Copertina
Autore Gaia Manzini
Titolo Nudo di famiglia
EdizioneFandango, Roma, 2009, Galleria , pag. 192, cop.fle., dim. 14,2x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6044-112-6
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe narrativa italiana
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Indice


Ada                               7

Dietro il vetro                  15

La manovra di Heimlich           24

Salmoni                          35

La cassapanca                    48

Carne della carne                59

Bergson                          64

La mano destra                   74

Come una casa vuota              88

Prime volte                     100

Lividi                          112

Pulizia                         126

Il gioco della torre            139

Senza pieghe                    153

Paura                           174


 

 

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Pagina 7

Ada


Si chiama Ada. Già, Ada.

È sdraiata nel grande letto di legno scuro e se lo ripete mentalmente. Fa rimbalzare in testa tutta fiera quel monosillabo veloce.

Quando sei vecchio nulla è più tuo, questo lo sa da tempo. Quando hai novantasette anni delle cose non te ne frega più niente da un pezzo, di quelle che durano nel tempo menchemeno. Sarà per questo che fa comprare a Mina, la badante filippina, solo tovaglioli e piatti di carta, nonostante i cassetti siano pieni di fiandra e lino ricamato. Si fa schiacciare la mela e la raschia con le posate di plastica PET, dimenticandosi del rumore che produce il metallo sulla ceramica.

È uno dei tanti addii che fa al mondo di anno in anno, senza chiedersi troppo il perché.

All'inizio Mina le è stata imposta dalle figlie. La straniera in casa sua che, l'aiuta ad andare in bagno e le pulisce la bocca quando si sbrodola.

Eppure non è un'umiliazione, si dice. È più umiliante che gli altri lo trovino penoso ma te lo infliggano ugualmente. Come a sottolineare che ci stai mettendo troppo a morire.

Ada sorride nell'oscurità della sua camera.

La vecchia con la pelle dura come i suoi occhi azzurri.

Ada, Ada, Ada, Ada...

Quando sei vecchio nulla è più tuo. Eppure da quando Mina le fa compagnia lei si è riappropriata del suo bel nome, breve ma ampio, che è rimasto sepolto per anni sotto interscambiabili mamma, nonna, bisnonna, signora.

Senti come suona bene: Ada, Ada, Ada.. Così la chiama Mina quando parlano insieme.

Ada va a letto sempre più presto. Non ha sonno, ma l'idea di alzarsi finalmente dalla sedia e dirigersi in camera le dà un piccolo brivido. Molto più delle visite che le fanno figlie e nipoti. È il suo inconfessabile segreto.

Quello che è successo alla sua schiena, quel piegarsi ad arco fino a guardarsi l'addome quando cerca di stare in piedi, è quello che succede pian piano dentro di lei. I vecchi non pensano alla morte. I vecchi cominciano a conoscerla. I vecchi come Ada vogliono ripiegarsi su se stessi, ritrovarsi un po', stare compatti su quello che è rimasto loro.

Ada va a letto quando Mina sta ancora guardando il TG delle otto. La voce del cronista s'infila nella camera con il pavimento di graniglia, l'odore di naftalina e il posto di Nino, il marito di Ada, sempre intatto e inamidato da quasi vent'anni, da quando la morte se l'è preso così all'improvviso tra le lenzuola del corredo.

C'è la rivolta dei tibetani, la monnezza di Napoli, quell'affare dell'Alitalia: oltre la porta c'è il mondo che infila un passo dopo l'altro.

C'è, ma e in un'altra stanza.

Ada, Ada, Ada, Ada...

Quando le luci si spengono nel resto della casa, lei si concentra sui fari che arrivano dalla strada. Attraverso le tapparelle conta le macchine che passano sul grande vialone per addormentarsi.

Due, tre... quattro.

Una lieve agitazione l'assale perché Mina ha comprato due chili di mele acerbe. Due chili. Quando li ha tirati fuori dal sacchetto si e sentita avvampare e ha distolto lo sguardo.

Poi allunga la mano verso il posto del suo Nino e pensa a quanto tempo è passato e chissà se la riconoscerà. Sì, chissà.

Quel pensiero ha un sapore lontano che ancora punge come uno spillo e lei come ogni notte ha trent'anni ed è sfollata insieme alle tre figlie. Suo marito non c'è: dopo l'armistizio ha preso i sentieri delle montagne e ha raggiunto i partigiani. Non sa più nulla di lui. Ma sa che l'ha fatto per impulso, ancor prima che per ideologia.

Per seguire l'istinto plantare a farsi tirare dove non sa.

Ada non ama immaginarsi il futuro, fare congetture, lei è tagliata nella pietra ligure e conosce solo la certezza delle onde. Il dolore corrode la faccia, ma il corpo, le mani e gli occhi rimangono fermi, senza tremori.

Poi le immagini si susseguono come tutte le notti.

Come in un film.

C'è lei che per sbaglio va in una farmacia diversa dalla solita perché quella in centro e chiusa per lutto, eppure il farmacista sembra conoscerla, la porta nel retrobottega per darle una ricetta di cui non sa niente e le dice che Nino è oltre confine. Che l'hanno preso e lo hanno torturato, che gli hanno forato i timpani, già che era lì con quella faccia da contadino a far finta di non sentire le domande che gli facevano.

Il dolore si mischia insieme alla gioia nell'addome, facendo un vortice che risucchia in basso le budella e Ada capisce, notte dopo notte, che la memoria, quella vera, ce l'ha il corpo. Quel corpo vecchio che non è più tuo, che non risponde più, ma che rimane attaccato ai momenti della vita e cela le mappe delle tue emozioni.

Spilli e vuoti che riafferri come il corrimano delle scale mobili.

