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| << | < | > | >> |Pagina 7Libération, 15 gennaio 1980:
L'eroina adesso arriva dall'Iran, dal Pakistan e
dall'Afghanistan. Lanno scorso il raccolto iraniano ha
prodotto 1500 tonnellate di oppio grezzo. L'oppio raffinato
in quei paesi, e soprattutto in Turchia, viene poi
trasportato via terra verso l'Europa occidentale. Ma
attenzione: questa eroina, a differenza di quella prodotta
in Messico, è pura al 20 percento (anziché al 3,5). In
Germania, nel 1979, ci sono stati seicento casi di overdose
causate da questa nuova eroina.
La ragazzina è lì, infantile e già smagata, seduta nuda sul bordo del lettone bianco al centro della stanza tappezzata di specchi. In un angolo, una bergère Luigi XV; in fondo, un frigo non più alto di un tavolo. Sopra, bicchieri, flúte, coppe e altro. La ragazzina fa dondolare mollemente le gambe, canticchiando. Entra l'uomo. Nudo a sua volta. Lei lo guarda attentamente, lo studia. Sui quarantacinque anni, collo taurino, grasso, culo piccolo e gambe magre, un po' calvo, ma con una foresta di pelo rosso sul petto. Lei gli sorride e fa un cenno nella sua direzione. Lui, l'occhio ingordo, cammina come se scivolasse al rallentatore, si dirige verso il frigo, lo apre, si versa un whisky molto abbondante. «Vuoi bere, piccola?» e alza il bicchiere verso di lei. Il gesto un po' troppo ampio fa rovesciare del whisky sulla moquette bianca. Lei fa cenno di no con la testa, senza parlare, e sempre sorridente. Lui beve, lascia cadere il bicchiere sulla moquette, le si avvicina, si accascia sul letto ridendo. La ragazzina lo fa sdraiare sulla pancia, gli si siede sulle reni; è incredibilmente fragile accanto a lui. Comincia a massaggiarlo, canticchiando sommessamente per darsi un ritmo. Lui la lascia fare, mugola di piacere, la incoraggia: «Un po' di coccole al tuo paparino». La ragazzina si stende su di lui, gli mordicchia il collo, le orecchie. L'uomo si dimena lentamente, emette qualche suono indistinto, afferra la moquette con le dita. Lei lo fa girare sulla schiena. Ha l'aria di star bene. Gli massaggia lentamente il sesso. L'uomo si alza sui gomiti. Guarda quel corpicino che riesce a stento a stare in equilibrio sul suo, si volta verso gli specchi e sorride. Fa le fusa. Lei è concentrata nel suo compito; silenziosa, adesso si applica con serietà. Il suo volto è più attento, il sorriso un po' forzato; con lo sguardo, scruta le reazioni dell'altro. D'un tratto, l'uomo si sente osservato. Sembra destarsi da un lungo sonno, ma i suoi occhi sono vitrei. La ragazzina raggiunge lentamente con le mani i capezzoli dell'uomo e comincia a titillarli piano. Le fusa si trasformano in un lungo gemito. Lui si raddrizza, la ragazzina cade sul letto. L'uomo è in preda al panico. Ha gli occhi dilatati. Urla: «Mi ucciderà». Le mani davanti agli occhi, si raggomitola, poi si mette a scalciare in direzione della ragazzina che domanda: «It's a game?». Sorride ancora, ma sembra un po' preoccupata. Evita i calci e cerca di calmare l'uomo attirandolo sul letto, accarezzandogli le spalle e i seni: «Remember, I am your baby». Ma lui urla di nuovo: «Non crescere, non crescere». Poi la prende per il collo, la scrolla, la rovescia sul letto, e stringe, stringe. «Non mi avrai.» Lei si dibatte un po', non molto, è completamente schiacciata dalla massa dell'uomo. Non può più gridare. Uno, due minuti, non si dibatte più... | << | < | > | >> |Pagina 9Ore 7, metropolitana Sentier In fondo al bar tabacchi, davanti alla stazione del metrò, un gruppo compatto di turchi, una quindicina, e cinque o sei francesi. Tutti bevono caffè, i francesi mangiano croissant. Su un tavolo, due grossi fasci di volantini su carta salmone, battuti a macchina, ciclostilati alla bell'e meglio, recto in francese, verso in turco. Il Comitato di difesa dei turchi in Francia invita i lavoratori turchi del Sentier ad astenersi dal lavoro lunedì 3 marzo, e a radunarsi a mezzogiorno al metrò Sentier per ottenere la regolarizzazione dei documenti e migliori condizioni di lavoro. Sono assembrati attorno