Copertina
Autore Raffaele Mantegazza
CoautoreGabriella Seveso
Titolo Pensare la scuola
SottotitoloContraddizioni e interrogativi tra storia e quotidianità
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2006, Testi e pretesti , pag. 168, cop.fle., dim. 104x169x12 mm , Isbn 978-88-424-9686-1
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe scuola , pedagogia
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Indice

  1 Introduzione

  5 1. La scuola come contesto istituzionale

  5    Essere insegnanti: un profilo professionale
       fra passione e competenze
 25    Il ruolo della scuola fra educazione e istruzione

 39 2. La scuola come contesto relazionale

 39    La relazione educativa fra autorità e libertà
 61    La progettazione degli spazi
       fra benessere e controllo
 76    Il trattamento delle diversità
       fra garanzie di uguaglianza
       e valorizzazione delle differenze

 91 3. La scuola come contesto materiale

 93    Gli spazi della scuola fra apertura e chiusura
104    I tempi della scuola fra tempo lungo e tempo pieno
115    I corpi della scuola fra divise ed esibizione
126    I codici della scuola fra libri e ipertesti
137    Gli oggetti della scuola fra banchi e zainetti
148    Una costellazione riassuntiva:
       che cosa si fa a scuola?

158 Bibliografia
165 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 1

Introduzione


Pensare la scuola è un compito difficile e urgente; questo libro nasce dall'idea che, tra le riforme ministeriali e la quotidianità di una scuola "militante", ci sia ancora lo spazio per una riflessione radicale sul senso dell'esperienza scolastica in questo inizio di millennio e in questo Paese. Una riflessione che sia libera dalle urgenze della quotidianità, ma che non le ignori. Un pensare che abbia la forza della radicalità e che occupi in toto lo spazio della pedagogia, che sulla scuola ha tanto da dire e che forse negli ultimi decenni ha detto troppo poco. Speriamo che questo nostro sforzo serva a chi lavora nella scuola come stimolo a vederla con occhi diversi, come toccati dalla torpedine dello straniamento: e a ri-conoscere (nel senso etimologico del conoscere una seconda volta, del togliere dall'ovvietà) il proprio mestiere, il proprio ruolo, il senso della propria quotidianità professionale. La crisi della forma scuola è anche e soprattutto crisi di pensiero; questo nostro modesto ragionamento vuole essere un contributo almeno alla nominazione di tale crisi.

Il primo capitolo, "La scuola come contesto istituzionale", intende analizzare la presenza di aporie, contraddizioni, interrogativi irrisolti che, nel corso della storia, hanno caratterizzato l'evolversi della scuola in Occidente, relativamente agli aspetti istituzionali. In particolare, la formazione degli insegnanti, sia in epoca moderna e contemporanea, sia in epoche antecedenti, è stata marcata dalla difficoltà di definire con chiarezza un ruolo professionale e le specifiche competenze: tale confusione, oltre a comparire sovente nei documenti ministeriali, si è riverberata nella difficoltà a definirne con chiarezza il curriculum formativo (basti pensare alla sovrapposizione fra doti "morali" o preparazione religiosa e preparazione pedagogica presente ancora in epoca contemporanea) e il profilo professionale, sovente investito dell'alone di missione salvifica o, al contrario, di quello di "ingegnere" del processo di apprendimento. Questa dicotomia si è intrecciata e rispecchiata in maniera significativa con l'immagine di scuola che ha contraddistinto le teorie e i modelli pedagogici nel corso del tempo, immagine che vedeva il ruolo della scuola stessa come luogo di trasmissione neutra di conoscenze (pensiamo alla scuola antica, al modello dei collegi rinascimentali) oppure come luogo di educazione e di formazione dell'individuo. Tale dicotomia ha causato anche quella scissione fra cognitivo e affettivo, che ancor oggi affligge la scuola italiana. Infine, è necessario non dimenticare che la scuola in Occidente nasce come comunità rivolta a pochi discepoli scelti e solo successivamente come istituzione di base rivolta a tutti; non solo: essa nasce con scarsa chiarezza relativamente alle funzioni di controllo, di regolamentazione, di sovvenzione, e quindi con scarsa chiarezza rispetto al proprio ruolo, ai propri destinatari, al proprio compito rispetto alla sfera politica.

