Copertina
Autore Raffaele Mantegazza
Titolo I buchi neri dell'educazione
SottotitoloStoria, politica, teoria
EdizioneEleuthera, Milano, 2006, didascabili , pag. 116, cop.fle., dim. 110x180x8 mm , Isbn 978-88-89490-23-5
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe pedagogia , storia , politica , scuola
PrimaPagina


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Indice


INTRODUZIONE                                        7
Alla ricerca del nero più nero


CAPITOLO PRIMO                                     11
Educati all'oblio. Il buco nero della storia

1. La rimozione della storia
2. Una pedagogia dell'impromptu
3. Contravveleni: la storia passata a contropelo

CAPITOLO SECONDO                                   47
Educati al narcisismo. Il buco nero della politica

1. La denigrazione della politica
2. Una pedagogia del narcisismo
3. Contravveleni: una pedagogia del prepolitico

CAPITOLO TERZO                                     81
Educati all'ignoranza. Il buco nero della teoria

1. L'esilio della teoria
2. Una pedagogia dello spontaneismo
3. Contravveleni: pensare di più

BIBLIOGRAFIA                                      113


 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE
Alla ricerca del nero più nero



Il nero è il più affascinante e il più terribile dei colori:

Come un nulla privo di possibilità, come un morto nulla dopo lo spegnersi del sole, come un eterno silenzio senza futuro e senza speranza; come il silenzio del corpo dopo la morte, dopo la conclusione della vita, insensibile a tutto ciò che gli accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso.

Il nero è il colore del negativo assoluto, del silenzio e dell'annichilimento. Ne sono testimonianza e memoria l'«urlo nero» del partigiano ucciso dai nazisti, il «nero latte dell'alba» bevuto dalle popolazioni civili durante il delirio del III Reich, le «nere stelle» viste da Primo Levi dal filo spinato di Fossoli. A livello cosmologico un buco nero, ovvero ciò che rimane dopo il collasso gravitazionale di una stella, è un terribile e mostruoso oggetto nel quale lo spazio e il tempo diventano infiniti: oggetto caratterizzato per noi umani da disumanità e mostruosità, da assenza di senso del limite, tanto che nessuna particella di energia ne può sfuggire; oggetto totalizzante e totalitario, simbolo della fine di ogni possibile esperienza, della impossibilità stessa della vita. Sfuggire da un buco nero sembra la massima aspirazione di ogni particella di energia nell'universo, entrarvi e rimanervi intrappolati sembra il destino peggiore che si possa augurare a qualsiasi forma di vita. Ma tanti romanzi e racconti di fantascienza, tante narrazioni di letteratura di anticipazione, prendono le mosse proprio dall'ingresso in un buco nero; solo affrontando il terrore e la paura di entrare nel nero più profondo è possibile raccontare storie che non siano meramente consolatorie, sciocche o banali. Solo le storie strappate con coraggio al nero, al più nero dei neri, hanno la potenza resistenziale propria delle vere narrazioni. Al fondo del buco nero c'è allora una luce mai vista, un colore mai gustato, qualcosa per cui vale la pena iniziare il viaggio che tanto ci spaventa, l'immersione nell'abisso, la discesa nel maelström. Allo stesso modo, è solo affrontando la radicale sconfitta, il disgusto e il trionfo del nulla mostrato dal nero, è solo non distogliendo lo sguardo dai neri abissi di inumanità e di dolore inutile che caratterizzano la nostra vita sulla Terra che la pedagogia può forse contribuire all'emancipazione umana. La pedagogia e l'educazione possono e devono farsi mimesi della violenza e del negativo proprio osservando il nero e rifiutandosi di non vederlo. L'occhio che sappia scrutare il nero dell'abisso senza restarne affascinato potrebbe forse contribuire all'uscita dall'abisso, proprio attraverso la dissonanza che ogni colore causa quando si colloca sullo sfondo del nero, proprio perché

[su uno sfondo nero] ogni altro colore, anche quello che ha il suono più debole, acquista un suono più forte e più preciso.

proprio in virtù della tenue traccia che ogni accenno di vita provoca quando è strappato alla morte e al nulla. Il nero è un punto definitivo, «ciò che è stato concluso da questa pausa è per sempre finito, compiuto»; ma ciò significa anche che «un'eventuale prosecuzione si presenta come l'inizio di un nuovo mondo». Solo guardando fino in fondo il nero è possibile, con un lieve tocco di colore, iniziare ad attraversare il negativo, fondare un mondo nuovo.