a una carta di Parigi. Soleiman forma gruppetti di cinque persone, qualche turco attorno a un francese. Ogni gruppo riceve un elenco di strade da percorrere; qualcuno prende nota dei nomi su un pezzo di giornale, su un pacchetto di sigarette. Un'atmosfera bolscevica ante '17 aleggia sulla scena. Tutti si alzano, brusio, e si ritrovano fuori, sulla piazza. Sarà una giornata splendida. Sensazione inconfessabile di immergersi nell'ignoto assoluto. Avere l'aria sicura di ciò che si fa. Soleiman prende il comando di un gruppo e imbocca rue d'Aboukir seguito da una giornalista di Libération. È alto, magro, così dritto da sembrare rigido, il viso piuttosto allungato, zigomi alti, un naso sottile e prominente, e immensi occhi azzurri, una zazzera castano chiara, pelle scura. I turchi lo ascoltano, la ragazza lo guarda. Entrare in ogni edificio, leggere i nomi sulle cassette della posta, individuare le consonanze turche o slave. Si sale. In quei vecchi edifici gli ingressi sono bui, le scale tortuose. A ogni piano si sente il rumore delle macchine per cucire. Soleiman bussa alla porta. Il capoccia apre, o più spesso un operaio. La conversazione si avvia, in turco o in francese. Buongiorno. Siamo del Comitato di difesa dei turchi, veniamo a parlarvi dello sciopero, della manifestazione per la regolarizzazione dei lavoratori turchi. Quello che tiene aperta la porta si volta verso il laboratorio: Cosa ne dite? Facciamo entrare? Sì... Sì... Per tutta la mattina, non una porta che si chiuda. Laboratori angusti, poco illuminati, surriscaldati, odori di appretti. Ma ambiente caloroso. Enormi apparecchi radio che diffondono notizie e musica del paese. Si parla, si scherza. Ogni tanto, un cugino passa a salutare o un operaio scende a fare una partita a flipper. Quando Soleiman e il suo gruppo entrano, le macchine si fermano, ci si urta tra i tavoli, gira il caffè, il capoccia si unisce alla discussione. Lo sciopero sembra ancora lontanissimo. Ma a mezzogiorno al Sentier, sì, forse. Soleiman lascia qualche volantino. Il gruppo riparte, il piano di sopra, l'edificio successivo. Boulevard Saint-Denis, poi rue du Faubourg-Saint-Martin: gli edifici diventano più vasti, i laboratori meglio illuminati, più aerati. Dietro le facciate hausmanniane, certi cortili sono vere e proprie officine-laboratorio, confezione a tutti i piani, e operaie a domicilio nelle mansarde. In alto, ad aprire la porta sono donne con il fazzoletto in testa e la gonna lunga. A loro, Soleiman non sa cosa dire. L'idea che quelle donne scendano in piazza gli sembrerebbe sconveniente. Il gruppo risale fino a rue de Belleville. Edifici talora molto vetusti, corridoi sordidi, laboratori miserabili, a volte perfino senza porta, soltanto un grande pezzo di cartone per chiudere l'ingresso, ma ovunque la stessa accoglienza. Il gruppo è estenuato, fa caldo a quell'ora di mattina. Ci si ferma sempre più spesso nei bistrò dove già (qui si sa sempre tutto) gli operai vengono spontaneamente a chiedere i volantini a Soleiman. Ora bisogna tornare giù, per essere al Sentier a mezzogiorno.
Nelle strade che scendono verso la piazza i gruppetti
di militanti si congiungono, sovreccitati dall'accoglienza
ricevuta. Sboccano nella piazza. Nessuno. In fondo, c'era
da aspettarselo. Aprire la porta del laboratorio,
ascoltare, è un conto; scendere in piazza, quando si è
clandestini, è un altro... Ma i militanti hanno un morale
d'acciaio e sono avvezzi alla solitudine. Soleiman sistema
gli altoparlanti. Si srotola qualche striscione di stoffa
rossa per delimitare e inquadrare il luogo del raduno.
È bello quel rosso vivo al sole. Soleiman comincia a
parlare, in turco: la clandestinità, travestirsi da turista
con una macchina fotografica a tracolla; la paura che
bisogna vincere quando si scorge uno sbirro per strada,
continuare a camminare, le perquisizioni, le nottate nelle
stazioni di polizia, i fogli di via. Basta. Non vogliamo
più saperne. Siamo qui, lavoriamo, vogliamo permesso di
soggiorno e libretto di lavoro. La dignità.
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