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| << | < | > | >> |Pagina 7Tristan Brodsky attraversa la strada correndo, punta il suo palazzo evitando la merce guasta che i fruttivendoli lanciano verso il bordo del marciapiede mentre chiudono bottega. È in ritardo per la cena a una tavola che sarà il primo a lasciare, ma le sue orecchie sono ancora drizzate, pronte a cogliere gli schiaffi e le grida che annuncino un'eventuale partita di stickball. Tristan è uno da doppio tombino. Se si gioca una partita davanti al muro dell'alimentari di Moishe, grazie al rispetto di cui gode nel quartiere può saltare la fila e andar dritto in battuta, per tentare due volte di colpire la pallina di gomma rosa con il manico di scopa. Chiunque sia di turno per lanciare, gli esterni si allontanano fino al secondo tombino – il più grande complimento che ci sia. Se nell'aria autunnale imbrattata di carbone aleggiano il suono secco dei dadi impazienti e i mormorii duri e ansiosi dei giocatori, Tristan può seguirli fin dentro il vicolo, tra i muri di mattoni, allungare una mano matematica e farsi consegnare i dadi nell'istante stesso in cui chi ha lanciato fa il punto o passa la mano. Può scommettere i soldi per la metro e vincere quanto basta per comprarsi la colazione domattina, o perdere cinque cent, restarci fregato e saltare la lezione di stasera: l'ennesima battuta d'arresto per gli ebrei. Ma nel quartiere non si sentono i ragazzi della sua età. Stasera sono usciti solo i vecchi, tre o quattro sotto la fioca luce color burro dei lampioni, ogni gruppo stretto a sé, tante mani che si muovono in inglese, yiddish, tedesco. Il tedesco è la lingua preferita di Tristan, anche se è quella che capisce di meno. Lui e suo fratello minore Benjamin fanno un gioco in cui fingono di parlarlo, e il divertimento sta nel fatto che ogni parola è incredibilmente lunga e articola un concetto o una situazione talmente specifica o complessa che ci vuole un paragrafo d'inglese per definirla. Loro padre, in strada, si aggrega immancabilmente ai gruppetti in cui si parla yiddish. Non vuole insegnare a Tristan la lingua, per quanto la loro vita ne sia pervasa. L'unica volta che Tristan gliel'ha chiesto il viso di Jacob si è incupito, ha scosso il capo, come fosse in imbarazzo a parlare la lingua del vecchio shtetl o disprezzasse l'interesse del figlio. Tristan non sapeva chi dei due non fosse all'altezza, se lui o la lingua. Sia come sia, il suo desiderio è scomparso. Tra lui e la casa mancano tre piani e gli effluvi mischiati di dodici cene, e per tutte le scale Tristan respira con la bocca. Nel palazzo, nel quartiere, cucinano tutti lo stesso cibo alla stessa maniera. Le larghe matriarche pescano le verdure dalle stesse pallide pile sulle stesse bancarelle del mercato, riempiono di patate e cime di rapa e cavoli avvizziti meste borse di tela, ballonzolano per la strada e si accapigliano per pezzi di grigio manzo fibroso. Polli denutriti penzolano dai travetti dei macellai, appesi alle corde macchiate di sangue, quasi avessero perso la forza di sopportare l'orrore triviale del ghetto e si fossero lanciati nel vuoto. Ogni madre del quartiere ricava il proprio onore dalla capacità di saziare una covata in eterna crescita con acqua, ossi di pollo e carote appassite. A volte sembra che gli ebrei non pensino che al cibo, che a fronte di tutti i rituali e la storia e le usanze che Tristan si è dovuto sorbire alle lezioni in sinagoga per poi vederne il riflesso sbiadito nella vita di casa sua, per tutta la santità della conoscenza lì predicata, l'unica cosa che sta a cuore al suo popolo sia sedere a una tavola imbandita – nemmeno conta troppo di cosa è imbandita, purché i vassoi trabocchino. I genitori di Tristan, tutti i genitori, corrono a destra e a manca dalla mattina alla sera, poi tornano a casa per sedersi davanti a un piatto di stufato con un tozzo di pane crostoso da intingerci dentro, e a bocca piena parlano ai figli di buone maniere e università. Comprano due servizi di piatti, comprano la carne kasher più costosa, comprano l'iscrizione alla shul, si bevono l'idea che gli ebrei sono la gente più sveglia in circolazione e che le cose per loro volgono costantemente al meglio, anche se il paese nel suo complesso è finito nella pattumiera e in mezzo Bronx si fa lo sciopero dell'affitto contro i padroni di casa. Nell'ultimo anno per tre mesi Jacob ha tenuto sotto il letto un manganello improvvisato, in caso i gorilla venissero a battere cassa, e Tristan si è tenuto a portata un manico di scopa non soltanto per le partite di stickball. Fra gli uomini più potenti d'America già figurano degli ebrei. Abbiamo già Bernard Baruch, Felix Frankfurter, Groucho Marx, la metà buona del Sindaco La Guardia. Abbiamo già Hank Greenberg, il miglior prima base della storia del baseball. Abbiamo già Tristan Brodsky, che taglia la nube odorosa delle zuppe sul fuoco e del gefilte fish: quindici anni, somma aritmetica di cinquemila anni di ebraicità, alla sua prima settimana al City College, una mente che è una lama per diamanti. Eccolo, incarnazione della speranza e prova irrefutabile, anche se non va alla shul dal suo bar mitzvah e sovente salta la cena, alimentandosi di mele da cinque centesimi acquistate da uno dei seimila venditori che hanno deciso che smerciare mele è più dignitoso che andare a iscriversi alle liste dell'assistenza sociale. Tristan apre la porta di casa ed entra nella cucina, dove suo padre, fratello e due sorelle, tra la luce debole e le macchie di bisunto, sono