Copertina
Autore Alessandro Mantovani
Titolo Diaz. Processo alla polizia
EdizioneFandango, Roma, 2011, Documenti 40 , pag. 320, ill., cop.fle., dim. 13,5x20,5x1,7 cm , Isbn 978-88-6044-211-6
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe paesi: Italia: 2000 , movimenti , diritto
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Indice


Il G8 in tribunale                                        5

Quella notte alla Diaz                                   45

L'inchiesta: ordini superiori, molotov e carte false    108

Processo                                                180

Processo al capo                                        255

Processo al pm                                          293

Biografie                                               309


 

 

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Il G8 in tribunale


La storia non si scrive nei tribunali e quella del G8 di Genova è in larga parte da scrivere. Se però ne sappiamo qualcosa, al di là delle immagini di violenza riprese da centinaia di telecamere e di telefonini, al di là della propaganda incrociata di chi difende e di chi accusa le forze dell'ordine e il movimento no global dell'epoca, si deve ai magistrati genovesi che hanno cercato di fare chiarezza, di ricostruire, di attribuire responsabilità. Dieci anni dopo non basta, ma non era scontato. C'è di mezzo il rapporto tra i pubblici ministeri e le forze di polizia, senza le quali i pm sono funzionari isolati nelle loro torri d'avorio, indipendenti dal potere politico quanto impotenti di fronte alla criminalità.

Dei numerosi processi aperti sulle vicende del 20 e del 21 luglio 2001, quello per i fatti delle scuole Diaz/Pertini e Pascoli è di gran lunga il più clamoroso. Uno scontro furibondo tra i magistrati dell'accusa e i massimi vertici della polizia, uomini dello Stato democratico contro altri uomini dello Stato democratico. I primi dicono che al di là alla violenza, cieca e ingiustificabile, quella notte alti dirigenti della polizia italiana fecero carte false pur di arrestare 93 innocenti, attribuendo loro anche due bottiglie molotov portate di nascosto alla Diaz/Pertini da un vicequestore aggiunto. Gli altri, i poliziotti imputati, si sentono vittime di un "teorema", del pregiudizio politico di magistrati ostili, novelli Torquemada pronti a distruggere padri di famiglia che rischiano la vita in divisa e superpoliziotti entrati nella storia dell'antimafia. Non dicono che alla Diaz andò tutto bene: lo fecero all'inizio, ma poi hanno smesso. Sostengono però che il pestaggio e le prove false di quella notte, l'ultima notte del G8 segnato dall'uccisione del ventitreenne Carlo Giuliani, furono opera di poche "mele marce" favorite dalla tensione, dal caos e dal buio, nel peggiore dei casi da qualche errore di valutazione.

I poliziotti imputati, tutti condannati in appello e in attesa del verdetto della Cassazione, godono della fiducia e del sostegno di quasi tutte le forze politiche, non solo del centrodestra berlusconiano. Alcuni di loro sono considerati tra i migliori. Se durante le indagini ci furono pressioni indicibili sui pm genovesi, queste giunsero da ambienti politici e giudiziari di sinistra e di centrosinistra, convinti di doverli proteggere. Anche quando al governo c'era Romano Prodi, sono stati promossi o assegnati a incarichi di massima responsabilità. È accaduto dopo il rinvio a giudizio (2004) e dopo le severe condanne per falso ideologico in atto pubblico (la calunnia e l'arresto illegale si erano nel frattempo prescritti) pronunciate a Genova nel maggio 2010 anche a carico dei dirigenti di grado più elevato, che invece erano stati assolti in primo grado.

L'inchiesta e il processo Diaz sono stati portati avanti dai pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, difficili da inquadrare nella categoria delle toghe "rosse" e "militanti". Il primo, genovese, 45 anni ai tempi del G8, è un battitore libero implacabile, solo in apparenza gelido, senz'altro di sinistra ma estraneo alle correnti dell'Associazione nazionale magistrati (Anm). Nel 2001 era già noto alle cronache per inchieste roboanti su tangenti e corruzione e per l'arresto del serial killer Donato Bilancia. Il secondo, romano, è cattolico, vicino a Magistratura democratica (Md) ma non troppo. Aveva all'epoca 37 anni e nei giorni del G8 era in ferie, tornò di corsa a Genova e gli affidarono le indagini sulle violenze delle forze dell'ordine in strada: migliaia di fotogrammi da analizzare, centinaia di no global e di poliziotti da identificare; poi si dedicò all'inchiesta Diaz, inizialmente condotta da Zucca con Francesco Pinto. I loro colleghi Vittorio Ranieri Miniati, Monica Parentini e Patrizia Petruzziello si occuparono degli abusi sugli arrestati nella caserma di Bolzaneto.

Indagare sulla polizia è stato difficile e doloroso per tutti, tanto più che i magistrati dovettero negoziare ogni mossa con il procuratore Francesco Lalla, prima aggiunto, poi reggente e infine capo dell'ufficio della Procura, che aveva un atteggiamento più prudente nei confronti delle forze dell'ordine. In appello le cose cambiarono e l'accusa, nel processo Diaz, fu sostenuta anche dal sostituto procuratore generale Pio Macchiavello, magistrato di grande esperienza nella lotta alla criminalità organizzata, proprio come i principali imputati.

La Procura della Repubblica di Genova non era certo un covo di simpatizzanti no global pronti a sbranare i poliziotti per uno schiaffone di troppo. All'indomani del blitz nella scuola, dopo un'accesa riunione, Lalla chiese la convalida dei 93 arresti, ignorando i giornali che già raccontavano il pestaggio e facendo propria l'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, formulata dalla polizia negli atti che poi finirono al centro del processo per falso e calunnia. Furono i giudici, nei giorni seguenti, a prendere sul serio i racconti degli arrestati, portati in carceri e ospedali diversi dai quali neppure volendo avrebbero potuto concordare versioni di comodo. I giudici negarono così la convalida degli arresti, rimandarono indietro le carte e segnalarono formalmente la necessità di indagare sulla polizia.

L'unico pm che avanzò pubblicamente delle riserve, l'ex segretario genovese di Md Francesco Pinto che quella notte era anche di turno, fu escluso dalle indagini (e poi reintegrato dal Consiglio superiore della magistratura) per una dichiarazione riportata da Claudia Fusani su Repubblica del 23 luglio 2001. "Non è usuale", disse Pinto, "arrestare 92 persone in flagranza di reato (in realtà 93, Nda) per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. L'associazione a delinquere è un reato complesso, che richiede in genere mesi di indagini e accertamenti per collegare fatti e persone. È difficile conciliare questa contestazione con un'operazione di polizia decisa in poche ore ai sensi dell'articolo 41, cioè per la ricerca di armi ed esplosivi."