La storia, la politica, la teoria: sono questi a nostro parere i buchi neri che la pedagogia contemporanea non ha più il coraggio di attraversare e nemmeno di osservare; sono questi i territori che sono stati sbrigativamente dichiarati off limits da una pedagogia dalle armi sempre più spuntate contro le astuzie del potere (e dunque sempre più benvenuta alla tavola dei potenti). Presentare la storia come inutile peso sulle spalle degli uomini o come accumulo di morti e di macerie, la politica come amministrazione dell'esistente o come utopistico progetto destinato al fallimento, la teoria come ozioso passatempo per colti o come complicazione della vita così semplice e chiara: queste le colpe di tanta pedagogia, questi gli escamotages poco dignitosi e un po' vili per sfuggire al dovere di fissare lo sguardo nell'orizzonte del nero più nero. Certo, la storia è stata anche ammasso di morti, la politica è stata anche ridotta a scaltra e disonesta amministrazione, la teoria è stata anche vuoto gioco di false dialettiche: proprio per questo, e senza ignorare tutto ciò, riprendere a parlare della storia come bilancia sempre in bilico tra emancipazione e barbarie, della politica come tentativo di mettere in atto il sogno umano di una società giusta, della teoria come vera e più profonda forma di prassi intellettuale e pedagogica, è un dovere ineludibile per una pedagogia che voglia ancora pensarsi come scienza dell'emancipazione e della liberazione dell'uomo, della donna, dell'animale e della pianta. Ed è, molto più umilmente, il tentativo di discorso attorno al quale ruoterà la riflessione contenuta in questo breve libro.

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CAPITOLO PRIMO


Educati all'oblio


Il buco nero della storia



                    L'elemento storico nelle cose non è che
                    l'espressione della sofferenza passata.

                                          Theodor W. Adorno



1. La rimozione della storia

Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante e perciò né triste né tediato.

Un novello Nietzsche che nel nostro secolo volesse mettere mano a una riscrittura della II inattuale probabilmente utilizzerebbe di nuovo questo suggestivo incipit per la sua opera, ma altrettanto probabilmente ne muterebbe il segno. Da descrizione di una vita animale nei confronti della quale l'uomo gravato dal peso della storia sente nostalgia e desiderio, queste righe si muterebbero in descrizione della situazione umana agli inizi del Terzo Millennio. Nel manifesto nietzschiano dell'antistoricismo la descrizione del gregge che vive solo nel presente serve a ricordare all'uomo che la vita non può essere soggiogata al peso immane della storia:

L'uomo (...) resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte, questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello.

Oggi il peso non c'è più, il fardello è stato abbandonato: ma l'uomo e la donna non vivono certo in un mondo felice; semmai si attaglia perfettamente a essi la descrizione del gregge:

L'animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione.

Le cose sono radicalmente mutate: il peso della storia monumentale e della storia antiquaria non si è mutato nel compito di costruire la storia critica, come voleva Nietzsche: semplicemente ci si è liberati dalla soma della storia tout court, la si è espunta dal linguaggio, dalle considerazioni quotidiane, dalle dissertazioni dotte, dalle tesi di laurea, dalle discussioni politiche. Siamo forse nella prima epoca astorica della storia dell'umanità. E in quest'era si pascola e si saltella avanti e indietro, si mangia e si digerisce, vivendo solo il presente piacere e dolore, attaccati al piolo dell'istante e finalmente liberati da ogni eredità e da ogni compito.

A chi volesse spacciare questa vita da gregge con la libertà finalmente ottenuta, basterebbe mostrare la montagna di morti che la storia ha prodotto e che continua a produrre; basterebbe sottolineare la continuità della barbarie di oggi con quelle di ieri, evidenziare come le promesse di emancipazione e liberazione umana formulate da tutte le grandi ideologie e religioni non sono state mantenute e proprio perciò conservano la loro straordinaria urgenza e attualità. Ma ciò non può accadere: perché l'uomo a-storico del XXI secolo, lungi dall'attingere dalla dimensione critica della storia la forza per pretendere che le promesse vengano mantenute, le ha semplicemente dimenticate. Loblio della storia, il gesto disinvolto con il quale l'uomo si è liberato di quello che riteneva un insopportabile basto ha cancellato tutto: massacri e promesse, inganni e speranze di una vita vivibile, il tutto trascinato via da una corrente di pensiero e di azione che vuole vivere ogni giorno come se fosse il primo e che gira il capo infastidita quando le si mostrano in un qualsiasi passato le radici del presente, speranze o ingiustizie che siano.