schierati attorno a un tavolino stipato di vettovaglie. «Scusate il ritardo», dice, impugnando la forchetta. La madre volta le spalle al lavello con grazia da donnone e agita un braccio alle spalle di Tristan. «Tardi per la cena non è un problema. Tardi per un'occasione, Jacob, questo mi preoccupa. Gli danno una borsa di studio e già la butta via così». Tristan addenta il bollito di cavoli e manzo e strizza gli occhi per leggere l'ora sull'orologio da polso del padre. Ha cinque minuti per cenare se vuole arrivare in tempo all'indirizzo stampato sulla cartolina che ha in tasca, con cui lo si avvisa che per circostanze eccezionali il primo incontro del seminario di letteratura contemporanea del professor Pendergast non si terrà al campus del City College ma sulla Cinquantaduesima Strada, e non alle undici del mattino bensì alle nove di sera. «Che razza di corso si può tenere la sera?», aggiunge Rachael non intendendo risposta, poi torna alla montagna di schiuma del lavabo e al pentolame borbottante. | << | < | > | >> |Pagina 16Forse la cartolina intendeva dire Centocinquantaduesima Strada, perché ora Tristan si trova davanti al 201 della Cinquantaduesima Ovest e non c'è altro che un bar, Oswald's, con le vetrine di un colore così scuro che Tristan ci si vede riflesso: un ragazzino allampanato e sudato con un taglio di capelli economico inequivocabilmente da Bronx, e già qualche debole ruga di concentrazione sulla fronte. Ha l'aria di non saper distinguere il suo culo da un buco in terra, questo futuro dottore/avvocato, orgoglio degli ebrei.Si avvicina alla porta di vetro nero e la apre. Al di là trova un'inattesa densità di discorsi, vibrazioni che sente fin dentro le palle. Il tintinnio d'argento e bicchieri scandisce una sinfonia invisibile di trilli e mormorii dietro l'angolo; aliti di alcol e calligrafie di fumo gli soffiano addosso. Tristan non è mai stato in un posto simile, anzi, riformula l'idea con più precisione: non è mai stato da nessuna parte. E magari non ci andrà mai. Di fronte a lui, seduto su uno sgabello, sull'orlo di un sontuoso tappeto bordeaux, sta uno gnomo tarchiato e senza capelli che sembra chiedersi se deve rompere la mascella di Tristan con una zampata del suo peloso uncino di carne. Ha un sigaro in bocca, gli ruota di qua e di là, come un ramo nell'oceano. «Diciott'anni minimo, pivello. Ce li hai?» «Questo è il due-zero-uno della Cinquantaduesima Ovest?», è la domanda incredibilmente ottusa di Tristan: i numeri sono stampigliati sul vetro esterno della porta, appena sopra la maniglia. «Non si risponde con altre domande», grugnisce lo gnomo, scivolando in avanti sullo sgabello in modo che un piede calzato di nero gli arrivi a toccar terra. «Cerco il professor Pendergast». Lo gnomo ridacchia fra i denti spaccati e rilassa il corpo in tensione. «Oh. Quello cerchi. Dovevo capirlo. 'N fondo 'n fondo, avanti al palco. Due consumazioni obblitorie». Punta un pollice alle spalle, seguito dal sigaro. Tristan annuisce, si china, lo oltrepassa. Mezzo galleggia mezzo inciampa fino al fondo della sala, lo sguardo gli rimbalza dai muri di raso scuro all'alto soffitto al bancone di mogano intagliato e ricolmo di bottiglie misteriose. Mentre le gambe lo portano avanti, Tristan si volta a guardare gli azzimati barman in camicia bianca e a esaminare i visi levigati nero di seppia che si mescolano ai visi rosa. È ipnotizzato per un attimo dal vestito rosso paillettato di una donna che si piega in avanti per ridere alla battuta del suo amico e nella mano ha una lunga sigaretta ancora intonsa. Un accendino emerge scintillante da dietro il bancone, fendendo l'aria con tempismo perfetto, e la donna lo nota proprio al culmine del suo movimento, prima di tornare, dondolando sul culo meraviglioso, alla posizione di partenza. I passi di Tristan si fanno più pesanti. Lingua e dita si gonfiano, ora sono grandi come salsicce crude. La camicia che indossa cambia colore, da azzurrino a marroncino merda screziato; i capelli gli crescono di trenta centimetri e gli si compattano in una matassa irsuta sopra le orecchie. Nella mano sinistra gli compare un osso masticato di mammut peloso, nella destra una Torah. Tristan è un cavernicolo ebreo dalla pelle bruna e strizza gli occhi nella penombra. Il pensiero di essere il più sveglio tra tutti i figli di puttana qui presenti è di scarsa consolazione, e mentre la parte del suo cervello che galleggia continua a provare un intenso piacere, la parte che inciampa freme di risentimento contro i propri genitori e l'intero Bronx. Quando raggiunge il lungo tavolo che sta sotto al palco, Tristan ha già avuto modo di allestire una fantasia futura, il sogno ad occhi aperti di un ritorno-in-pompa-magna in cui la sua entrata fa voltare le teste e paralizza le parole in bocca alla gente, e il suo soprabito da solo ha più classe della somma di ogni punto su ogni pezzo di stoffa indossato dagli altri avventori. Questo sogno a occhi aperti è davvero patetico e lo scaccia via, non prima però di aver notato che un dottore/avvocato non potrebbe mai suscitare una medesima elettrizzata reazione. Siedono alla tavola degli altri cavernicoli, vestiti senza gusto come lui. Una dozzina di loro tiene la schiena ben dritta contro la sedia: esseri rigidi in un regno di curve, ascoltano con la testa piegata da una parte. Alcuni possiedono quaderni d'appunti come il suo. Dimostrano l'età di Tristan, il che vuol dire che invece hanno diciotto, diciannove anni. C'è una sola sedia vuota, in fondo al tavolo, mentre all'altro capo sta