Quel modo di procedere, in effetti, era molto singolare. La Procura diretta da Lalla, però, solo dopo anni di indagini si risolse ad archiviare l'ipotesi di associazione a delinquere per gli arrestati della scuola. La escluse, alla fine, per tutti i no global, anche quelli accusati nel 2002 di devastazione e saccheggio sulla base dell'analisi dei filmati degli scontri e in seguito condannati a pene fino a quindici anni di carcere.

La stessa Procura, alla vigilia del G8, aveva dato via libera a misure eccezionali chieste dalle forze di polizia e dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap). Blocco dei processi per direttissima; chiusura delle carceri genovesi di Marassi e Pontedecimo per paura che i no global andassero a protestare contro gli inevitabili arresti; istituzione di siti penitenziari temporanei nella caserma della polizia di Bolzaneto e al comando dei carabinieri di Forte San Giuliano: era una sorta di subordinazione dell'attività giudiziaria alle esigenze dell'ordine pubblico. Venne disposta la sospensione dei colloqui tra gli arrestati e gli avvocati, che a conti fatti creò le condizioni per i gravissimi abusi commessi a Bolzaneto. Violenze e umiliazioni indegne di un paese civile, chiara espressione dei residui autoritari, se non fascistoidi, che albergano nelle forze dell'ordine come in altri ambienti della società italiana. Basta ricordare la canzoncina che alcuni arrestati furono costretti a cantare: "Un due tre viva Pinochet, quattro cinque sei a morte gli ebrei, sette otto nove il negretto non commuove". Un abisso scandagliato da Massimo Calandri in Bolzaneto. La mattanza della democrazia (DeriveApprodi 2008). Se gli avvocati fossero entrati nella caserma trasformata in "avamposto carcerario", se cioè fossero state applicate le regole ordinarie che consentono ai legali di incontrare i loro assistiti, non sarebbe stato così facile approfittare di persone private della libertà. Naturalmente i magistrati erano in buona fede, non immaginavano quelle violenze e nemmeno che la permanenza a Bolzaneto potesse durare più di qualche ora. E infatti il Consiglio superiore della magistratura, investito della questione, la archiviò.

Durante le inchieste per i fatti del G8 la Procura di Genova sembrava quasi un ufficio di "separati in casa". Da una parte i pm che indagavano sulle forze dell'ordine, relativamente isolati, costretti a compiere personalmente quasi tutti gli atti perché non era certo possibile delegarli alla polizia né ai carabinieri; dall'altra i colleghi che si occupavano dei reati commessi dai manifestanti, Anna Canepa e Andrea Canciani della direzione investigativa antimafia, prontamente assistiti dai più efficienti reparti investigativi delle forze di polizia, compresi quelli al centro delle indagini dell'altro pool. C'erano toghe considerate "rosse" in entrambi i gruppi: Canepa e Pinto erano entrambi riconosciuti come esponenti di Md, le appartenenze correntizie non ebbero alcun peso. Pinto, peraltro, partecipò solo ad alcune fasi dell'inchiesta Diaz. Per Bolzaneto fu anche inquisito un magistrato considerato di sinistra, Alfonso Sabella, allora capo dell'Ispettorato dell'amministrazione penitenziaria (Dap), ma la sua posizione venne archiviata.

La magistratura nel suo complesso, sempre pronta a dibattere e a discutere, non mostrò particolare interesse per i nodi drammatici emersi al G8 di Genova. Eppure anche una fetta consistente del centrosinistra e dell'opinione pubblica, non solo i no global e Amnesty International, denunciava la "sospensione delle garanzie costituzionali" avvenuta nelle giornate del 20 e 21 luglio 2001. Usò quell'espressione Giovanni Palombarini, dirigente storico di Md, già membro del Csm e all'epoca viceprocuratore generale presso la Cassazione: era "come se un nuovo diritto di polizia fosse stato d'improvviso emanato contro le previsioni costituzionali, per farla pagare cara a chi s'era permesso di disturbare la patinata telenovela del G8 berlusconiano", scrisse Palombarini. ("Le spoglie del diritto violato", il manifesto del 5 agosto 2001). Un allarmato e rigoroso saggio di Livio Pepino, ex leader di Md e al Csm fino al 2010 ("Obiettivo. Genova e il G8: i fatti, le istituzioni, la giustizia", Questione Giustizia, n. 5, 2001), analizzò la violenta gestione dell'ordine pubblico e la risposta degli uffici giudiziari genovesi. Da allora, però, anche fra le toghe sul G8 fu silenzio. È vero che i magistrati non amano discutere di procedimenti in corso per nobili ragioni di riservatezza, però in altri casi ci sono state eccezioni e in questo no. Insomma, se esiste una magistratura "militante", non si mobilitò contro la "sospensione dei diritti" a Genova.

I principali mezzi d'informazione seguirono i fatti del G8 e le indagini senza fare sconti, ma certo non brillarono per l'autonoma capacità di inchiesta sugli apparati di polizia. Con il passare degli anni, a parte Il Secolo XIX, il manifesto e le pagine genovesi di Repubblica, l'attenzione dei media si è progressivamente esaurita, salvo naturalmente riaccendersi in occasione dei passaggi processuali più clamorosi. La Rai, su quel maledetto G8 di dieci anni fa, fece passare solo una puntata di Carlo Lucarelli e Il giro di boa, dove il commissario Montalbano diede voce alle migliaia di poliziotti che si vergognavano di quanto era successo a Genova minacciando di dare le dimissioni dal suo incarico. La Rai aveva il film di Marco Giusti e Carlo Freccero, Bella Ciao, e l'ha tenuto nel cassetto, censurato.

Eppure nel processo Diaz c'è la Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana), parte civile insieme all'Associazione ligure dei giornalisti, perché alcuni appartenenti alla categoria furono vittime dell'irruzione. Oltre a Lorenzo Guadagnucci, allora al Resto del Carlino e oggi alla Nazione, massacrato di botte alla Diaz/Pertini, c'erano diversi altri giornalisti alla Pascoli, la scuola di fronte che era il Media center dei no global, compreso l'inglese William Hayton della BBC. Uno di loro, il bolognese Enrico Fletzer, era al telefono con il presidente dell'Ordine dei giornalisti della Liguria, Attilio Lugli, mentre la polizia lo malmenava.