Occorre ovviamente non farsi ingannare: vive nel presente solo chi se lo può permettere; per i due terzi dell'umanità il presente è morte per fame e per sete, per guerra e per terrorismo; per i due terzi dell'umanità la storia non è rimovibile e cancellabile semplicemente perché si ripete ogni giorno da millenni sotto la maschera della morte ingiusta. Coloro che invece, al riparo del comodo scudo delle differenze di classe, godono di una vita opulenta e senza sforzo, possono pensare davvero di liquidare la storia con tutto il suo peso. La liquidazione della storia, l'oblio della dimensione storica è una scelta di classe, l'ultimo salto mortale della coscienza oppressiva del potente e del dominatore che non permette al dominato più nemmeno la possibilità di scrivere la memoria delle ingiustizie subite.

La tragicità della situazione presente, che non può non fare sentire le sue conseguenze anche sulle pratiche educative e sulla riflessione pedagogica, è tutta in questa duplice dimensione che la questione della storia assume oggi: per chi soffre, per chi muore ingiustamente, la storia viene percepita come ingiustizia continuamente rinnovantesi, per i perpetratori dell'ingiustizia o per osservatori silenti, essa viene semplicemente cancellata. È facile scorgerne i motivi: affrontare le tematiche del terrorismo «islamico», delle immense migrazioni, delle carestie e della fame da un punto di vista storico, significherebbe cogliere le ingiustizie che sono state e rimangono alla base di questi fatti tragici: significherebbe parlare dell'11 settembre anche a partire dalla lettura dell'imperialismo occidentale nei paesi islamici, parlare delle migrazioni soprattutto a partire dalla sistematica spoliazione delle ricchezze africane da parte dei paesi del Nord del mondo; significherebbe in una parola mettere le ingiustizie e le disparità sociali al centro di un pensiero storico-processuale: cosa che chi muore a causa di tali ingiustizie non si può permettere di fare perché non ne ha letteralmente il tempo, e che chi ingrassa sulla base di tali disparità non ha il minimo interesse a fare.

La storia si ripete ma si ripete non capìta; e proprio la rinuncia a capirla, la rinuncia a farsi carico del suo peso per liberarsi finalmente dell'ingiustizia che essa porta con sé, è la migliore garanzia del suo ripetersi all'infinito: il cerchio continua a chiudersi senza che vi sia nessuno che ne disegni il contorno per cercare di spezzarlo. La storia è allora diventata un incantesimo: come nelle antiche malie di streghe siamo condannati a ripercorrere sempre la stessa strada, e la via della comprensione e del giudizio, che permetterebbe finalmente di uscirne, sembra per sempre sbarrata. La cecità nei confronti della storia permette alla preistoria della barbarie di continuare a rinnovarsi. E allora «vivere solo nel presente» non costituisce affatto (ancora) la raggiunta benedizione messianica di una vita finalmente liberata dal bisogno e dal dolore:

Non affaticatevi dunque dicendo che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani, il Padre vostro celeste sa infatti di che cosa avete bisogno.

Oggi vivere nel presente significa permanere all'interno dell'incantesimo dell'eterno ritorno del sempreuguale (che ha nome sterminio e barbarie) e soprattutto precludersi una possibile strada verso il futuro; quello che l'uomo a-storico del XXI secolo non capisce (o capisce fin troppo bene) è che la chiusura della strada alle sue spalle provoca un uguale sbarramento della via verso il domani. Con la storia si uccide anche il futuro, un diverso futuro.