parlando un uomo che dev'essere per forza il professor Pendergast. Tristan ne vede prima di tutto il nero lucido dei capelli sulla nuca. L'insegnante fa una pausa, si volta, sorride. «Brodsky, dico bene?», intona con un pizzico di melodia: è chiaramente padrone della propria voce. Tristan annuisce. Pendergast è vestito da serata in centro. Pure i suoi baffi sottili sembrano pettinati e impomatati alla perfezione, come se un minuscolo animale gaudente, magari un cucciolo di mustelide, si fosse arrampicato sul suo viso e stiracchiato prima di fare un sonnellino. Una sigaretta in punta di dita arde sopra il posacenere, e il pacchetto di sigarette che tiene accanto all'altra mano, vicino a un accendino d'oro lucido, è di una marca che Tristan non ha mai visto. È un bell'uomo, bello in un modo in cui Tristan non oserebbe mai diventare. «Benvenuto al corso di letteratura contemporanea». Pendergast gesticola verso la sedia vuota e guarda l'orologio mentre Tristan prende posto. «Che ne dite di cominciare? No – un momento – chiedo umilmente scusa. Bisogna prima che Brodsky abbia qualcosa da bere». Alza un dito prima che Tristan possa anche solo decidere di protestare, e in un attimo un bicchiere pieno di un liquido ambrato gli viene posato accanto al gomito. Gli altri cavernicoli hanno ricevuto analogo trattamento. Tristan solleva il pesante bicchiere, beve un sorso esplorativo, ritrae le labbra e strizza gli occhi come ha visto fare a certi uomini nei film. Adesso capisce perché lo fanno. Lo scotch brucia, e lo trattiene in bocca un momento, perché si stemperi prima di inghiottirlo. Si sente in forma smagliante. Un piccolo brivido di calore gli si propaga nel corpo. «Come alcuni di voi signori avranno senz'altro notato», fa Pendergast, «questa non è una tipica aula universitaria». Una pausa per le risatine della classe e un sorriso indulgente del professore. È più giovane di quanto non dica il suo contegno. Trenta, tira a indovinare Tristan. «Né, mi duole informarvi, potremo rincontrarci qui dal temibile Oswald una seconda volta. Quella di stasera è una piccola ricompensa che spero vi guadagnerete nel prosieguo del semestre». Si interrompe ancora, stavolta abbassando il capo per intimidirli. «Io sono una nuova specie di insegnante», dichiara inarcando le sopracciglia, «e con il vostro contributo la vostra sarà una nuova specie di classe». Torna in posizione eretta, magistrale. «Questo semestre non leggerete letteratura contemporanea. Cari signori, voi la scriverete». | << | < | > | >> |Pagina 117RISK finisce il bicchiere e indica le scale col mento. Azzarda la domanda: «Come procede, al piano di sopra?»Tristan stringe le palpebre. «E che sarebbe, un'intervista? Va malissimo. Non ho più la resistenza per questo cazzo di lavoro». «Dici così da sempre. Ma ogni volta che vengo qui sei nel tuo studio». «E in tutto questo tempo cosa ho pubblicato? Un solo merdosissimo libro, l'anno in cui sei nato tu». «A me è piaciuto, L'organista». «Sei troppo giovane per capire quanto è brutto. Ho provato a essere un uomo del mio tempo, a seguire il corso delle cose una volta tanto, invece di oppormi, perciò ho scritto un romanzo di sesso. Ma io non sono così. Non ho mai tradito nessuno in vita mia. Sarò l'unico scrittore vivente a poterlo dire. È stato quel romanzo la mia sola infedeltà: ho tradito me stesso. Quella volta i critici ci hanno visto giusto; ho cestinato romanzi migliori. Ma avevo una voglia enorme di uscire dal deserto e pubblicare qualcosa». Ha detto molto più di quanto al solito non osi. «Raccontami di come lavori», fa RISK, incoraggiato ad approfondire. «Insomma, cominci dalla trama e...?» Tristan fa una smorfia. «Dio santo. Vuoi farmi morire? Se ne parlo ci rimango secco». RISK fissa il tappeto, pronto a sopportare i trenta secondi di silenzio imbarazzato che passeranno prima che il nonno decida da quale argomento ripartire. Dopo dieci secondi, tuttavia, decide di insistere. È il compito che gli spetta in famiglia, è così da quando era un poppante. Nessuno aveva mai osato disturbare Tristan prima della sua venuta; o perlomeno così la racconta sua madre. Ma a tre anni lui si era liberato dalla stretta delle proibizioni di lei — o era stata proprio la madre a lasciarlo libero? — e si era fiondato nello studio del nonno, arrampicandoglisi in grembo e provocando il suo disappunto e, dopo un momento di riflessione, la sua gioia. «Eddai, nonno. Dimmi qualcosa. Qualunque cosa. Non imparerò un cazzo da quei romanzieri falliti che insegnano lettere a scuola mia». Il vecchio sbuffa. «Cosa ti fa pensare che vuoi diventare scrittore?» «Sono bravo». «Non è un buon motivo». «Perché è meglio che lavorare...?» «Se è questo che credi, lascia perdere». RISK mette il tappo al pennarellone, se lo batte contro la mascella. «Voglio dare un senso a questo mondo così incasinato». Tristan porta i due bicchieri al mobiletto degli alcolici, li riempie di nuovo. «Direi che può bastare così. Finché non ti vengono risposte migliori». Passa a RISK il secondo scotch, più abbondante del primo, e torna a sedersi. «Pensa a quando devi cacare. Scommetto che ogni volta che ti pulisci il culo lo fai sempre allo stesso modo. Magari appallottoli la carta contro la coscia, o la pieghi sul palmo della mano. Non ha importanza. Il punto è che probabilmente non ti sei mai fermato a osservare com'è che fai questa cosa che hai fatto migliaia e migliaia di volte». «Uno scrittore ci fa caso». «No. Uno scrittore cerca qualcuno che gli pulisca il culo così può concentrarsi sulla scrittura». Tristan