Della Diaz si parla con un certo imbarazzo perché i 28 imputati non sono poliziotti e funzionari qualsiasi, o almeno non tutti. Tra loro c'è Francesco Gratteri (condannato a quattro anni in appello), oggi prefetto e capo della Direzione anticrimine centrale (Dac), ai tempi del G8 direttore del Servizio centrale operativo (Sco) che è il reparto investigativo d'élite della Polizia di Stato. È un funzionario che studiava e studia da capo della polizia, celebre fin dagli anni Novanta per la cattura di boss mafiosi del calibro di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, all'ergastolo per la strage in cui fu ucciso Giovanni Falcone. È un uomo capace, Gratteri, un calabrese deciso e ostinato, cresciuto alla scuola delle squadre mobili e della polizia criminale ma passato anche per la Digos di Padova, dove si occupò di terrorismo nei primi anni Ottanta. Non è solo un investigatore di successo. A Bari, dove è stato questore in anni recenti, Gratteri andava perfettamente d'accordo con il governatore Nichi Vendola e con Nicola Fratoianni, dirigente e poi assessore "vendoliano", giovane comunista "disobbediente" ai tempi del G8.

Un altro imputato eccellente è il suo vice dell'epoca, Gilberto Caldarozzi (tre anni e otto mesi), attuale capo dello Sco, promosso questore per meriti speciali nel 2006 per aver messo le manette a Bernardo Provenzano, impegnato da un capo all'altro dell'Italia nella lotta alle cosche come sui casi più allarmanti di cronaca nera. Poiché era il numero due dello Sco, secondo l'accusa era il più alto in grado tra i firmatari del verbale d'arresto della Diaz.

Meno noto è Gianni Luperi (quattro anni), nel 2001 questore come Gratteri, dirigente dell'Ucigos (Antiterrorismo) e attualmente direttore del dipartimento di analisi dell'Aisi (ex Sisde), già capo della Digos e vicequestore vicario di Firenze. Profondo conoscitore dell'estremismo nostrano, Luperi era fra i pochi che sapevano cosa fare quando la stella a cinque punte tornò sulla scena con gli omicidi di Massimo D'Antona e di Marco Biagi. Le nuove Br venivano in parte dalla Toscana e Luperi, nel 2002, fu il primo a puntare su Nadia Desdemona Lioce. Nel 2008 lo raccontò al processo. "Sono un analista", ripeté in aula, per far capire ai giudici che il suo mestiere è un altro e anche per questo, alla Diaz, non aveva svolto compiti operativi. Si era trovato con le bottiglie molotov in mano, nel cortile della scuola, ma non lo ricordava e comunque non sapeva che venivano da fuori. Non lo sapevano neanche i suoi colleghi che firmarono i verbali; secondo loro, lo sapeva soltanto chi le aveva portate e li aveva ingannati.

Tra gli imputati, appena un gradino sotto, ci sono dirigenti e funzionari delle squadre mobili, vicequestori e vicequestori aggiunti, che nelle nostre questure si occupano delle indagini più delicate. Ci sono, infine, i responsabili del nucleo sperimentale antisommossa del reparto mobile (ex celere) di Roma, il famigerato Settimo nucleo creato per l'occasione del G8 e sciolto subito dopo tra le polemiche. Dovevano essere i più equilibrati, capaci di autocontrollo in situazioni estreme, e passarono alla storia per l'assalto alla Diaz, forse anche al di là delle loro effettive responsabilità.

Evitiamo la confusione sui nomi: la squadra mobile è un ufficio investigativo, chi ne fa parte lavora in borghese e indaga su omicidi, rapine, droga, criminalità varia; il reparto mobile fa ordine pubblico ed è formato da agenti in divisa, inquadrati, con il casco e il manganello. Alla squadra mobile corrisponde, in ogni questura, la Digos, che una volta si chiamava "ufficio politico": si occupa di terrorismo ed eversione ma anche delle manifestazioni di piazza e degli ultrà degli stadi. Sia la squadra mobile che la Digos dipendono dal questore, sono i principali uffici investigativi di una questura. Sopra le squadre mobili, a livello centrale, c'è la direzione della polizia criminale, di cui lo Sco è una sorta di braccio operativo; sopra le Digos c'è la polizia di prevenzione, volgarmente detta Ucigos, ex Ucigos o semplicemente Antiterrorismo.

Fino al settembre 2002, quando un tumore se lo portò via, era indagato anche il prefetto Arnaldo La Barbera, ai tempi del G8 direttore dell'Antiterrorismo, quasi un monumento della polizia, protagonista negli anni Novanta delle indagini sulle stragi mafiose di Capaci e via D'Amelio e in seguito questore di Palermo, Napoli e Roma. Per migliaia di poliziotti La Barbera è tuttora un modello, un mito inarrivabile. Anche dopo i fatti della Diaz e anche dopo le vicende postume che gli attribuiscono un ruolo equivoco nei presunti depistaggi della Palermo di quasi vent'anni fa. Tenne la riunione operativa che pianificò il blitz nella scuola, poi andò sul posto come richiesto dall'allora capo della polizia, Gianni De Gennaro.

In un rivolo avvelenato del processo Diaz è finito sul banco degli imputati anche De Gennaro, capo della polizia dal 2000 al 2007, il superpoliziotto per eccellenza che lavorò gomito a gomito con Falcone e con l'Antimafia di Luciano Violante e gestì, insieme all'Fbi, il pentimento di Tommaso Buscetta. Fu rimosso dal governo Prodi nel 2007, quando si seppe della sua iscrizione nel registro degli indagati a Genova. Dall'anno seguente, per volontà del governo Berlusconi, De Gennaro dirige il Dis, il Dipartimento per l'informazione e la sicurezza, l'organo di coordinamento dei servizi segreti oggi chiamati Aisi (ex Sisde) e Aise (ex Sismi). Anche lui è stato assolto in primo grado e condannato in appello: un anno e quattro mesi per induzione alla falsa testimonianza nei confronti dell'allora questore di Genova, Francesco Colucci. Secondo l'accusa De Gennaro avrebbe chiesto al questore di cambiare versione su un dettaglio apparentemente marginale, privo di risvolti penali eppure significativo: la decisione di mandare alla Diaz Roberto Sgalla, direttore delle relazioni esterne del Dipartimento, il portavoce che parlò di "ferite pregresse" mentre uscivano 87 feriti su un totale di 93 persone che la polizia dichiarò di aver trovato nell'istituto.

"Sono persone che si sono ferite durante gli scontri e non sono andate negli ospedali a farsi curare", spiegò quella notte Sgalla. In realtà le ferite pregresse erano due o tre e di poco conto. Si capì subito che era stato un massacro. Ventotto su 93 furono ricoverati in ospedale per le lesioni riportate durante l'irruzione, tre in prognosi riservata, due corsero pericolo di vita. Ventuno riportarono fratture alle braccia e alle gambe, alle costole e alla testa. Quelli messi meglio avevano lividi e ferite che, a distanza di giorni, fecero inorridire avvocati e giudici.