Il secondo capitolo, "La scuola come contesto relazionale", affronta alcuni interrogativi che riguardano il tema della relazione educativa: il dilemma fra autorità e libertà rimanda al tema della disciplina, variamente interpretato e risolto, e strettamente intrecciato con quello delle metodologie didattiche e educative e con quello della progettazione degli spazi, solo in epoca contemporanea caratterizzata dall'attenzione alle molteplici variabili sottese. Infine, il capitolo affronta la problematica delle differenze (di genere, di cultura, di abilità), problematica che è stata occultata dalle teorie pedagogiche fino all'epoca contemporanea e in seguito affrontata o con soluzioni di separazione o di superamento dello "svantaggio", riproponendo il dilemma pedagogico irrisolto del dare a ciascuno parti diverse o a tutti parti uguali.

Nel terzo capitolo "La scuola come contesto materiale" si entrerà nella dimensione materiale e concreta della quotidianità scolastica analizzata nei suoi particolari. Il tentativo sarà quello di comprendere se e come la scuola così come è strutturata oggi ha ancora presa sui mondi vitali dei ragazzi e delle ragazze, è ancora capace di emozionarli e soprattutto di far loro compiere un'esperienza di apprendimento. Con un'attenzione micrologica ai particolari e ai dettagli, si analizzeranno gli spazi (che cosa resta della specificità della scuola se questa assomiglia sempre più a un'azienda, o a un centro sociale o ancora a un centro di aggregazione?), i tempi (come mai oggi i ragazzi passano sempre più tempo a scuola eppure l'efficacia di questa, dal punto di vista educativo, sembra sempre più ridotta?), i corpi (esiste una definizione e una normazione dei corpi, degli abbigliamenti, dei gesti all'interno della scuola? E se non esiste, o perlomeno non è esplicitata, quanto questa assenza condiziona negativamente lo "stare a scuola" concreto dei ragazzi e delle ragazze?), i codici (il linguaggio della scuola è all'altezza dei tempi e delle aspettative dei giovani? Oppure proprio il suo apparente anacronismo lo rende particolarmente efficace dal punto di vista educativo?) e gli oggetti (educare attraverso gli oggetti e la loro materialità: è possibile nella scuola di oggi? E quali oggetti sono più adeguati a questo compito?).

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Pagina 25

Il ruolo della scuola fra educazione e istruzione

Il dibattito sulle funzioni della scuola e, in particolare, sulla funzione educativa o su quella di istruzione sorge nella società occidentale a partire dall'età moderna. Prima di tale epoca, la scuola intesa come istituzione che la società occidentale ha creato per la trasmissione formalizzata di conoscenze da una generazione all'altra, nasce all'insegna di notevoli e molteplici ambiguità, e, proprio a causa del contesto culturale, socio-economico, politico, nasce all'insegna della mancata distinzione fra "educazione" e "istruzione".

Questa mancata distinzione attraversa la storia delle pratiche educative e delle riflessioni pedagogiche in Occidente, se intendiamo con "educazione" la trasmissione di valori, di condotte comportamentali, di atteggiamenti, e con "istruzione" la trasmissione di contenuti, di nozioni, di competenze specifiche (leggere, scrivere). Se pensiamo all'età medioevale, la funzione educativa e quella di istruzione delle scuole, che erano istituzioni ecclesiastiche, erano indistinte proprio perché non esisteva un'istituzione pubblica: il chierico che apprendeva la lettura e la scrittura, lo faceva attraverso l'approccio a testi censurati a seconda del loro valore morale e della loro aderenza alle indicazioni della Chiesa; il fatto stesso che fino all'Umanesimo non vi fosse un approccio filologico al testo, ma un approccio connesso con l'interpretazione allegorica, testimonia quanto l'apprendimento di competenze fosse subordinato alla trasmissione di valori e di un'ideologia. La questione del primato dell'istruzione o dell'educazione, infatti, è strettamente connessa con quella più ampia dell'autonomia e della neutralità della scienza rispetto ai valori e può, quindi, sorgere a partire dall'età moderna, quando la scienza e la cultura si svincolano dalle tutele della metafisica. È soprattutto con l'affermazione dell'Illuminismo che comincia a comparire in nuce l'idea della possibilità di svincolare l'istruzione, ovvero la trasmissione di competenze e conoscenze, dall'orizzonte dei valori: se la scienza può essere neutrale, infatti, è possibile anche una trasmissione delle conoscenze da una generazione all'altra, senza vincolare tale processo alla trasmissione di valori e di orizzonti ideologici. Questa tematica fa in parte da sfondo, per esempio, alla realizzazione di una delle opere pedagogiche e culturali più complesse quali l' Encyclopédie: l'illusione degli enciclopedisti era proprio quella di poter raggiungere un numero elevato di persone, che avrebbero avuto accesso a contenuti organizzati e spiegati in forma semplice, efficace, rispondente non a criteri di censura ideologica ma a criteri di razionalità e di chiarezza. Si trattava in realtà di un progetto figlio comunque di un'ideologia e che diffondeva di fatto una certa immagine e rappresentazione della scienza, della cultura, della società.