sorseggia lo scotch. «È una battuta. Sì, uno scrittore ci fa caso». Si passa un palmo sui soffici capelli bianchi. «Mi farebbe bene tagliarmi i capelli. O in alternativa comprarmi un violino». Posa gli occhi sul blocco che il nipote ha in grembo. «Che stai facendo?» RISK glielo mostra, anche se ha paura che la cosa gli sfugga di mano. «Cosa c'è scritto?» «RISK. È il mio nome di battaglia». Tristan strizza le palpebre. «Mica lo leggo». RISK gli evidenzia i contorni di ogni lettera. «È voluto. Dev'essere difficile da leggere. Solo un altro graff...» Si ferma, non vuole dire la parola. «Solo un altro writer lo riesce a leggere». «Writer, hai detto?» «I tipi che fanno questa roba tra loro si chiamano writer, scrittori. Perché usano le parole». «Capisco. Le metropolitane di New York un tempo erano coperte di questa roba, lo sai». RISK non riesce a trattenere un sorriso. «Sì, lo so. Pensavano che se scrivevano i loro nomi sui treni li avrebbero letti un milione di persone. È questo che attrae: la fama». «Scrittura e fama. Combinazione infernale. Ma li fai anche tu o ti limiti alla carta?» «No», risponde RISK, sentendosi avvampare il viso di calore. «Cioè, sì, in realtà li faccio. Sono pure abbastanza bravo». «E naturalmente è illegale». «Be', una parte del gusto sta nel non farsi beccare. E ci sono delle regole. La proprietà privata è off-limits, diciamo». «Sfigura il pubblico e rispetta il privato, ho capito bene? Comunismo al contrario?» «Non l'ho mai vista in questi termini. Di solito chi lo fa ha questa filosofia: il sistema ce lo mette nel culo, e noi rispondiamo, diciamo la nostra. Diamo bellezza alla città, o la distruggiamo. Sono due concetti intercambiabili, quando si tratta di writer». «Distruzione creativa. Proprio un comunismo rovesciato». Tristan si guarda le mani e il ghiaccio che va sciogliendosi. «Ne prendi un altro?» «Vieni con me», fa RISK. «C'è un deposito di treni merci a dieci minuti da qui. Ti faccio vedere come si fa». Il vecchio lo scruta per un istante. «Mi servirebbe un nuovo nome, vero? Non potrei scrivere Tristan Brodsky, o verrebbero a casa ad arrestarmi». RISK annuisce. «E poi è troppo lungo. L'ideale è tre-cinque lettere». Non sa dire se il nonno si sta facendo beffe di lui. Ma si sta già chiedendo dove rimediare qualche bomboletta e se Tristan è pronto ad ascoltare un'altra dura verità del gioco dei graffiti: che solo i pivelli comprano la vernice, e che il metodo di acquisizione universalmente accettato è il furto. «Che ne dici di BRONX? Suona sufficientemente tosto, vero?» | << | < | > | >> |Pagina 138Sbucano sulla Quinta Avenue, puntano in direzione sud, passando sotto le verandine parasole all'ingresso dei palazzi che arrivano fino al bordo del marciapiede. Jacob una volta aveva rimediato un colloquio per fare il portiere in un palazzo di questi. Era stato fregato dall'accento.«Molti miei autori ficcano la testa sotto la sabbia e non vogliono avere niente a che fare con questa roba. Credono che l'artista debba solo star chiuso nel suo studio a sniffare il cuoio muffito di edizioni pregiate di Milton e Shelley, cazzo, a infilare il pennino nel calamaio. Se funzionasse così io sarei uno stronzo felice, Tristan. Starei anch'io a casa a sviscerare Shelley. Ma l'editoria è un business come gli altri e se non vuoi restare l'ultima ruota del carro devi imparare come si gioca, che cazzo». «Sono tutto orecchi», fa Tristan, pensando che questi scrittori che non vogliono sporcarsi le mani col mondo letterario devono essere dei perfetti coglioni, o abbastanza ricchi da potersene disinteressare, oppure hanno trovato un modo per scrivere più sano e meno logorante del suo. Se li immagina che sbuffano il fumo di una pipa mentre la pagina si riempie di parole, e scompigliano i capelli dei bambini che gli si intrufolano tra i piedi mentre si preparano un brandy al termine del pomeriggio, e poi si rifugiano contro il corpo caldo di letto delle mogli e sospirano di soddisfazione mentre il sonno li coglie senza pensieri. «Bravo. E ora partiamo dalle basi: lo reggi l'alcol?» «Lo so reggere in mano». Loren annuisce. «Giusto. Allora fallo. Bevi a sorsi minuscoli. Impara a reggerlo. Non c'è niente di peggio di uno scrittore ubriaco. Seconda cosa: quando vieni a una festa con me dai per scontato che io sto cantando le tue lodi a tutti quelli che contano. Non mi sembri uno che se la mena, ma te lo dico comunque: non fare che entri alla festa e come una testa di cazzo ti metti a parlare di te a tutti. Lascia che sia io a prepararti il campo. Fai finta di non accorgerti se la gente ti guarda da lontano. Quando piano piano cominciano ad avvicinarsi e farti domande, mostrati sorpreso ma sii pronto ad incantarli fin nelle mutande. «Devi capire che queste persone nutrono un enorme rispetto per la letteratura e un'enorme stima di se stesse, e si aspettano perciò di vedersi presentare degli scrittori con una certa frequenza. Non c'è niente di meglio che scambiare due chiacchiere con uno scrittore genuino per far sentire realizzato un uomo che ha fatto fortuna, mettiamo, con il carbone. Questi ragionano come investitori: vogliono poter dire che c'erano dentro fin dall'inizio. Amano pensare di avere un ruolo nel tuo successo. Ed è così. Si comprano il tuo libro appena arriva in libreria, poi mi chiamano implorando di dare una festa per la pubblicazione». «Quindi sono dei lettori seri». «Alcuni sì. Le donne più degli uomini. Hanno più tempo». Loren si ferma all'angolo di un grattacielo, e Tristan getta indietro la testa per