La polizia scrisse di "evidenti e pregresse contusioni e ferite" anche il giorno dopo, domenica 22 luglio, nel comunicato letto ai giornalisti da una funzionaria, davanti al tavolo su cui erano esposti i risultati della perquisizione con due molotov in bella mostra. E intanto Silvio Berlusconi, quella domenica al Palazzo Ducale, poteva spiegare ai "grandi" della Terra, da George W. Bush a Gerhard Schroeder, che la polizia non era stata con le mani in mano e nella notte aveva arrestato un centinaio di responsabili degli incidenti ripresi dalle tv del mondo intero.

L'allora portavoce Sgalla ha una storia. Era stato segretario del Siulp, il sindacato un tempo unitario e confederale dei poliziotti, nato dal movimento democratico che aveva portato alla legge 121 dell'81 e alla smilitarizzazione dell'antico Corpo delle guardie di pubblica sicurezza. Nel '99, dopo che la componente Cisl aveva preso la maggioranza del Siulp, la corrente di Sgalla fondò il Silp, il sindacato Cgil. A capo della Cgil c'era Sergio Cofferati. Un anno dopo De Gennaro divenne capo della polizia, nominato dal governo di Giuliano Amato, e l'ormai ex leader Siulp assunse la guida delle relazioni esterne del Dipartimento di pubblica sicurezza. Vi rimase un anno più di De Gennaro. Dal 2008 è il numero uno della polizia stradale.

Fare chiarezza sui fatti drammatici del G8 sarebbe stato compito della politica. La politica però aveva ben altro a cui pensare. Il governo Berlusconi nell'estate 2001 se la cavò con la rimozione di tre dirigenti e con l'istituzione di un comitato parlamentare d'indagine privo di poteri inquirenti, agevolmente pilotato verso una confortante e generale assoluzione delle forze dell'ordine: qualcuno poteva aver esagerato ma dopotutto era stato realizzato il principale obiettivo, il sereno svolgimento del vertice, a differenza di quanto era accaduto in precedenza in altri paesi dove alti consessi internazionali erano stati interrotti o notevolmente turbati. Nel comitato d'indagine il centrosinistra espresse qualche critica e Rifondazione comunista, parte integrante del movimento, diede voce alla rabbia e allo sgomento dei no global. Benché sommaria e superficiale, l'istruttoria del comitato parlamentare consentì di acquisire documenti e dichiarazioni indispensabili anche alla magistratura per la ricostruzione delle vicende genovesi.

Poteva pensarci la stessa polizia, che certo non manca di anticorpi. Lo dimostrò a caldo la severa relazione dell'ispettore ministeriale incaricato degli accertamenti sul caso Diaz, il questore Pippo Micalizio. Escluse con decisione l'ipotesi di una "rappresaglia" o una "spedizione punitiva" ordinata dai vertici, ovvero la tesi dei no global. In pochi giorni Micalizio non poteva certo scoprire i falsi e le calunnie; prese per buone spiegazioni che furono poi smantellate dai pm, ma concluse ugualmente che l'operazione era stata un disastro, organizzata male e realizzata peggio. Chiese l'apertura di procedimenti disciplinari a carico di sei alti funzionari, tra cui i principali imputati del successivo processo. Segnalò al capo della polizia l'opportunità di una valutazione su La Barbera, che era prefetto e dunque suo superiore, e propose espressamente di allontanare il questore Colucci dal capoluogo ligure.

Il superispettore censurò la mancata indicazione di un responsabile unico dell'operazione. "In tale contesto ha sicuramente nuociuto la presenza sul posto di molti funzionari del Dipartimento della pubblica sicurezza di elevata qualifica dirigenziale che, invece di rappresentare un momento di chiarezza gerarchica, ha verosimilmente ingenerato ulteriore confusione nella linea di comando, con conseguenze negative sia nella fase decisionale che in quella prettamente operativa", scrisse Micalizio nella relazione. I poliziotti avevano agito secondo i comparti di appartenenza e le direttive dei responsabili dei diversi settori. "C'erano quattro polizie", disse nel 2003 ai pm quando fu sentito come testimone, alludendo appunto alle diverse specialità presenti: il reparto mobile, le squadre mobili e lo Sco, le Digos, il reparto prevenzione crimine; tutti dietro i propri dirigenti senza un effettivo coordinamento. Nella relazione si leggeva anche che i 93 erano stati "arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio, lesioni, violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale, senza disporre, per ognuno di loro, di elementi che consentissero di ascrivere con una certa sicurezza specifiche responsabilità personali".

Nei confronti di Vincenzo Canterini, comandante del reparto romano e del Settimo nucleo, Micalizio ipotizzò addirittura la sanzione più grave, la destituzione della polizia. E invece, da vicequestore o primo dirigente che era, Canterini divenne questore. Quattro anni di reclusione in primo grado e cinque in secondo. Non si fece mancare nulla, il comandante: a Genova prese altri quattro mesi (in primo grado, in appello arriverà la prescrizione) per una spruzzata di spray urticante su un gruppo di persone, compresi, alcuni avvocati che in quei giorni seguivano le manifestazioni per assistere i no global in difficoltà. In carcere, in ogni caso, Canterini non andrà mai; si gode tranquillo la meritata pensione e la calorosa solidarietà dei partecipanti a forum come quello di www.poliziotti.it. Dopo la relazione del questore Micalizio nessuno aprì i richiesti procedimenti disciplinari perché era già iniziata l'indagine giudiziaria. Nessun poliziotto fu sospeso dal servizio per i fatti del G8 2001.

La conseguenza dell'istruttoria di Micalizio e di altre due ispezioni ministeriali, una sulle violenze in strada e l'altra su Bolzaneto, fu la rimozione di tre altissimi dirigenti, disposta il 2 agosto 2001. Via il prefetto Ansoino Andreassi, il vicecapo vicario della polizia che aveva un incarico di supervisione sulla gestione dell'ordine pubblico, veterano delle Digos e già direttore dell'Antiterrorismo, vicino al vecchio Siulp democratico e progressista. Via il prefetto La Barbera, il più alto in grado davanti alla Diaz. Via il questore di Genova Colucci. Gli ultimi due erano stati gravemente censurati da Micalizio; Colucci usciva male anche dall'ispezione del questore Salvatore Montanaro su Bolzaneto. A molti parvero capri espiatori, sacrificati da De Gennaro e dal ministro dell'Interno dell'epoca, Claudio Scajola, quando le maggiori responsabilità politiche della tragedia genovese ricadevano proprio su questi ultimi.