Ma, mentre i discorsi sull'educazione iniziavano a porsi il problema di un'eventuale possibilità di distinguere educazione e istruzione nelle pratiche educative, le istituzioni scolastiche facevano proprie comunque entrambe queste finalità.

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Pagina 36

Negli ultimi due decenni, abbiamo, invece, assistito a una sorta di torsione del discorso proposto dalla pedagogia laica: il recupero degli aspetti emotivi e affettivi del processo di insegnamento e apprendimento, da un lato ha comportato il tentativo di superare il primato dell'istruzione, dall'altro ha, in alcuni casi, causato una sorta di trasformazione implicita della scuola in istituzione che si assume compiti "terapeutici" e assistenziali. Tale trasformazione accomuna, a volte, anche la concezione proposta dalla pedagogia confessionale, impegnata a superare il mito retorico del primato dell'educazionè: essa emerge anche e soprattutto dalle più recenti tendenze presenti nelle pratiche scolastiche. Spesso, infatti, la scuola (anche e soprattutto la scuola superiore), assumendosi una "missione terapeutica", finisce per proporre ai ragazzi le "educazioni" (educazione sessuale, educazione stradale, educazione alla salute, educazione alla convivenza ecc.) svincolandole dalle discipline: molti insegnanti confessano di ridurre le ore dedicate alle tradizionali discipline, al fine di realizzare incontri con esperti (psicologi, sessuologi, magistrati ecc.), che affrontino con i ragazzi le più svariate problematiche educative, dalla contraccezione, alla prevenzione e cura dell'anoressia, alla prevenzione degli incidenti stradali o di condotte devianti e così via. Si finisce, in questo modo, per ridurre il livello di istruzione sacrificandolo sull'altare di problematiche che, a nostro parere, non possono rappresentare l'esclusivo e preponderante obiettivo della scuola. È necessario, invece, superare la fuorviante e pretestuosa contrapposizione fra educazione e istruzione, ricordando che il compito della scuola è quello di istruire e che se essa realizza un'adeguata ed efficace trasmissione delle conoscenze e delle competenze, rispettosa dei ritmi di apprendimento, fondata su metodologie diversificate, conscia degli aspetti relazionali, attua anche implicitamente un processo di educazione: l'educazione è, infatti, trasversale alle discipline e non può essere, invece, la sostituzione delle discipline stesse. L'enfasi su un'educazione svincolata dai contenuti, oltre a comportare un abbassamento dei livelli di istruzione, finisce per trasformare la scuola in un luogo psichiatrizzante e terapeutico e gli insegnanti in "missionari" apparentemente onnipotenti. L'esaltazione della dimensione della "cura", ormai imperante in molti ambiti, pare celare una modalità consolatoria di fuga dalla crisi di valori, di ideali, di ideologie, che sta attraversando l'Occidente, o dalla consapevolezza della conflittualità presente nella realtà, facendo dimenticare che la "cura" non può essere contrapposta alla "cultura", ma può solo costituire una modalità per promuoverla.

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Pagina 126

I codici della scuola fra libri e ipertesti


Marco, sedici anni; mastica la cicca in classe anche se i professori hanno stabilito una regola che lo vieta. La professoressa di inglese gli dice: «Ma no, mangiala pure, anch'io la mangio. L'inglese si pronuncia meglio con qualcosa in bocca».


La professoressa di italiano dice a Erica che ha fatto male a non partecipare alla gita. Erica risponde che aveva un impegno con i suoi genitori e la prof ribatte: «Peccato. Se venivi ti divertivi».


