un uomo buono torna sempre» rispose Giaconelli con un forte accento. Si alzò e mi strinse la mano con forza. «Hai una bella figlia» disse. «Ed è anche brava a tirare di boxe. Le piace ridere e mi aiuta quando ne ho bisogno. Perché ti sei tenuto lontano per così tanto tempo?» Non aveva lasciato la mia mano, la stringeva con più forza. «Non mi sono tenuto lontano. Non sapevo di avere una figlia.»
«Dentro di sé un uomo sa sempre se ha dei figli oppure no.
Ma sei tornato. Louise è felice. È tutto quello
che ho bisogno di sapere. Ha aspettato a lungo che tu arrivassi attraverso la
foresta. Forse in tutti questi anni eri in cammino senza rendertene conto.
Perdersi in se stessi è facile tanto quanto perdersi nella foresta o in una
città.»
Ci spostammo nella cucina. A differenza del suo laboratorio ascetico, la cucina era ingombra di padelle ed erbe essiccate, trecce di aglio pendevano dal soffitto, lampade a petrolio e file di barattoli di spezie erano disposte su scaffali di legno intagliati. Al centro c'era un tavolo grande e pesante. Giaconelli seguì il mio sguardo e passò una mano sul ripiano levigato. «Faggio» disse. «È lo stesso magnifico legno con cui costruisco le mie forme. Prima lo facevo arrivare dalla Francia, non si può usare un altro tipo di legno. Bisogna usare quello di faggi cresciuti in un terreno collinoso dove c'è ombra e gli alberi non subiscono bruschi cambiamenti di clima. Sceglievo io stesso gli alberi da abbattere, due o tre anni prima di fare rifornimento. Venivano abbattuti sempre d'inverno, per una lunghezza massima di due metri, mai di più, e poi venivano stoccati all'aperto, per un lungo periodo. Quando mi sono trasferito in Svezia ho trovato un fornitore nella Scania. Adesso sono troppo vecchio e non ho più la forza di fare ogni anno un lungo viaggio per andare a scegliere i faggi. È una cosa che mi addolora, ma non faccio più tante forme. Rimango seduto in questa casa e penso che presto non cucirò più scarpe. L'uomo che sceglie gli alberi da abbattere mi ha regalato questo tavolo quando ho compiuto novant'anni.» Il vecchio maestro ci invitò a sedere al tavolo e prese una bottiglia di chianti. Quando riempì i nostri bicchieri, la sua mano non tremava. «Alla salute del padre che è tornato» disse. Il vino era eccellente. Ora capivo che durante gli anni trascorsi nell'isola deserta mi era mancato qualcosa. Bere un bicchiere di vino insieme a degli amici. Giaconelli iniziò a raccontare storie curiose sulle scarpe che aveva creato negli anni, sui clienti che tornavano sempre e sui figli che bussavano alla porta del suo laboratorio quando i genitori se n'erano andati. Ma soprattutto parlò dei piedi che aveva visto e misurato per creare le forme. I piedi, sui quali poggia tutto, la parte del corpo che nella mia vita mi aveva sostenuto già per centocinquantamila chilometri. Descrisse l'importanza della testa dell'astragalo – caput tali. E persino quando raccontò del piccolo, insignificante cuboide – os cuboideum – suscitò in me un grande interesse. Giaconelli sembrava sapere tutto su ossa e muscoli dei piedi. Molto lo ricordavo dai miei studi di medicina, per esempio la struttura anatomica incredibilmente ingegnosa che si basava sui muscoli corti dei piedi per dare forza, resistenza e flessibilità. Louise chiese a Giaconelli se poteva farmi un paio di scarpe. Il maestro annuì pensieroso e, prima di interessarsi ai miei piedi, fissò a lungo il mio viso. Spostò una ciotola di noci e mandorle e mi disse di salire sul tavolo. «Senza scarpe e senza calze. So che oggi ci sono artigiani che misurano i piedi ai clienti con indosso le calze. Ma io sono all'antica. Voglio vedere il piede nudo. Niente altro.» In tutta la mia vita non avrei mai immaginato che un giorno qualcuno avrebbe misurato i miei piedi per farmi un paio di scarpe. Le scarpe si provano nei negozi. Esitai, ma poi mi tolsi scarpe e calze e salii sul tavolo. Evidentemente Louise aveva assistito alla misurazione del piedi di altre persone, perché era uscita ed era tornata poco dopo con diversi fogli di carta e una matita. Era come partecipare a una cerimonia. Giaconelli fissò i miei piedi, vi passò sopra le dita e mi chiese se stavo bene. «Sì, credo di sì.» «Sei in buona salute?» «Sì, a parte il mal di testa.» «E i tuoi piedi stanno bene?» «In ogni caso non mi fanno male.» «Sono gonfi?» «No.» «La cosa più importante quando si fa un paio di scarpe è misurare i piedi in condizioni di riposo, mai di notte, mai con la luce artificiale. Voglio incontrare i tuoi piedi solo se stanno bene.»
Mi chiesi se non fosse tutto uno scherzo. Ma Louise era
seria, pronta a scrivere.
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