Ebbero, i tre rimossi, destini assai diversi. La Barbera morì nel settembre 2002 dopo la nomina a numero due del Cesis, l'organismo di coordinamento dei servizi segreti poi trasformato in Dis e affidato a De Gennaro. Colucci rientrò subito nell'amministrazione della polizia, con un incarico di rilievo nella commissione che decide le promozioni dei funzionari: oggi è prefetto ed è imputato di falsa testimonianza per le dichiarazioni rese al processo Diaz. Andreassi per un periodo andò al Sisde (oggi Aisi) come vice del generale Mario Mori, ex comandante del Ros dei carabinieri, quindi in pensione. Forse dalla polizia sarebbe uscito comunque perché così disponeva, dal primo luglio 2001, il provvedimento che lo aveva spedito a Genova nella "struttura di missione" che organizzava il G8. Questo, però, Andreassi lo seppe soltanto al ritorno a Roma. Dal 3 settembre 2001 divenne, di fatto, il principale testimone dell'accusa al processo Diaz.

Ventinove e poi ventotto imputati (la Procura non propose appello contro una delle assoluzioni), centoventi parti civili, sessantamila pagine di atti, centosettantadue udienze in tribunale e altre diciotto in Corte d'appello. Oltre trecento testimoni ascoltati, migliaia di fotogrammi proiettati sul grande schermo dell'aula bunker del tribunale di Genova e analizzati con le più moderne tecniche informatiche. E un processo indiziario in cui condanne e assoluzioni possono dipendere da una mezza parola, da una manciata di secondi in più o in meno, da un filmato di cattiva qualità, da una riunione i cui partecipanti non vogliono e forse non possono parlare, dalla forma dei tagli sul giubbotto dell'agente che denunciò un accoltellamento apparso subito poco convincente ma sbandierato come la prova regina dell'estrema pericolosità dei 93 arrestati. Si discute, in apparenza, di piccole cose. In realtà si discute della possibilità di ristabilire un certo ordine al prezzo della violazione delle regole e dei diritti, per poi venirne fuori dicendo: "Non competeva a me", "sono un superiore ma ero lì come osservatore", "mi sono fidato dei colleghi. Quali colleghi? Non mi ricordo, eravamo tanti. Devo pensare che i miei colleghi sono dei delinquenti?". O al massimo: "Mi sono sbagliato". E tutto questo da chi per mestiere dispone, nei limiti della legge, della libertà e dell'incolumità altrui.

Sulle responsabilità penali deciderà la Cassazione, sia per gli imputati della Diaz che per De Gennaro e Colucci, con tutte le garanzie del codice. In questi anni, però, il clamore della sanguinosa operazione, il rilievo dei funzionari coinvolti e l'atteggiamento difensivo assunto dall'intero vertice dell'amministrazione, che certo non favorì le indagini, sembrano aver trasformato il processo Diaz in un impossibile processo alla polizia e alla gestione di un appuntamento complesso come il G8 del luglio 2001 e del fenomeno no global di quegli anni. Sono problemi che non possono dibattersi in un'aula di tribunale. Però, senza i processi, la pagina di Genova sarebbe chiusa da un pezzo. Si può non condividere questa o quella posizione assunta dai pm e criticare alcuni aspetti delle sentenze di condanna che appaiono un po' sommari. Evidentemente c'è ancora molto da chiarire e da scoprire, ma non bisogna dimenticare che, senza le indagini e i processi, non sapremmo quasi nulla. Sulla Diaz, per intenderci, saremmo rimasti a discutere di chi entrò prima e chi dopo, se c'era o non c'era stata resistenza; non avremmo mai saputo delle false molotov, né delle modalità con cui la polizia preparò l'operazione e ne gestì i risultati, che pure sono state illuminate solo in parte.

Senza le indagini e i processi, sarebbero da tempo in archivio anche gli abusi di Bolzaneto, di cui rispondono tra gli altri vicequestori e commissari di polizia, ufficiali, funzionari e medici della polizia penitenziaria e marescialli dei carabinieri. Quarantasei imputati in tutto. Ancora una volta, alle prevalenti assoluzioni in primo grado seguì un giudizio più severo in appello, nel 2010. La Corte tuttavia dovette constatare la prescrizione di gran parte dei reati: abuso d'ufficio, abuso d'autorità su arrestati, violenza privata. Per la legge italiana, comportamenti definiti "tortura" e "trattamenti inumani e degradanti" ai sensi dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani corrispondono a reati di poco conto, meno di un furto aggravato, e sono soggetti, di conseguenza, a tempi di prescrizione assai brevi. La Corte di Strasburgo, che giudica del rispetto della Convenzione, afferma invece che reati di quel tipo dovrebbero essere imprescrittibili e dar luogo, durante il processo, alla sospensione dal servizio degli imputati, quindi al licenziamento in caso di condanna definitiva.

Finirono in tribunale anche diversi casi di pestaggi ingiustificati e di arresti illegali avvenuti nelle strade di Genova, in particolare per i fatti del 20 luglio in piazza Manin. Era la piazza più tranquilla che si potesse immaginare, animata dagli attivisti della rete Lilliput con le mani dipinte di bianco, dai banchetti del commercio equosolidale, dalle femministe della Marcia Mondiale delle donne. C'erano don Andrea Gallo, Franca Rame e don Oreste Benzi. La polizia arrivò fin lì per inseguire i black bloc responsabili dell'assalto con le molotov al carcere di Marassi, ma quelli furono respinti dai non-violenti e si dileguarono: le botte le presero i manifestanti pacifici. Come la pediatra triestina Marina Spaccini e l'esperta milanese di marketing Simona Coda, manganellate dalla polizia e risarcite dal tribunale civile. Come l'allora parlamentare Elettra Deiana (Rifondazione comunista) che fu costretta a farsi ricucire la testa. Un'avvocatessa e una biologa, bolognesi, ebbero un trattamento simile dalle parti di piazza Dante, dove si svolse la manifestazione di Attac: anche loro furono risarcite dal Viminale al termine del giudizio civile, nel quale era sufficiente dimostrare che i responsabili erano poliziotti, senza doverli identificare con nome e cognome.