guardarlo in tutta la sua altezza: gesto inutile, si dice, e smette. «I padroni di casa stasera sono Maurice e Natalie Farber. Lui è nel tessile, nell'import-export e nell'immobiliare. Cose così. E sono filantropi. Lei si dà molto da fare. Donna di notevole intelligenza». «Sono ebrei». «Chiaramente. Non sei mica antisemita, vero?» «Be'...» «Senti. Gli editori non se ne sono ancora accorti, ma questi ebrei dell'alta società sono i nuovi arbitri del gusto. E andranno pazzi di te, Tristan, perché tu gli racconti cosa succede nel loro vecchio quartiere. Lo sai perché L'angelo è un meraviglia? Perché è un libro onesto, si sporca le mani. Questa gente ancora non lo sa, ma non vuole altro». Mentre la freccia sopra la porta dell'ascensore percorre tutto il semicerchio dal piano terra al superattico, Tristan si domanda se è vero che lo vorranno leggere: sia questa gente qui che tutti gli altri. L'angelo dello shtetl pullula di sarti, scarafaggi, ladruncoli, macellai, giocatori di dadi. Studiosi del Talmud le cui famiglie appena immigrate fanno la fame perché studiare è la cosa più importante che esista e loro si rifiutano di accantonare l'impresa della conoscenza per cercare un lavoro. Tristan ha scritto degli abiti informi e del fascino mite delle loro figlie bruttine e piene di ambizione, delle bocche tirate delle loro mogli incarognite, dei loro figli maschi che si spingono gli occhiali sul ponte del naso sudato cercando ostinatamente di diventare uomini nell'elusiva realtà del Nuovo Mondo. A raccontare la storia, immischiandosi con poco costrutto nelle vite dei suoi personaggi, è un angelo di nome Lew, macilento e ossessionato dalle costolette di maiale: l'emissario più scalcagnato di un Dio burocratico e oberato di lavoro, gravato di un debito ingestibile, ora furioso ora rassegnato per aver eletto come suo, tra tutti i popoli del mondo, proprio quello ebraico. Cosa fa di Tristan l'aver scritto questo libro? «Un autore» pare all'improvviso una risposta troppo ingenua, evasiva, ma non può permettere che gli si drappeggi sulle spalle il manto di Scrittore Ebreo. Se sia una cosa coraggiosa, codarda o impossibile da parte sua rifiutare che tradizione e ideologia lo definiscano e lo occultino come una maschera di Halloween mentre gli ebrei d'Europa vengono rinchiusi nei ghetti e spogliati dei loro diritti, Tristan non lo sa. Ma non può permettere che la sua vita sia un lungo giro nelle forche caudine dei caffè universitari, tra due file rivali che sbattono i pugni sui tavolini e pretendono a gran voce la sua fedeltà. Il mondo è il Bronx e il Bronx è il mondo. Non possono esiliarlo, costringerlo a tornare a casa perché insiste nel dire che parla solo per sé, rivendica il diritto di raccontare le storie che lo conquistano, e di lasciarsi conquistare da ciò che preferisce. Giusto? | << | < | > | >> |Pagina 148Passa quasi un anno prima che Tristan si ritrovi a estrarre dalla cassetta della posta una busta sottile senza mittente e se la infili nel taschino della giacca mentre corre, in ritardo come sempre, a prendere una metro che sale uptown. Il mondo è cambiato. Tristan è un autore pubblicato e il paese è in guerra ed essere ebrei ha preso l'ennesimo nuovo significato.Gli ebrei, nel conflitto, sono una questione secondaria; ciò che per loro è reale sembra irreale al resto del mondo, e così gli ebrei si tengono stretti e appartati nelle loro colonie lungo la costa orientale degli Stati Uniti, razza paranoica del passato, si scambiano voci di terza mano sul proprio sterminio, ne circola una ogni settimana. Alla seconda battaglia per Kharkov, così vuole l'ultimo racconto dell'orrore, i nazisti hanno sacrificato un vantaggio tattico – in pratica, hanno deciso di perdere – per poter rastrellare altri ebrei. Nessuno ci ha fatto caso quando i primi resoconti sulle leggi assurde e la violenza montante hanno cominciato a circolare negli Stati Uniti; nessuno ha voluto ascoltare quando sono cominciate le deportazioni. Ora dalle comunità ebraiche europee si leva solo il rombo di un assordante silenzio, famiglie di Rachael e Jacob comprese, eppure «la questione ebraica» rimane per Roosevelt di scarso interesse. Nel teatro globale della guerra, è un colpo di tosse dalla balconata. A volte Tristan proprio non riesce a concentrarsi sul foglio infilato nella macchina da scrivere. Ieri, dopo aver mangiato il solito piatto economico al Pluto's Diner, è rimasto lì per un'altra mezz'ora a origliare una conversazione di sussurri fra due vecchi ebrei, entrambi cupamente soddisfatti di avere infine una prova incontrovertibile di quanto hanno sempre sostenuto: che l'odio che il mondo nutre per la loro razza è vivo e vegeto e indisturbato. Un'ora dopo, aspettando la metro nella calca dell'ora di punta, Tristan si è trovato a venti centimetri da una giovane recluta in uniforme, a guardare gli occhi del ragazzo immaginandoseli brillare di terrore mortale e ardere dal desiderio gelido e ingenuo di uccidere. La sera, steso sul letto a leggere il New York Times, Tristan si è imbattuto nell'ultimo messaggio scritto di un suicida, un ebreo polacco in esilio a Londra, relegato nelle ultime pagine del giornale: Non era il mio destino morire con i miei compagni, ma io appartengo a loro, e alle loro fosse comuni. Con la morte spero di riuscire a esprimere più forte che posso la protesta contro la passività con cui il mondo rimane a guardare e permette lo sterminio del mio popolo. L'ha letto tutto per due volte, ha chiuso gli occhi, provato a capire perché un uomo preoccupato per