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Ma anche quando la storia entra a fatica e non desiderata all'interno delle pratiche educative, essa è sempre e soltanto storia occidentale: le correnti migratorie e la globalizzazione non hanno portato a una revisione del carattere occidento-centrico dell'insegnamento e soprattutto della percezione della storia. Si continua così a dire che la filosofia è nata a Mileto (il che non è vero neppure per la filosofia occidentale), che l'America è stata «scoperta» nel 1492, che la «vera» musica nasce con il contrappunto; si continua ad applicare il calendario cristiano (avanti Cristo/dopo Cristo) a tutte le culture (spiegando ad esempio la storia orientale – le poche volte che la si spiega – unicamente utilizzando date occidentali) e a tutte le epoche, spesso senza neppure ricordare perlomeno l'esistenza dei due calendari islamico ed ebraico. Il conteggio delle date e dei ritmi della natura codificato dall'Occidente colonizza tutti i processi educativi (cosa resa ancora più grave dalla presenza di numerosi ragazzi e ragazze di altre culture) e viene soprattutto fatto passare come «naturale». La naturalizzazione del modo occidentale di misurare e narrare la storia è solo l'altra faccia dell'oblio della dimensione storica nelle pratiche formative: quando la storia non si può proprio ignorare, la si rende «oggetto naturale», prendendo in considerazione un solo modo di narrarla (il «nostro») ed estendendolo arbitrariamente – operazione che del resto è il vero segreto della cosiddetta globalizzazione – a tutto il mondo.


3. Contravveleni: la storia passata a contropelo

Non siamo obbligati a ricordare; la memoria non è un dato, non è qualcosa di scontato, non è semplicemente una facoltà dello spirito; ricordiamo perché scegliamo di ricordare, perché selezioniamo quello che ci serve ricordare sulla base di un progetto di vita; la memoria è il prodotto di un'azione consapevole (o inconscia) dell'essere umano ed è perciò figlia di una decisione che è anche politica. Come l'oblio, anche la memoria deve essere scelta; e non è detto che questa sia sempre migliore di quello. Dimenticare almeno in parte l'offesa subita può contribuire a un mondo migliore molto più di una memoria che porti a perpetrare nuove stragi per vendicare le antiche. La memoria dei martiri può costituire una opzione educativa che sottolinei l'atrocità dei martirii e l'inutilità dei massacri; ma se tale memoria dà luogo a deliranti affermazioni sulla superiorità della «nostra terra intrisa del sangue dei martiri», forse è davvero meglio un po' di quel salutare oblio che manca al personaggio della novella di Jorge Luis Borges, che muore per un eccesso di memoria. Restituire alla memoria e all'oblio la loro dimensione politica significa deprivatizzare le memorie, ri-socializzarle, farle diventare patrimonio della collettività e dell'umanità. Il dibattito sull'uso pubblico della storia ha sottolineato come il «fare storia» sia immediatamente legato al «fare politica»; nel senso che a essere politici, a essere legati a un progetto di vita e di società, sono gli oggetti da ricordare, le strategie del ricordo, le parole della memoria.

Il primo contravveleno per l'oblio della storia nelle pratiche educative è allora una re-impostazione del dibattito sulla memoria e sull'oblio: un dibattito che ricordi anzitutto che la dimensione della memoria è strettamente connessa alla dimensione del tempo, una connessione che ha senso soprattutto se il tempo viene inteso come morte, caducità, irreversibilità; ricordiamo perché dobbiamo morire, come soggetti singoli e come umanità: e proprio lo sfondo della morte, e la differenza tra i modi di morire, fonda la politica della memoria. La memoria prende sul serio l'annichilimento delle cose nel grembo del tempo, così come la non reversibilità delle azioni umane; una politica della memoria, una pedagogia della memoria, porta a una educazione alla responsabilità, perché mi mette in condizione di comprendere come il mio gesto, la mia azione, la mia parola non siano indifferenti al trascorrere del tempo e comunque avranno la possibilità di non risultare indifferenti, per noi e per gli altri e le altre. Ma è anche vero che se l'uomo prendesse troppo sul serio l'irreversibilità delle azioni e dei fatti, allora ricordare sarebbe poco più di un monotono gioco di società. Al crinale tra conservazione e distruzione, al limitare tra irreversibilità e perdita, la memoria ha il duplice scopo di non far perdere qualcosa che il tempo sfoglierebbe e di consegnare all'oblio ciò che si sceglie (anche per salvaguardare la propria igiene mentale) di non ricordare.

Ma la riattivazione di una memoria o di un oblio critici necessita una riattivazione della soggettività: solo il soggetto può ricordare, la riflessione critica sulla storia «esige il soggetto intero», esige che in nome dell'irrinunciabile obiettività scientifica che indaga sui fatti non si sacrifichi il momento soggettivo che interpreta gli eventi: la dissoluzione del soggetto è dissoluzione della memoria, così come la riduzione della storia a mera successione di fatti, non rifratti dallo specchio sfaccettato delle singolarità individuali, uccide la storia come ambito di vita, di scambio, di politica. Ricordare e obliare è possibile solamente in uno spazio di resistenza del soggetto; ma la storia dal punto di vista del soggetto perde la sua piatta linearità:

La linea della vita (...) procede storta, deviata, deludente rispetto alle proprie premesse, e solo in questo decorso, in quanto è sempre meno di quello che dovrebbe essere, è in grado di rappresentare, nelle condizioni date dell'esistenza, un'esistenza non regolamentata.