Quattro agenti del reparto mobile di Bologna, al termine delle indagini del pm Cardona Albini, furono invece processati e condannati a quattro anni in appello, nel 2010, per l'arresto di due giovani spagnoli in piazza Manin. Secondo i verbali quei ragazzi avevano resistito alla polizia, uno brandendo un tubo Innocenti e l'altro lanciando una bottiglia molotov. Nei filmati, però, non si vede né l'uno né l'altra; anzi un tubo fu sequestrato ma non si trovò mai. Due video mostrano che gli spagnoli furono arrestati quando era tutto finito e i no global stavano soccorrendo i feriti. Anche i quattro poliziotti di Bologna attendono la Cassazione; nel frattempo a Genova è finito sotto inchiesta per falsa testimonianza il loro dirigente. In tutti i casi, le immagini girate da professionisti, mediattivisti e semplici dimostranti, ma anche da passanti e da abitanti delle zone interessate dagli scontri, si rivelarono decisive.

Perfino nel processo ai manifestanti accusati di devastazione e saccheggio emersero gravissime accuse alle forze di polizia. La sentenza di primo grado, emessa il 14 dicembre 2007 dal tribunale, stabilì che la carica di via Tolemaide, alle 14.56 del 20 luglio 2001, era stata assolutamente arbitraria perché il corteo delle Tute bianche stava ancora sfilando sul percorso regolarmente concordato con la questura e nessuno di quei dimostranti aveva compiuto azioni ostili verso i carabinieri. Quel collegio, presieduto dal giudice Marco Devoto con i colleghi Riccardo Realini ed Emilio Gatti, estensore delle motivazioni, non strizzava certo l'occhio ai no global, anzi nei loro confronti pronunciò condanne fino a undici anni (che arrivarono a quindici in appello).

Via Tolemaide fu l'episodio chiave della giornata. Fin dalla mattina si era assistito alle scorribande dei black bloc, contrastate assai debolmente dalle forze dell'ordine. Danni gravi, banche e negozi distrutti, auto in fiamme, l'assalto al carcere.

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Sotto i caschi degli uomini in divisa spuntavano occhi iniettati di sangue e di odio. E a farne le spese furono madri di famiglia, giovani e meno giovani rimasti isolati o intrappolati, manifestanti che più innocui non si può, medici e infermieri con tanto di improvvisata croce rossa, avvocati e giornalisti riconoscibili da pettorine. Tutte "sporche zecche", per dirla con il frasario dei fascisti da bar, purtroppo diffuso nella polizia come dimostrano le conversazioni registrate, nei giorni del G8, sulla linea del 113. Su quella linea una signora poliziotta esultava, parlando del cadavere di un ragazzo di 23 anni: "Uno a zero per noi".

Grazie ai filmati della Rai e di Canale 5 un episodio del 21 luglio 2001 dimostrò in mondovisione che le "mele marce" non erano solo celerini brutti, sporchi e cattivi. Molti ricorderanno la foto di un ragazzino allora sedicenne, Marco Mattana di Ostia (Roma), col volto tumefatto, sfigurato, coperto di sangue. E l'immagine in movimento di un funzionario in borghese, con una maglietta gialla, l'allora vicecapo della Digos genovese Alessandro Perugini, 40 anni, che poco prima sferrava un calcio in direzione di quel volto, già colpito dai suoi subalterni. Accadde in via Barabino, vicino alla questura, dove un gruppo di manifestanti aveva improvvisato un sit-in per protestare contro la polizia. Quel ragazzino fu arrestato con altre cinque persone, tra cui un fotografo e perfino un giovane praticante avvocato. Subirono abusi e violenze anche a Bolzaneto. Come tanti altri, i loro arresti non furono convalidati.

Perugini e altri quattro poliziotti furono incriminati dal pm Cardona Albini per falso e calunnia oltre alle lesioni. Secondo il verbale d'arresto Mattana e gli altri avevano lanciato i sassi e aggredito gli agenti, qualcuno aveva addirittura ferito il vicecapo della Digos, ma le riprese smentirono clamorosamente questa versione. Oltre a quelli degli operatori professionali, c'erano tre filmati girati da poliziotti della scientifica, i quali in aula confermarono di non aver visto azioni aggressive dei manifestanti.

Perugini non fu processato per lesioni perché risarcì Mattana. Fu condannato in primo grado e in appello arrivò la prescrizione, ma le sue responsabilità furono comunque confermate. Come gli altri, attende la Cassazione.

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Quella notte alla Diaz


Erano più di duecento, divisi in due colonne. Una "manovra a tenaglia", così la chiamarono, dall'alto e dal basso. Mancava qualche minuto alla mezzanotte di sabato 21 luglio 2001, parcheggiarono i mezzi nelle vicinanze e si riversarono in via Cesare Battisti, una strada in salita nel quartiere residenziale di Albaro, a Levante del porto e della fiera. All'arrivo di quel minaccioso esercito di caschi e divise blu il cancello della scuola Diaz venne chiuso con lucchetto e catena, qualcuno improvvisò una pietosa barricata dietro il portoncino di legno. Almeno due gruppetti scapparono utilizzando le impalcature che fasciavano la scuola, la Pertini/Diaz. "Erano vestiti di nero", dissero i poliziotti. Gli agenti, visto il movimento attorno al cancello, si misero a correre verso la scuola. Sulla zona volava un elicottero.

Uomini della prima colonna si avventarono, senza ragione, sui primi che trovarono nelle strade lì attorno. Alcuni li malmenarono e li costrinsero a inginocchiarsi a terra: uno era un giovane professore universitario. Impedirono di telefonare anche a un avvocato, Laura Tartarini, che stava rientrando alla Pascoli dove l'Associazione giuristi democratici aveva a disposizione un ufficio per i legali che in quei giorni assistevano i no global. "A signorì, nun se telefona", le dissero con accento romano. Francesco Frieri, 27 anni, prese una raffica di manganellate (15 giorni di prognosi) da agenti in borghese con la pettorina "polizia": si ostinò a gridare "stampa stampa" ma quelli rispondevano "scrivete tutte cazzate", gli strapparono il pass e giù botte. Poi riuscì a spiegare che era un consigliere comunale di Modena. Uno, forse un funzionario, gli disse "ci siamo sbagliati" o una cosa del genere.

Mark Covell lo raggiunsero davanti al cancello della Diaz, mentre cercava di scappare dall'altra parte della strada, nella scuola Pascoli, dove c'era il Media center dei no global. Il suo amico Sebastian fu più svelto, lo colpirono alla schiena ma riuscì a passare di là, dove lo aiutarono a rotolare al coperto, nel seminterrato. Mark fu massacrato di botte. Alla guida della prima colonna c'erano l'allora capo della Digos genovese, Spartaco Mortola, all'epoca quarantaduenne, e il comandante del reparto mobile di Roma, Vincenzo Canterini, 54 anni. Erano vicequestori, primi dirigenti, uomini d'esperienza. Gli agenti di Canterini, 60/70 celerini superaddestrati del Settimo nucleo sperimentale antisommossa, erano incaricati di entrare per primi nell'edificio, cioè di procedere alla cosiddetta "messa in sicurezza" o "bonifica".