l'annientamento della sua razza decida di uccidersi. Si è chiesto se vivere o morire richieda più coraggio di quanto ne abbia avuto quell'uomo, poi ha voltato pagina e si è dedicato allo sport, senza riuscire a trattenere alcuna informazione. Ha lasciato cadere a terra il giornale, sopra un numero del New Republic, da cui si deduceva che i suoi redattori erano altrettanto disgustati da Hitler e dalla rivelazione che Ezra Pound era antisemita. Infuria la guerra nei titoli di testa e nelle menti, nei piccoli orti di guerra alle finestre di ogni palazzo e nelle massicce navi da guerra che prendono vita a Brooklyn nei cantieri della marina militare. Le prove sono tutto intorno a Tristan, fino al risvolto dei pantaloni: quei pochi centimetri di tessuto in più indicano che i suoi pantaloni sono anteguerra, sono stati fabbricati prima che l'esercito dichiarasse la carenza di tessuti. Eppure lui ha ancora libri da scrivere, e un'immaginazione con la quale filtrare il mondo. Tristan non sa se sentirsi in colpa per le sue fughe quotidiane dalla realtà, o se compatire coloro che non hanno trovato sollievi analoghi. Ma è risoluto nel suo desiderio di conservare lo stesso senso della complessità delle cose che aveva prima del bombardamento di Pearl Harbor, e così non si aggiunge alle schiere degli orgogliosi, degli urlanti, dei disperati. | << | < | > | >> |Pagina 177Nina torna da dove era venuta, meditando che finché rimane con la band le sue possibilità di conoscere qualcuno sono pari a zero. Marcus cercherebbe di far venire i complessi ad ogni pretendente, e in sua assenza ci penserebbe Devon. Anzi, a pensarci bene tutti i ragazzi della band farebbero così; quelli che non si comportano da fratelli maggiori, si comportano da amici dei fratelli maggiori. Protettivi o possessivi, una segreta fratellanza incaricata di proteggere il sacro tesoro della sua verginità: non che sappiano che è vergine, grazie a Dio. Sarebbe un inferno.Il problema va oltre la vita in tour e l'ottetto. Va pure oltre Marcus Flanagan e le cazzate che pensa e dice. Nina non sa niente di come si flirta tranne ciò che ha visto fare a Devon: ma il suo vocabolario del superfigo, l'ironia che non diventa mai superiorità, la presunzione maliziosa, sessualmente carica, una donna non li può usare. Il linguaggio e i dogmi di Devon, Nina li ha assimilati come hanno fatto tutti i membri della band: è diventata l'ennesimo membro di una popolazione crescente di gente di jazz che emerge dagli insegnamenti del trombonista sotto forma di tanti piccoli Devon, assemblando in mille modi parole come anima e nobiltà, grandezza e sofisticatezza e concezione, sparando opinioni che non hanno studiato abbastanza a fondo per capire, e men che mai per divulgarle. A Nina, però, l'imitazione di questo modello permette di avere un'autorità di cui ha enorme bisogno. Si è costruita una personalità pubblica che scoraggia gli approcci e impone rispetto, ma facendo così si è desensualizzata. Bisogna passarci accanto moltissimo tempo, quello che ci passa Marcus, per capire quanto è bella: per andare oltre il suo guardaroba insignificante e la gestualità grezza e mascolina, che ha sviluppato per difendere un suo spazio tra quel genere di uomini che mangiano finché in tavola non resta più una briciola e anche in una metro affollata si siedono a gambe ben divaricate. Con Devon irraggiungibile e Marcus probabilmente ancora in camera sua, Nina non ha dove andare. Decide di scrivere a sua madre. Sono passati sei mesi dall'ultima volta, e il suo paese da allora è cambiato radicalmente. Lei l'ha visto accadere da lontano, come una straniera, ha passato le ultime due settimane di novembre appollaiata davanti ai televisori in una sfilza di alberghi, ha guardato la Rivoluzione di Velluto come l'ottetto guarda gli ultimi minuti di una partita di football. La trasformazione totale della Cecoslovacchia si è compiuta a una velocità impressionante. 16 novembre: gli studenti scendono in piazza; 17 novembre: scontri sulla via Národní; 18 novembre: sciopero degli studenti; 19 novembre: Havel, Forum Civico. Entro la fine dell'anno, il marxismo era stato eliminato dalla Costituzione. La Milizia del Popolo era stata disarmata, e ogni sua azione a partire dal 1948 dichiarata illegittima. I documenti dei servizi segreti dati alle fiamme; il filo spinato che un tempo percorreva il confine con l'Austria è ormai un groviglio di ferraglia. Abolita la censura. Oggi, il presidente è un drammaturgo. L'esaltazione di Nina è stata smorzata dalla consapevolezza di quante manovre, di quante migliaia di incontri segreti devono aver gettato le basi per questo colpo di stato senza spargimenti di sangue – e per i diciassette anni in cui ha arrancato sul suolo patrio socialista lei non ne ha saputo niente. Questa consapevolezza moltiplica le migliaia di chilometri che la separano da Praga. Non le appartiene nemmeno la rivoluzione. Rimpiange di non esser stata lì a fotografarla, ma non sarebbe valsa la pena di aspettarla neanche se avesse saputo per certo che doveva arrivare. Non scambierebbe la propria liberazione con quella della Cecoslovacchia, questa libertà per quell'altra. L'ufficio di Devon è sommerso di lettere di Rayna. Le segretarie le aggiungono ai pacchi voluminosi che aspettano la band alla reception di ogni albergo. La sua scrittura limpida riempie pagine e pagine di quella carta grigia e dura con cui Nina è cresciuta – chi lo sa, magari una multinazionale sta già inviando tonnellate di blocchi di fogli a righe blu made in America, e