Nei processi educativi, dunque, a fianco alla dimensione lineare del succedersi degli eventi storici, occorre prevedere la possibilità di restituire i percorsi complessi e ingarbugliati della memoria, attuando la copresenza di più codici di lettura dell'evento analizzato e rinunciando, almeno in prima battuta, a una applicazione meccanicistica della logica causa-effettuale.

Ma per fare storia e per fare memoria non basta la soggettività, altrimenti la storia si ripiegherebbe sulla dimensione dell'autobiografismo, escludendo del tutto la necessaria dimensione dell'alterità; occorre allora chiedersi perché/per chi fare memoria, e già questa domanda costituisce una doppia apertura dello scrigno della storia: apertura all'altro/a, ma anche apertura al futuro.

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CAPITOLO SECONDO


Educati al narcisismo


Il buco nero della politica



        Alla domanda circa il fine della società emancipata ( ..) risposta
          più delicata sarebbe (...) che nessuno debba più patire la fame.

                                                         Theodor W. Adorno



1. La denigrazione della politica

Nel 1932 la cittadina tedesca di Thalburg viene scossa da due denunce da parte del Partito socialdemocratico, entrambe riguardanti il mondo della scuola: la SPD denuncia che nella scuola della città un insegnante fa politica nazista e scrive slogan nazisti sulle lavagne e che durante una gita viene fatto il saluto nazista. Ma «se i socialisti pensavano che queste accuse guadagnassero loro l'appoggio del ceto medio erano in errore»; non solo la denuncia cade nel nulla ma viene presa con fastidio, come se riguardasse qualcosa di cui non vale la pena di parlare: è l'episodio che convince la popolazione e gli stessi socialdemocratici (in ritardo) che l'affermazione del nazismo è vicina.

Se abbiamo iniziato il presente capitolo con questo esempio, e se per tutto il capitolo continueremo a rifarci a esempi presi dalla crisi della Repubblica di Weimar, non è perché crediamo che la storia possa ripetersi (semmai con Marx siamo convinti che i fatti storici presentatisi la prima volta come tragedia si ripetono poi come farsa), ma perché riteniamo che certe dinamiche del potere e del dominio, soprattutto in campo pedagogico ed educativo, presentino alcune invarianti che, mutatis mutandis, si presentano ogni volta che un regime democratico è in crisi. E non si tratta di una crisi unicamente politica, ma di una profonda crisi di legittimazione emotiva, affettiva e pedagogica delle strutture della democrazia, dunque di una crisi che non può essere risolta unicamente sul versante della politica, o – il che è lo stesso – che deve prevedere un radicale ripensamento del modo di fare politica e delle sue connessioni con l'educazione e la pedagogia.

Forse siamo entrati in un'epoca della storia che, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale e soprattutto l'Europa e l'Italia, vede a livello sociale il predominio dell'«uomo apolitico»: quell'uomo apolitico che era il vero obiettivo del nazismo, una apoliticità intesa «non come stato passivo ma come atteggiamento altamente attivo, come difesa nei confronti della responsabilità sociale». Si tratta di una persona per la quale la politica è un concetto astratto, costituisce la radice di tutti i mali; l'affermazione che troviamo più spesso sulla bocca di queste persone è che «tutti i politici sono uguali», perché «la politica è una cosa sporca». Spesso il tutto è correlato con l'associazione del concetto di politica alla violenza e al pericolo fisico, e a un alto grado di irresponsabilità sociale: la politica non viene sentita come qualcosa che possa risolvere i propri conflitti personali, e dunque viene lasciata ad altri, come affare di professionisti o come arena nella quale vengano giocate le passioni più violente.