"Mi gridavano tu sei un black bloc e noi ammazzeremo i black bloc." Questo raccontò Covell, giornalista freelance inglese del circuito di Indymedia, allora trentaquattrenne, lasciato sul marciapiede con fratture a otto costole e a una mano, trauma cranico e denti rotti. Un'infermiera che assisteva dalla scuola Pascoli riferì:

INFERMIERA: "Ha alzato le braccia, è stato travolto immediatamente. Era un birillo, veniva sbattuto da una parte all'altra, ricordo parecchi calci, ricordo molto bene le scarpe di queste persone perché erano scarponi grossi. I primi lo hanno spintonato, poi si sono richiusi su di lui; tutti quelli che passavano lo malmenavano in un modo o nell'altro".

Non era l'unica testimone.

Decine di agenti in divisa e in borghese, forse anche qualche carabiniere, colpirono il ragazzo in tre distinte ondate, l'ultima fase fu ripresa dalla provvidenziale telecamera di Hamish Campbell, un attivista che era sul terrazzo della Pascoli. Era ormai arrivata anche la seconda colonna, guidata da un altro funzionario Digos, Carlo Di Sarro, e da Michelangelo Fournier, vice di Canterini e comandante del Settimo nucleo. Altre decine di poliziotti videro. C'erano, a pochi metri di distanza, funzionari e dirigenti: gli passavano accanto, a pochi metri, si vede nelle immagini. Eppure, come dissero durante le indagini, non si accorsero di nulla, non se lo ricordano, non ci fecero caso o pensarono che se la fosse "cercata".

Covell perse i sensi, fu soccorso da un poliziotto rimasto sconosciuto che gli prese le pulsazioni, quindi da un tenente dell'Arma dei Carabinieri. Solo dopo 20 minuti arrivò un'ambulanza, chiamata da un abitante della zona, e lo portò via. Corse pericolo di vita. Fu arrestato anche lui, nessuno mise a verbale che era stato fermato, per così dire, fuori dalla scuola. Mark parlò di carabinieri, di uno scudo con la scritta "carabinieri". Fece confusione, è inglese. Parlano più chiaramente le immagini degli agenti in divisa che lo pestano: sono divise della polizia, alcune sembrano del Settimo. In un secondo momento però arrivarono anche i carabinieri, non erano un'invenzione di Covell.

Restano ignoti gli autori del pestaggio. La Procura nel 2011 chiese l'archiviazione del relativo fascicolo per tentato omicidio.

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Restava solo il processo, e in appello non andò come in primo grado.

Il procuratore generale Luciano Di Noto, protagonista negli anni Settanta e Ottanta dei processi alle Brigate Rosse genovesi e di quello per il sequestro della nave Achille Lauro, incaricò i sostituti Ezio Castaldi e Pio Macchiavello, magistrati di grande esperienza, di preparare il ricorso. Zucca chiese e ottenne la cosiddetta "applicazione" alla Procura generale per poter sostenere personalmente l'accusa. Anche Francesco Cardona Albini, superate le contestazioni delle difese, prese parte al giudizio d'appello davanti alla Corte presieduta dal giudice Salvatore Sinagra e formata anche da Francesco Mazza Galanti e Giuseppe Diomede, quest'ultimo relatore.

Alla prima udienza Di Noto si presentò in aula: pochi minuti e un saluto ai magistrati sui banchi dell'accusa, un gesto simbolico per rappresentare la compattezza dell'ufficio. Il procuratore Lalla, durante il processo di primo grado, non si era mai fatto vedere. Macchiavello, già pm antimafia, fu l'ultimo a parlare. Non nascose la sofferenza nel chiedere in totale 110 anni di carcere per i 28 imputati.

Dopo diciotto udienze il processo si chiuse il 18 maggio 2010 con un verdetto che ribaltava, almeno per metà, la sentenza del giudice Barone. Non un secolo di carcere ma condanne per 85 anni, quando ormai pochi credevano che il processo Diaz potesse ancora riservare una simile sorpresa. Lo stesso giorno, Zucca passò dalla Procura della Repubblica alla Procura Generale. Furono tutti riconosciuti colpevoli meno uno, l'agente Burgio che aveva portato materialmente le molotov nel cortile della scuola, anche se la Corte d'appello era costretta a dichiarare la prescrizione dei reati di calunnia, arresto illegale, perquisizione arbitraria, violenza privata, lesioni personali semplici e percosse.

Cinque anni a Canterini, quattro a Gratteri e a Luperi, tre anni e otto mesi a Caldarozzi, Mortola, Ferri e a tutti i firmatari dei verbali. Troiani venne condannato a tre anni e nove mesi per porto d'armi da guerra e falso, ma di nuovo assolto nel merito dall'accusa di calunnia. Piena assoluzione per Burgio. Piena condanna per Nucera e Panzieri.

Confermati giudizi di colpevolezza su Canterini, Fournier e i capisquadra per le lesioni, ma a differenza del primo grado solo Fournier beneficiò delle attenuanti generiche, di solito concesse agli imputati incensurati. Per lui la pena di due anni fu confermata e dichiarata prescritta, per gli altri aumentò. Prescrizione integrale anche per Fazio, responsabile delle percosse (un mese in primo grado) su un tedesco alla Pascoli.

Scrisse la Corte nelle ultime pagine delle motivazioni:

I tutori dell'ordine si sono trasformati in violenti picchiatori, insensibili a qualunque evidente condizione di inferiorità fisica (per sesso o età delle vittime), agli atteggiamenti passivi e remissivi di chi stava fermo con le mani alzate, di chi stava dormendo e si era appena svegliato per il frastuono. Alla violenza si è aggiunto l'insulto, il dileggio sessuale, la minaccia di morte. Il sangue è sgorgato a fiotti per ogni dove lasciando tracce (immortalate dalle fotografie scattate dai carabinieri) che non potevano essere trascurate da nessuno dei presenti. L'enormità di tali fatti, che hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero, non rende seriamente rintracciabile alcuna circostanza attenuante generica. Né a diversa conclusione può condurre il comportamento processuale successivo, improntato, nella migliore delle ipotesi, alla mera negazione di responsabilità, in quella peggiore a sostenere che le ferite erano pregresse. Nel processo si è assistito soltanto a un deplorevole scambio di accuse tra gli imputati che si sono ributtati a vicenda la responsabilità delle lesioni e degli altri gravi reati, ma non una sola voce di rammarico per l'accaduto o un pensiero alle vittime si sono levati.