Leggere, scrivere, far di conto; quella che gli americani chiamano la regola delle tre R – (w)Rite, Read, Reckon – costituisce ancora il mandato fondamentale dell'istruzione scolastica. L'alfabetizzazione, che a tutti i livelli e gradi della scuola costituisce il suo vero e unico fine, si declina attorno a queste tre parole chiave. La scuola in questo senso è ancora il mondo dei libri, degli alfabeti ordinati in sequenze riconoscibili dove il "dopo" spiega il "prima" e le pagine si susseguono secondo un ordine prestabilito e preciso; il libro, oggetto desueto e secondo alcuni superato, è invece secondo noi ancora oggi il fulcro dell'esperienza scolastica, e lo ribadiamo soprattutto oggi, quando la logica dei cosiddetti new media, che sempre più giungono a ridefinire la nostra esperienza del mondo, si distingue per la caratteristica della simultaneità, che tende sempre più a sostituire la sequenzialità nell'approccio alle dimensioni narrative, tipica invece appunto del libro. È indubbio che la logica della simultaneità mostra spesso un carattere colonizzatore rispetto alle forme di pensiero sequenziale, con tutte le conseguenze negative quanto a perdita delle capacità di concentrazione su sequenze di eventi, indebolimento della memoria a lungo termine, incapacità di narrare eventi o di seguire narrazioni altrui. È però vero che le possibilità narrative offerte dalla simultaneità sono parecchio interessanti, soprattutto se utilizzate in modo critico in direzione della possibile costituzione di una nuova estetica. Crediamo che un'analisi critica dei mass media e delle loro logiche possa costituire una barriera nei confronti dei pericoli sopra elencati, soprattutto se accompagnata dal tentativo di riattualizzare e comunque provocare forme di intelligenza sequenziale. Ma una caratteristica a nostro parere rimane tipica della sequenzialità: essa si pone come un metalinguaggio rispetto a se stessa, permette cioè di criticare se stessa, cosa che la logica dei new media non consente. Insomma, a nostro parere, e a costo di sembrare anacronistici, è possibile scrivere un libro che critichi la logica del libro, non è possibile (o forse è infinitamente più difficile) gestire un sito web che critichi nella sua struttura la logica del web. L'esperienza scolastica si fonda sull'idea, forse ingenua e anacronistica, che nelle pagine dei libri possa trovarsi una qualche forma di verità: se i nuovi fascisti bruciano i libri, come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, come in Alexanderplatz, è perché i libri fanno ancora paura; è perché nei libri c'è ancora una traccia di verità. Non una verità che sia depositata nelle pagine incollate, ma nel campo di forza, magico e splendido, che si crea tra il libro e il lettore, tra gli sguardi di chi sfoglia le pagine di un nuovo volume e le occhiate oblique di Anna Karenina, di Jean Valjean o di Davide Copperfield. Forse è tutto come da ragazzi, quando in camera da letto, con la torcia, sotto le coperte, prolungavamo la lettura oltre le ore concesse. Forse è tutto come allora, in quel caldo un po' soffocante, con quella luce proibita: l'incontro tra due sguardi, tra due sensibilità: un libro sempre riscritto dal lettore, in un campo di forze che sfiora l'assurdo e la magia. La verità è co-prodotta dal libro e da chi lo legge; e nella biblioteca deserta, senza lettori o lettrici, non c'è verità, ma solo la desolazione di fantasmi incorporei che attendono gli sguardi di un ragazzo o una bambina per tornare alla vita; bruciare i libri significa impedire ad Achab e a Giulietta di tornare ogni volta alla vita.

A scuola ci sono i libri, dunque, e ci sono adulti che mediano il nostro (primo?) incontro con questi strani oggetti, nei quali da secoli la specie umana deposita la sua cultura: a scuola li si incontra, li si ama e li si odia, si impara a giocare con essi e a rispettarli, a entrare nella loro logica con stupore, fatica e divertimento. La logica del libro può servire da filo conduttore per le esperienze che si fanno a scuola e per l'esperienza scolastica nel suo complesso: pensiamo, per esempio, alla proposta di una pedagogia narrativa che ponga il tema della narrazione al centro del suo lavoro e del suo operato.

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Pagina 148

Una costellazione riassuntiva: che cosa si fa a scuola?


La professoressa di inglese interroga Sara. La ragazza parla a bassa voce, l'insegnante le urla: «Ma alza questa voce, che cos'hai, un cancro in gola?». La mamma di Sara ha un tumore terminale.