È proprio su quest'uomo apolitico che ha fatto breccia negli anni Trenta la demagogia nazista; perché è proprio quest'uomo apolitico che è pronto a schierarsi e a mobilitarsi a fianco di quei gruppi o partiti che, confermando l'idea che la politica è associata alla violenza, gli facciano però credere di prenderlo sotto la loro protezione, di essere «dalla sua parte». Nelle elezioni del 1930 (data della loro prima vittoria significativa) i nazisti conquistano soprattutto il voto di coloro che non sono mai andati a votare: i giovanissimi o gli astensionisti. La propaganda dei partiti di sinistra non raggiunge nemmeno coloro che già sono orientati a sinistra. Qualcosa si è rotto non solamente nel rapporto tra la sinistra e quello che socialmente avrebbe dovuto essere il suo elettorato di base, ma proprio nel rapporto tra la democrazia e le masse; queste ultime non sentono più la democrazia come qualcosa che le riguardi, come qualcosa per la quale valga la pena preoccuparsi. Così trionfa «un partito senza storia che affiora improvvisamente (...) per la prima volta nella storia».

È facile vedere come ogni volta che la politica viene denigrata in modo sistematico, e soprattutto ogni volta che nei giovani e nei meno giovani non si attua più la identificazione tra il sistema politico e il proprio mondo interiore, il mondo delle passioni e delle emozioni, delle speranze e delle paure, la democrazia è in pericolo. Anche una carta costituzionale di elevati principi, anche una democrazia formalmente validissima possono poco di fronte a una questione che è sia politica che pedagogica. E infatti poco poté la democrazia tedesca di fronte alla crisi emotiva della Repubblica di Weimar e alle efficaci strategie di autorappresentazione dei nazisti. In un contesto nel quale la politica veniva associata (non sempre a torto) a discorsi astratti e noiosi, a personaggi privi di fascino e spesso ripetitivi, la prima immagine dei nazisti era quella di personaggi vigorosi ed entusiasti, che non comparivano mai in pubblico da soli, dotati di fervente patriottismo e violento militarismo, con una straordinaria capacità organizzativa dimostrata da subito; le ideologie complementari del Blut und Boden, della patria e della famiglia, per certi versi anche l'antisemitismo, presenti fin da subito nei discorsi nazisti, erano quasi secondari di fronte agli aspetti che potremmo definire di immagine e di autorappresentazione: i nazisti erano belli e forti, decisi e virili, il contrario dell'immagine pregiudiziale del politico; non perdevano tempo in chiacchiere, ma agivano, si mostravano in tutta la loro forza come intenti a modificare realmente la società. Si può ridere finché si vuole delle manifestazioni coreografiche naziste e fasciste, ma non si deve sottovalutare la loro presa (almeno nell'immediato) su una popolazione che era per larga parte del tutto indifferente per quanto concerne i linguaggi della politica democratica.

Non si creda che questa degradazione della politica sia solamente il preludio a dittature o a regimi totalitari; in realtà nel seno stesso delle democrazie è possibile riconoscere la degenerazione dei rapporti sociali e politici che trasforma la democrazia in un qualcosa di meramente formale.

Non conosco spettacolo al mondo più miserabile e più vergognoso di quello offerto dalle varie cricche (non meritano il nome di partiti) che dividono oggi l'Unione. Rendono manifesti agli occhi di tutti le piccole e vergognose passioni che le travagliano e che in genere si ha cura di nascondere nel fondo del cuore. Quanto all'interesse del paese, nessuno vi presta attenzione e se ne parla soltanto per formalità.

La descrizione della politica statunitense che Tocqueville ci offre è applicabile a molte democrazie europee attuali, oltre ovviamente agli Stati Uniti di Bush:

È una cosa pietosa vedere che diluvio di grossolane offese, quante piccole maldicenze e quante grosse calunnie riempiano i giornali che sono organi dei partiti, e con quale spudorato disprezzo delle convenienze sociali trascinino ogni giorno davanti al tribunale dell'opinione pubblica l'onore delle famiglie e i segreti dei focolari domestici.