questa roba di pessima qualità sarà presto un ricordo. Ciò di cui Rayna sembra più eccitata non sono le elezioni per il parlamento o il fatto di avere di nuovo a disposizione libri a lungo proibiti, e non è nemmeno l'idea che Nina possa tornare nella sua città natale senza rischiare il carcere. Con gran dispiacere di Nina, la cosa di cui parla sempre sua madre è la libertà religiosa. Posso essere ebrea quanto mi pare, scrive estasiata, con calligrafia leggermente più larga, gonfia di euforia. Il viaggio in Israele del presidente Havel, accompagnato da un aereo carico di ebrei cechi, Rayna lo racconta in tutti i dettagli. Descrive i progetti di nuovi musei che onoreranno la vita di Kafka e gli ebrei assassinati a Theresienstadt come se fosse lei la curatrice. Vanno formandosi gruppi di studio sull'ebraismo, e Rayna pensa di partecipare. Non perché voglio diventare osservante, le scrive, come prevedendo la faccia di Nina, ma perché sono libera di farlo. Nina prende un blocco di carta intestata dell'albergo da un tavolo del pianoterra, si rintana in un angolo del ristorante vuoto, ordina una spremuta d'arancia e un croissant, che fa mettere sul conto di Marcus. Cara mamma, scrive, poi si trova a fissare il vuoto. È sempre il solito problema, il motivo per cui abortisce ogni tentativo di risposta. È ridicolo, è una vergogna, ma una parte di Nina odia la rivoluzione perché ha pulito ogni macchia del suo passato, rendendo le sue tribolazioni irrilevanti. L'orco che le ha portato via il padre, avvelenato la madre, che ha rinchiuso lei in una torre oscura, che ha sparpagliato nel mondo la sua famiglia come tante briciole di pane: il corpo di quel figlio di puttana giace coperto di polvere nella piazza del villaggio, abbattuto da una banda di paesani che brandiscono torce. Lo studente morto che ha dato il via all'insurrezione non è nemmeno morto davvero: si dice che sia un agente del KGB. E di questo che avevano paura? Da questo si nascondevano? Di questo parlavano a bassa voce per non farsi sentire? Nina allontana da sé il blocco. Tanto non è con la madre che vuole parlare. Ma con il padre. Miklos è il primo uomo che ha mai conosciuto, e adesso che vive tra uomini — che, a volte le pare, soffoca sotto il loro peso come una palla da football sommersa da una mischia — Nina vede suo padre in maniera più lucida. Ricorda di lui una gentilezza che da allora non ha più incontrato, e pensarci oggi, in un momento come questo, vuol dire costringersi a piangere. | << | < | > | >> |Pagina 222La ragazza dai capelli scuri alza di nuovo la mano. «Avrei una seconda domanda, signor Brodsky».«Visto che ho risposto con tanta eloquenza alla precedente». Prima di concentrarsi sul suo taccuino e girare pagina, la ragazza accenna un impercettibile sorriso. «Nella recensione a Catene su The Nation, Irving Howe ha scritto: "È quasi inconcepibile che all'indomani della più grande tragedia mai occorsa agli ebrei, uno scrittore di talento come Tristan Brodsky possa scrivere un libro così fuori luogo, così aggressivamente in dissonanza con il senso morale che questi tempi ci impongono"». Alza gli occhi verso di lui, si aggiusta gli occhiali contro il ponte del naso. «Giusto», fa Tristan. «Me la ricordo». «Le dispiace commentare?» Tristan sospira. «Mi ha ferito. Profondamente. Ma se Irving Howe – il cui vero nome, per inciso, è Irving Horenstein, e che mi ha insegnato a nuotare a rana nella piscina del City College nel 1938 perché potessi passare l'esame di nuoto e laurearmi in tempo – se Irving trova Catene inconcepibile è un problema suo. Non ci è andato leggero neanche con il libro di Ralph Ellison, per cui direi che sono in buona compagnia». «Come ha potuto farlo?» È il ragazzo in prima fila – in piedi, grida, le braccia alzate. Un accento inconfondibile. Un pezzo di Bronx è arrivato fin qui. Con la coda dell'occhio Tristan si accorge che Pendergast si è alzato e sta per intervenire. «Cosa le dà il diritto, signor Brodsky? A tal punto si odia? A tal...» «Non continui». Tristan tende all'interlocutore un braccio teso, un palmo aperto, sente il cuore aumentare i battiti e le ghiandole dell'adrenalina mettersi a pompare. Finalmente uno scontro fuori dai denti. Ci voleva il suo quartiere natale. «Fermiamoci a quella domanda», fa Tristan, e il ragazzo lascia cadere le mani sui fianchi. «Voglio rispondere. La risposta è no, non mi odio. Così come non mi odiavo quando ho scritto i miei due primi romanzi, se non altro: quelli che i recensori ebrei hanno ricoperto di lodi sperticate. E vi dico un'altra cosa. Quei libri erano pieni zeppi di stereotipi, di ebrei newyorkesi che si comportano esattamente come l'America si aspetta che facciano. «Ora che ho abbandonato i luoghi comuni, gli ebrei hanno abbandonato me. Vogliono riconoscersi nei libri, ma senza guardare in faccia la verità. Catene non è una fantasia generata dal disprezzo. Gli ebrei sono stati coinvolti nel mercato degli schiavi come tutti gli europei – e mi trattate come un paria perché ne scrivo? Stronzate. E scusate il francese. Non è il momento adatto? E chi lo dice? Mio padre è stato il solo di sei fratelli a lasciare la Polonia. Ha perso tutta la famiglia. Anche mia madre la sua: zii, cugini, tutti massacrati. Ma io sono un traditore se faccio notare che gli ebrei non sono sempre le vittime? Che anche loro sono stati schiavisti e assassini? «Ho scritto il falso? Nessuno ha detto che ho scritto il falso. Dicono solo che mi odio — piace così tanto l'espressione ebreo che si odia, che sembra proprio tagliata a