Da qualche anno ci divertiamo a proporre ai ragazzi e ai bambini della classi terminali dei cicli scolastici (quinta elementare, terza media, quinta superiore) un gioco che è a nostro parere assai indicativo: su bigliettini anonimi i ragazzi scrivono "la cosa più utile imparata a scuola": le risposte sono tipicamente del tipo "stare insieme", "aiutare gli altri", "ascoltare gli adulti", tutte cioè su di un asse etico e anche un po' moralistico; ma sul secondo bigliettino, quello che chiede "la cosa più inutile imparata a scuola" i giovani, invariabilmente, che abbiano dieci, quattordici o diciannove anni, scrivono "l'italiano", "la matematica", "l'inglese". La scuola è un posto per stare insieme; ma le discipline sono inutili. E allora, aggiungiamo noi, perché non chiuderla? A nostro parere il più grave problema che la scuola deve oggi affrontare è la sua sostanziale assenza dai mondi vitali dei singoli: la sua assenza in quanto scuola, in quanto posto dove si va per imparare. La scuola è considerata un luogo di incontro, come la fermata del tram o alla meglio come l'oratorio o la squadra di pallavolo, ma la scuola in quanto fonte di apprendimento non viene amata né temuta, è semmai tollerata, come qualcosa che deve esserci, ma che se scomparisse cambierebbe di poco la nostra vita. Il destino più triste che potesse capitare alla scuola è forse quello che davvero le sta capitando: il suo sprofondare nell'ovvio e il suo produrre ignoranza. L'ignoranza (in senso etimologico) dei giovani è ormai un dato di fatto e solamente un approccio collusivo o demagogico la può negare. Se la scuola deve agire sulla triade sapere-saper fare-saper essere, i ragazzi e le ragazze escono da scuola sapendo poco, sapendo fare poco, sapendo essere anche meno. La scuola italiana negli ultimi quindici anni ha abbassato i livelli culturali del sapere erogato e le pretese rispetto alle restituzioni dei ragazzi, ha fatto passare l'idea di una cultura solamente spendibile (e dunque bando al latino, alla filosofia, a tutto ciò che il mercato non chiede), e di conseguenza non emoziona più i ragazzi e le ragazze, che sono alla ricerca comunque di esperienze profonde che una scuola superficiale non può dare loro.

L'impressione è che sia in atto una pesante e forse epocale transizione da un modello scolastico a un altro, e che i cambiamenti negli elementi del dispositivo che sopra abbiamo analizzato siano al contempo il sintomo e il rafforzamento di questo mutamento; a nostro parere dunque:

a) dalla selezione, che rendeva conto in modo esplicito e spesso anche brutale dello stretto legame tra la scuola e il mondo sociale ed economico e che si esplicitava o nell'accesso alla scuola (scuola di classe, numero chiuso, doppi percorsi ecc.) o attraverso la bocciatura, o attraverso l'orientamento (quando si dice a un ragazzino di terza media «Al massimo puoi fare una scuola professionale»), si passa al livellamento, prendendo la scolarizzazione di massa come pretesto per l'abbassamento dei livelli culturali forniti ai/pretesi dai ragazzi; in questa scuola che non seleziona ma livella, l'eliminazione delle bocciature non ha favorito la promozione sociale, ma anzi ha contribuito a produrre ignoranza, e la selezione, che la scuola ha (in qualche caso astutamente, in qualche caso onestamente) rinunciato a prendere in carico, è appaltata alla società nel suo complesso. Questo significa che la scuola conferma le differenze di classe dei ragazzi e delle ragazze nel momento in cui, con la scusa di non selezionare, in realtà conferma l'ignoranza dei ragazzi stessi, ignoranza dalla quale uscirà, al di fuori della scuola, chi ne avrà i mezzi materiali ed economici;

b) dalla valutazione come anima della scuola, valutazione che era intesa come inserimento di ogni comportamento dei ragazzi in una rete di osservabilità e di visibilità, e come posizione di un criterio di normalità o almeno di accettabilità (per finire le medie un ragazzo deve "sapere" certe cose, "saper fare" certe cose, "saper essere" in un certo modo), si passa alla conferma che rinuncia esplicitamente a valutare (attraverso lo slogan ridicolo "le persone non si valutano" — e chi l'ha mai chiesto? Si valutano le performance e le pratiche!) e perciò a prendere in mano e monitorare in qualche modo il processo di crescita del ragazzo o della ragazza, a porre qualsiasi modello di normalità adulta; posizione di modelli che, nella disperata ricerca di modelli propria dei ragazzi e delle ragazze, viene ulteriormente appaltata al mondo esterno;

[...]