Scadimento della politica a cattiva amministrazione dell'esistente; eliminazione dal dibattito politico di qualsiasi riferimento a ideologie, progetti di società, riforme reali; trasformazione del confronto politico in mera successione di attacchi personali: crediamo non sia difficile scorgere in tutto ciò la traccia delle patologie della politica odierna. Una politica che mostra altri inquietanti paralleli con gli anni dei totalitarismi europei, se li si analizza nell'aspetto di consolidamento del potere acquisito con le elezioni. Lo svuotamento di senso degli organi amministrativi, oggi sempre più diffuso nel momento in cui si rafforzano gli esecutivi a scapito di qualsiasi organismo di discussione e di controllo, porta alla trasformazione della politica in decisionismo; anche lo svuotamento di senso cui vengono sottoposti i riti e i luoghi tradizionali del dibattito democratico (si ricordi l'«aula sorda e grigia» che per Mussolini era il Parlamento, da trasformare in «bivacco per i manipoli») ha un forte effetto pedagogico: la prima seduta del nuovo consiglio comunale a Thalburg dopo l'affermazione dei nazisti non si tenne nella sede del municipio ma nel più grande albergo della città e fu caratterizzata dalla messa in ridicolo dei socialisti, ponendosi come modello delle sedute successive. Conosciamo parecchi capi dell'esecutivo e ministri che fanno politica in televisione o allo stadio, eliminando virtualmente il Parlamento dalla loro agenda o recandovisi di malavoglia quando proprio non se ne può fare a meno (e trasformando anche questa presenza in una performance teatrale). Altri riti, potentemente simbolici, vengono allora sostituiti a quelli classici (e in crisi) della democrazia: dalle strategie di rinominazione, che portano ad esempio al rifacimento della toponomastica, alla rottura delle solidarietà sociali che svuotano di senso la possibilità per i cittadini di ritrovarsi e «fare politica» nel senso di mettere in comune i propri problemi e le risorse per risolverli; alla privatizzazione delle questioni sociali, che potenzia la tendenza a trattare le questioni sociali, mediche, scolastiche, ognuno per se stesso o per la propria famiglia; all'uniformità ideologica anche nelle attività non direttamente politiche. Illuminante a questo proposito il concetto di Gleichschaltung.

Nessuna delle misure prese dai nazisti nei primi sei mesi del III Reich ebbe (...) un effetto maggiore della Gleichschaltung, che distrusse gli aspetti esterni della rigida struttura di classe e trasformò i thalburghesi in quella specie di massa disorganizzata che i dittatori amano tanto...

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L'effetto di tutto ciò è l'ignoranza; dalla quale ci si difende nel modo classico: negandola e cercando di non vederla. Ma i ragazzi e le ragazze che si iscrivono al I anno di università non sanno niente, o meglio non sanno niente di quello che sarebbe opportuno sapere per frequentare l'università. Nella stragrande maggioranza non sanno leggere un testo ricavandone le informazioni fondamentali, non sanno scrivere un testo coerente e logico, non possiedono la capacità di trarre da una lezione una sintesi decente, di redigere una bibliografia, di posizionarsi criticamente nel ruolo di studente/ssa. Qualcuno, consolandosi e autoassolvendosi, vorrebbe convincerci che in realtà i giovani sanno altre cose e seguono altre logiche, e che è il mondo adulto a dover cambiare, a doversi adattare, insomma che gli ignoranti siamo noi. Certo che un cinquantenne è più ignorante di un adolescente nella gestione dei messaggi SMS e forse nella mappatura dei locali musicali della città; certo che i ragazzi sanno altre cose; ma può consolarsi di ciò solamente l'adulto che non sa operare gerarchie tra gli oggetti culturali; se Romeo e Giulietta vale Vacanze sulla neve, se non c'è un criterio oggettivo per distinguere la Quinta di Beethoven da I bambini fanno oooh, allora è chiaro che siamo di fronte a due diverse tipologie di sapere, a due diversi approcci a differenti oggetti, ognuno giustificabile e soprattutto ingiudicabile. Ma se esiste una dimensione strutturale della musica, della letteratura, dell'arte e della filosofia che rende strutturalmente buoni alcuni oggetti e cattivi altri; se esiste la possibilità per un critico musicale di dimostrare a partire dall'analisi immanente del testo che le canzoni di Fabrizio de André sono capolavori e quelle delle Les Ketchup produzioni in serie di nessun rilievo artistico; se si definisce l'ignoranza come l'incapacità di padroneggiare più codici, di passare con competenza da un oggetto all'altro, di non restare ammaliati e inebetiti di fronte alla malia di un oggetto semplice e collusivo, allora occorre ribadire che oggi i giovani sono ignoranti come non lo sono mai stati negli ultimi decenni e che la responsabilità pedagogica di ciò è tutta degli adulti che li hanno educati in questo modo.