Stavolta però non toccava solo ai responsabili del reparto mobile, la sentenza infatti proseguiva così:

Se possibile è ancora più grave la valutazione delle condotte successive che hanno prodotto i falsi, le calunnie e gli arresti illegali (per ricordare le più rilevanti). Qui è davvero difficile nascondersi l'odiosità del comportamento: una volta preso atto che l'esito della perquisizione si era risolto nell'ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, i vertici della polizia avevano a disposizione solo una retta via, per quanto dolorosa: isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociarsi da tale condotta, rimettere in libertà gli arrestati. Purtroppo è stata scelta la strada opposta: con incomprensibile pervicacia si è deciso di percorre fino in fondo la strada degli arresti, e l'unico modo possibile era creare una serie di false circostanze funzionali a sostenere così gravi accuse da giustificare un arresto di massa.

La ricostruzione dei giudici d'appello, dopo l'analisi della sentenza di primo grado e dei ricorsi, prendeva le mosse proprio dal cambiamento di strategia attribuito dal prefetto Andreassi all'allora capo della polizia. E andò anche al di là delle tesi dell'accusa:

Può dirsi pacifico in causa che il sabato 21 luglio 2001, quando la manifestazione ufficiale del vertice "G8" era terminata, così come erano finite le manifestazioni delle numerose organizzazioni dissenzienti, dal capo della polizia giunse la direttiva di affidare al dott. Gratteri del Servizio centrale operativo il compito di effettuare perquisizioni, in particolare presso la scuola Paul Klee (ove si sospettava si fossero rifugiati appartenenti al gruppo violento di tipo black bloc), mentre nel pomeriggio giunse a Genova, sempre mandato dal capo della polizia, il prefetto La Barbera (originariamente coindagato nel presente procedimento, e poi deceduto) per dirigere le operazioni, in particolare la predisposizione di c.d. pattuglioni con il compito di perlustrare la città alla ricerca dei black bloc. Il fine di tali direttive era chiaro ed è stato ben compreso dal prefetto Andreassi così come da tutti gli altri protagonisti delle riunioni preparatorie dell'irruzione tenutesi in Questura: si doveva riscattare l'immagine della polizia, che nei giorni precedenti era sembrata inerte di fronte ai gravissimi episodi di devastazione e saccheggio cui era stata sottoposta la città, e a ciò doveva provvedersi mediante arresti; era quindi necessaria una attività più incisiva per la quale erano stati mandati da Roma funzionari apicali che, evidentemente, subentravano a tal fine a quelli locali di Genova.

La modalità tecnica scelta per intervenire è stata la perquisizione a iniziativa di polizia giudiziaria ex art. 41 Tulps. La scelta dell'obiettivo è caduta sulla scuola Diaz a seguito dell'episodio della aggressione al convoglio di veicoli della polizia in via Cesare Battisti nei pressi del predetto edificio scolastico.

Se il tribunale aveva ritenuto legittima la perquisizione e alcune parti civili sostenevano che un intervento alla ricerca di armi era abusivo, la Corte riteneva "irrilevante accertare tale legittimità". Secondo il collegio, il sospetto che nella scuola si trovassero i famigerati black bloc e le presunte armi non era particolarmente fondato. Non poteva bastare l'aggressione alla pattuglia, tanto più che era avvenuta tre ore prima dell'irruzione, né la telefonata di Mortola a Kovac, la cui credibilità era ristabilita, né il sopralluogo dello stesso Mortola.

Secondo la Corte,

il sospetto che all'interno dei due edifici scolastici potessero esserci appartenenti al c.d. black bloc e, quindi, armi era particolarmente labile, potendosi al massimo ipotizzare che alle persone legittimamente presenti nella scuola Pertini (che la Pascoli continuasse ad essere sede del Gsf era pacifico) si fossero aggiunte altre persone non immediatamente identificate dai responsabili del Gsf. Ciò che sicuramente non risulta vero è quanto affermato nella comunicazione di notizia di reato, e cioè che il dott. Mortola avrebbe accertato che "la struttura era occupata da numerosi elementi appartenenti all'area dell'antagonismo più estremo, riconducibili ai gruppi responsabili di alcune azioni violente realizzate nella stessa giornata e in quella precedente". Neppure lo stesso imputato Mortola nel corso delle sue dichiarazioni ha mai sostenuto di aver compiuto un accertamento del genere, né ha indicato con quali modalità investigative sarebbe giunto ad apprendere che all'interno delle scuole vi fossero soggetti ai quali potesse essere attribuita la responsabilità delle violenze compiute in precedenza.

La Corte fu più severa della Procura nel censurare le modalità operative scelte nella seconda riunione in questura:

Si è visto che il dispiegamento di forze è stato notevole e che era stata prevista una prima fase di "messa in sicurezza", affidata a Canterini e ai suoi uomini del VII nucleo, le cui caratteristiche sono rimaste ignote. Non è dato sapere quali direttive operative siano state date al personale, se non quella, del tutto gratuita ed ingiustificata, che all'interno della scuola vi fossero i pericolosi black bloc responsabili delle violenze.

E ancora, il collegio sottolineò che erano necessarie disposizioni per evitare l'esplosione di violenza:

Il binomio "necessità di procedere ad arresti" e la "dotazione al personale di strumentazione necessariamente finalizzata all'uso della forza" avrebbe reso necessario o fornire agli operatori i criteri di intervento necessari al fine di evitare indiscriminate e generalizzate attività repressive (come invece è poi accaduto) o un controllo costante e penetrante da parte dei dirigenti dei vari reparti che impedisse l'uso distorto della forza.

Ma nulla di tutto ciò è stato predisposto, né nelle due riunioni preparatorie in Questura, né sul campo durante l'azione.

Non può stupire, allora, che al primo contatto con soggetti presenti nei pressi delle due scuole si siano immediatamente manifestate a opera degli operatori di polizia le prime gravissime e indiscriminate condotte violente, sadicamente ripetute fino alla perdita dei sensi di Covell, nell'indifferenza generale di tutti i funzionari e dirigenti ivi presenti.

Non può stupire che, invece di parlamentare l'ingresso nella scuola, sia stata decisa l'irruzione (condotta di per sé violenta) lasciando liberi gli "animali", come qualificati dal La Barbera i poliziotti alle sue dipendenze, e che quindi si siano avuti i gravissimi episodi di lesioni all'interno della scuola.

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