pennello. Ma come possiamo arrivare a comprendere il male se non lo riconosciamo dentro di noi? Perché gli ebrei mi approvano quando sfrutto e smaschero le loro debolezze — quando i miei libri non sono altro che il crudo racconto delle esperienze di un ragazzino nel suo shtetl — e poi mi si rivoltano contro per lapidarmi quando poso lo sguardo su uno dei crimini più orrendi della storia? «Gli ebrei possono riconoscersi solo nelle rappresentazioni caricaturali? Perché siamo tanto a nostro agio quando ci vediamo ridotti a personaggi da cabaret? Sapete chi è che riempiva quei teatrini nel primo quarto di questo secolo, ridendo alla follia davanti all'ebreo avaro e trafficone, al buffone col naso a uncino e il viso sporco di stucco e il cappellino striminzito e l'accento yiddish incomprensibile? Chi è che comprava, secondo voi, gli spartiti per suonare "Yonkle l'Ebreo Cowboy" e "Mosè dirige la canzone col nasone", e si riuniva in famiglia attorno al pianoforte per cantarle? Gli ebrei! Chi altri? Gli stessi che scrivevano le battute e interpretavano i personaggi. Gli ebrei che ridevano degli ebrei, per potersi sentire ebrei! Dovrebbero ringraziarmi: io li ho fatti sentire nazisti!» | << | < | > | >> |Pagina 288Amalia mangia alla sua scrivania mentre rilegge le cose scritte la settimana passata e gusta il caffè. Ne beve poco, un paio di volte massimo a settimana, non vuole che il corpo si abitui alla droga. In questo periodo, Tristan ha bisogno di tre tazze forti per ingranare, e quando ormai i pensieri cominciano a scorrere, è costretto ad arginarli ogni quarto d'ora per attraversare il corridoio e andare a orinare. Spesso, rapito dalle proprie parole, ignora i bisogni del suo corpo fino all'ultimo secondo, poi quando sta per esplodere si precipita in bagno. Dallo studio di Amalia i passi del marito sembrano quelli di un elefante.Qualche anno fa Amalia gli ha regalato per scherzo un pitale all'antica. Tristan lo tiene in cima a una libreria del suo studio e lo indica agli ospiti che fanno il giro della casa. Amalia avrebbe preferito che al suo unico scherzo scatologico non capitasse in sorte un'eterna esposizione a un pubblico così vasto. Si chiede se il fatto che a Tristan piaccia tanto quella sua concessione alla volgarità significhi che in generale la ritiene una bacchettona. È possibile; non si può conoscere ogni idea bizzarra del marito. Ma è altrettanto probabile che Tristan sia felice di possedere un totem che attesta la ferocia del suo rigore professionale. Che uomo che sei, Tristan. Che uomo forte, virile, inarrestabile. E tu allora cosa sei?, protesta Amalia con se stessa. La paziente stimolatrice di emozioni? Il sesso debole, troppo confuso dal sentimento per stringere gli occhi e marciare verso la grandezza? A volte le sembra che ciò che tiene in piedi il loro matrimonio sia la mutua consapevolezza che Potrebbe Andar Peggio. O meglio: che Potrebbe Andar Peggio per lei. Malgrado tutti i suoi limiti, sanno entrambi che sul piano evolutivo Tristan stacca di molte spanne gran parte dei rappresentanti del suo sesso. Tante donne in gamba come lei hanno sposato Uomini In Carriera che deridono ogni interesse delle loro mogli che non sia cucinare, pulire, far le madri. Ed è solo dopo che quest'uomo ti ha corteggiata e conquistata e spedita ad abitare in un quartiere sterilizzato che gli viene comodo per andare in ufficio, dove nessuno può udirti gridare, che cala la maschera e scopri che tuo marito, il padre di tuo figlio, è anche lui un bambinetto che ti vuole per madre. E che si trasforma in tuo padre appena il più crudele dei suoi desideri non viene soddisfatto. E dopo quindici anni di vita residenziale, se e quando hai finalmente il coraggio di lasciarlo, ti ritroverai senza soldi, senz'arte né parte, con un'idea vaghissima di ciò che sei. Fra le donne cui insegna alla Southern Connecticut State University ce ne sono sempre più di questo tipo: alla sua stessa età tornano al college e hanno in viso maschere di paura e determinazione. Arrivano alla prima lezione in fili di perle, tacchi e trucco, per conservare qualche tratto civettuolo delle studentesse che si ricordano di esser state — portano i libri premuti al petto, o si procurano un astuccio come quello usato vent'anni prima, nei tre semestri di college completati prima di conquistare il titolo di Sig.ra. Con queste donne Amalia fa il possibile per essere gentile e disponibile. Non per ragioni di empatia, della serie «ringrazio il Signore, perché potevo fare anch'io la vostra fine», ma perché hanno troppe poche alleate in un campus fatto a misura di gente che ha la metà dei loro anni. Il corpo insegnanti è pieno di uomini che in queste donne già intravedono il collasso dei propri matrimoni e forse perfino della civiltà occidentale, e le trattano perciò con tutta la crudeltà che possono permettersi.
Amalia assiste con orgoglio al momento in cui le donne
abbandonano i fili di perle e poi i tacchi e più avanti, in certi
casi, una metà del trucco. I ragazzi scrivono spaccone imitazioni di Hemingway,
le ragazze smielati melodrammi di cartapesta, queste donne invece producono
pagine oneste, brutali, pensate. Capita pure che una di loro si metta insieme a
uno studentello, e Amalia guarda la coppia a passeggio nel
campus, le braccia strette alla vita l'uno dell'altra, ma non
ammette con se stessa che il sentimento che maschera come
amicizia – ma che bello, sono contenta per lei – è in realtà invidia: magari
qualcuno mi toccasse così.
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