Così l'uso di parole (e con gli SMS anche delle singole lettere) come fiches da capitalizzare e da risparmiare senza interrogarsi sulla loro dimensione storica; la richiesta di saperi spendibili sul mercato, immediatamente capitalizzabili e che «non facciano perdere tempo»; il sospetto nei confronti di qualunque approfondimento critico, di qualunque analisi approfondita, di qualunque «maestro del sospetto»; l'ingiudicabilità di qualsiasi comportamento umano anche e soprattutto per quanto riguarda gli oggetti di cultura: tutto questo è passato nelle coscienze giovanili come per osmosi a partire da una crisi della teorizzazione pedagogica orgogliosamente esibita dagli adulti; quello che ci turba nei giovani non è che il deposito della nostra ignoranza, della nostra faciloneria, del nostro aver voluto rinunciare, nell'educazione, al necessario peso della teoria.


3. Contravveleni: pensare di più

«Nello studio della scienza tutto sta nel prendere su di sé la fatica del concetto»; la teoria è un peso, una fatica, qualcosa di poco adatto alla mentalità della società della semplificazione a tutti i costi; la teoria sdegna le strade semplificate, le scorciatoie, non le interessa l'economia di pensiero quanto piuttosto la sua profondità. Nelle scuole, nei servizi educativi, la teoria educativa insegna a soffermarsi sull'oggetto, e lo insegna sia agli operatori che agli educandi. Se il tempo di lavoro di un educatore prevedesse qualche ora settimanale per la riflessione, lo studio, l'approfondimento purché si sia lontani dall'utente e dalle sue emergenze, ciò farebbe compiere un salto di qualità nei servizi stessi perché crediamo che ciò che manca nei servizi educativi non siano le attività e le esperienze, ma semmai le «sensate» esperienze. E l'esperienza educativa è tale proprio perché è sensata, perché è una esperienza «al quadrato», una esperienza che si è data il tempo e lo spazio della riflessione, una esperienza sulla quale il soggetto si è piegato con paziente tenacia per farla diventare significativa.

Dunque all'educazione occorre più teoria: ma non solo una teoria settoriale e specifica; questa è assolutamente necessaria, dato lo stato di minorità epistemologica della pedagogia, ma occorre ricordare che una teoria pedagogica è tanto più specifica quanto meno è settoriale, è tanto più efficace quanto più riflette, dal suo specifico punto di vista, la totalità dei rapporti sociali. L'oggetto della pedagogia è il soggetto umano, intricato fin dal suo primo respiro con le dimensioni storiche e sociali; tale oggetto deve entrare con tutte le sue connessioni nell'ambito della riflessione pedagogica.

Ciò che gli uomini sanno, e il modo in cui lo sanno, dalle loro autostrade ai centri abitati, ai luoghi di lavoro, fino al loro amore e alla loro paura, è determinato anche, ieri come oggi, dalla loro convivenza, dall'organizzazione del lavoro.

E la teoria che deve stare alla base dell'educazione non può e non deve essere solamente una elaborazione soggettiva; a ogni servizio educativo, a ogni processo pedagogico, occorre affiancare la specifica teoria, che analizzi la logica specifica dell'oggetto specifico. Contro il soggettivismo alla moda la teoria pedagogica che chiediamo e proponiamo riabilita l'idea di una oggettività della ragione, della presenza di una struttura oggettiva nei processi sociali che è compito del pensiero rilevare e modificare:

Il termine ragione oggettiva indica (...) come essenza di essa una struttura immanente alla realtà che di per sé impone in ogni caso specifico uno specifico tipo di comportamento.

C'è una ragione oggettiva dunque nei rapporti educativi e nei processi pedagogici e occorre un pensiero che sia all'altezza di sviscerare questa ragione, questa struttura, restituendone le connessioni con la totalità storico-sociale. Per noi, che ci muoviamo all'interno dell'orizzonte culturale della pedagogia della resistenza, questo pensiero ha nome dialettica.

Nata e operante in una realtà sociale contraddittoria, la dialettica è anche e soprattutto pensiero della contraddizione: chi volesse un pensiero rigorosamente privo di conflittualità e di contraddizione dovrebbe prima cambiare l'assetto sociale; finché il pensiero ha il compito di descrivere quest'ultimo per modificarlo, non ha senso chiedergli di evitare le contraddizioni che è costretto a registrare. A partire da tali contraddizioni, descritte con spietata lucidità, la teoria dialettica deve dimostrare come esse costituiscano il marchio dell'insufficienza e dell'incompiutezza della realtà; una incompiutezza che non è solo dovuta alla limitatezza e alla finitudine delle cose umane ma anche a una organizzazione sociale ingiusta; e deve fare ciò per ogni oggetto che prende in esame.

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