Che fare allora? Quali sono, se ve ne sono, le possibilità di resistenza a questa travolgente deriva della scuola che la trasforma in qualcosa di differente ma soprattutto in qualcosa di indifferente alle emozioni, alle speranze, alle paure, agli affetti e alle menti di ragazzi e ragazze? Innanzitutto, la riscossa della scuola inizia con il rimando della scuola stessa al suo mandato istituzionale, sancito dalla Costituzione della Repubblica italiana. Il che significa ribadire con forza che la scuola non serve a far fare esperienza di socializzazione o a preparare al mercato del lavoro: fa anche queste cose, ma esse non costituiscono la sua ragion d'essere. Se la scuola fosse costitutivamente un luogo nel quale stare insieme non si capisce che cosa la differenzierebbe dagli altri mille luoghi di socializzazione adolescenziale con una presenza adulta: i ragazzi imparano a stare insieme al corso di nuoto, nella squadra di basket, nel reparto scout. Anzi, anche qui, in realtà, la socializzazione è un prodotto di secondo livello: in quei luoghi si va soprattutto per imparare a nuotare, per diventare cestisti, per saper accendere un fuoco in una radura. Solo la socializzazione spontanea ha come suo scopo lo stare insieme; ogni altro "stare insieme" nasce per altri motivi: la vetta da conquistare, la banca da rapinare, l'amico in difficoltà da aiutare. Se la scuola invece fosse costitutivamente un luogo per formare al mercato del lavoro, allora non si capisce perché non appaltarla direttamente alle aziende: i pruriti aziendalistici di certi ministri e di certi pedagogisti sarebbero legittimati. Peccato però che la scuola insiste nella creazione di un senso critico anche rispetto all'azienda, e soprattutto rispetto al lavoro, al ruolo, alla contrattazione. Un senso critico che, non ce ne vogliano gli imprenditori e alcuni colleghi, non vediamo proprio nella formazione aziendale, che sia indoor o outdoor, che si svolga con un brainstorm o arrampicandosi seminudi su un albero secolare. Il mercato sa benissimo come formare i soggetti dei quali ha bisogno: se la scuola non si smarca dal mercato, se non mette una zeppa tra sé e l'azienda, tanto vale che il ministero dell'Istruzione (Pubblica?) sia assorbito da quello dell'Industria.

Ma allora, a che cosa serve la scuola? Dove sta la sua differenza specifica nei confronti delle altre istituzioni e degli altri luoghi della contemporaneità? La risposta a questa domanda non si può dare in sede pedagogica: la scuola è sempre funzionale a un progetto politico, nel senso nobile di gestione democratica della polis o nel senso ottuso e violento di condizionamento dittatoriale. Per questo i regimi totalitari non hanno potuto fare a meno di allungare le mani sulla scuola, anzi ne hanno fatto il relais fondamentale dei loro dispositivi di potere. Dunque il senso della scuola si decide in sede politica, e in una democrazia rappresentativa come l'Italia la scuola deve essere legata alla decisione politica (fatta dai padri costituenti e messa alla base della convivenza democratica) di creare persone critiche e aperte al dialogo. La scuola italiana non educa alla democrazia, all'intercultura, al dialogo interreligioso perché lo decidono gli/le insegnanti, ma perché lo dice il patto fondamentale sul quale lo Stato si basa e all'interno del quale (e solo all'interno del quale) l'esistenza di una scuola pubblica ha senso. Allora, per educare alla democrazia esistono diverse istituzioni, ma la scuola mette in campo una esperienza unica, un qualcosa che in questo senso c'è solamente a scuola: l'esperienza della metariflessione e della metacomunicazione. I ragazzi e le ragazze non imparano solamente a scuola: imparano dai genitori, a catechismo, dalla Tv e all'allenamento di calcio: ma c'è solamente un posto dove essi/e possono mettere in fila i diversi apprendimenti, confrontarli, capire dove e come si impara, e questo posto è l'aula scolastica.

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