Ada tenta di mettersi su un fianco, quando suonano alla porta. Un trillo roco, e lei corre ad aprire. C'è un tizio magro, brutto e sporco. No, non abbiamo bisogno di niente, gli dice. Niente. È sua madre che la scosta, apre di nuovo e cade in ginocchio mettendosi a piangere, che quello lì con gli occhi selvatici è Nino, che se l'è fatta a piedi. Nino, che sua moglie non ha riconosciuto.

Di nuovo il corpo si ricorda. È fitte, formicolii. È un tonfo.

Ecco la dodicesima macchina. D'estate il tempo prima di assopirsi si allunga: può contare sul passaggio di poche automobili. Le famiglie sono già in villeggiatura.

Ada lo sa. L'attimo che il suo corpo cerca ormai ogni notte è ancora lontano.

Le bestie sono bestie, pensa. Come diceva sempre sua madre e prima di lei sua nonna. Anche quella frase è un appuntamento notturno, perché l'immagine di suo marito sulla soglia è tutt'uno con quella del gatto scappato dalla casa di Oneglia, casa che nella testa è la stessa della sua maturità, anche se era tutta diversa e lei aveva solo dieci anni. Le piacciono i cortocircuiti della mente, tanto le sembrano un regalo del tempo, che a rinfilare sempre gli stessi pensieri ti mostrano percorsi nuovi. E anche lì, quando l'estate seguente il gatto Bianchino si era ripresentato miagolando al cancello, le era parso così brutto e nero e selvatico che manco lo aveva riconosciuto.

Neanche quella volta.

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Pagina 24

La manovra di Heimlich


Il cameriere è in piedi di fianco al nostro tavolo. I riccioli gli si muovono composti intorno alle tempie e il labbro superiore s'inarca verso l'alto come tirato dalla punta del naso. Ha qualcosa di Frank-N-Furter in The Rocky Horror Picture Show.

Lisa lo guarda rapita mentre descrive i piatti vegetariani che ci ha appena servito: lo stufato irlandese di seitan alla birra accompagnato da purea di zucca e semi di garofano per me; un tris di mousse ai cannellini, ceci, pinoli più riso selvatico alle bacche rosse (selvatiche pure quelle) per lei.

La descrizione è interminabile e ritmata. Sorrido pensandola accompagnata da The Time Warp Again.

Frank-N-Furter conclude con un dondolio della testa, lieve ma arrogante. Pretende l'applauso del pubblico, perché il tono da presentatore di pietanze e la sua conoscenza macrobiotica non è cosa da tutti.

Lisa lo ringrazia con il suo sorriso disarmante. Il sorriso sovversivo che sa cambiare cose e situazioni e che rivolge a me non appena Frank-N-Furter ha girato i tacchi soddisfatto. È tanto tempo che non glielo vedo dipinto sul volto.

Siamo insieme da otto anni e oggi è il nostro anniversario, eppure la scelta di un ristorante vegetariano mi sembra un cambiamento, una virata improvvisa, perché vegetariani non lo siamo mai stati, né abbiamo mai pensato di diventarlo. Così come non abbiamo mai pensato di diventare genitori. Ho sempre dato per scontato che a lei non interessasse, che fosse presa dal suo lavoro da giornalista e che la nostra vita di coppia le andasse bene così (ultimamente l'ho vista tornare a casa con un test di gravidanza al mese, per accertarsi, credo, di non aver sbagliato, di non esserci lasciati troppo andare: immancabilmente mi capita di trovare quei buffi bastoncini di plastica sul davanzale del bagno, tra i barattoli di creme e i tubetti di dentifricio, e tiro un sospiro di sollievo); né fino a ora abbiamo mai parlato di sposarci: siamo semplicemente andati a vivere insieme, abbiamo mescolato la nostra biancheria nei cassetti e i libri sugli scaffali e da sempre abbiamo frequentato le rispettive famiglie solo lo stretto necessario. Ci bastiamo, ne siamo sempre andati fieri. Eppure lei stasera ha una luce strana negli occhi. Come un pensiero che le rimbalza dietro l'iride e spinge a venire fuori.

Senza smettere quel sorriso mi chiede: "Non è fantastico?".

Annuisco e sorrido anch'io perché ha fatto tutto lei e tutto deve essere perfetto. Così quando prendo le posate e mi accorgo di avere le mani sporche me ne vergogno.

"Devi assaggiare le bacche rosse." È il primo boccone della nostra cena vegetariana.

Sono alle prese con il seitan di cui non capisco la consistenza, ma lei insiste, non mi dà scampo. Allora allungo la forchetta verso il suo piatto.

Bacche rosse, uscite da una fiaba dei fratelli Grimm.

Sì, il riso è eccezionale, si sente un retrogusto indefinito. Faccio per deglutire perso in quel sapore di nylon, quando le vedo spalancare gli occhi. Enormi. All'improvviso non è più con me.

"Lisa? Cosa succede?" È una statua di carne.

"Amore! Lisa!" Tossisce. Mio dio, sta tossendo. La forchetta vola in terra. Lisa è cianotica. Le vene del collo sembrano gli elastici tesi di una fionda. Si slaccia la camicetta, quasi la lacera, e vedo il suo petto abbondante soffocato nel reggiseno.

"Lisa, respira!" Le batto sulla schiena come se fosse un portone, ma lei fa versi sempre più convulsi, si porta le mani alla gola, si agita. Con un pugno ha fatto volare il piatto sul parquet. Bacche sparse come gocce di sangue.

La manovra di Heimlich: me l'hanno insegnata all'esame di pronto soccorso.

Ce l'ho. L'ho afferrata da dietro e spingo forte all'altezza dello stomaco. Una, due, tre volte. "Dai amore, dai, dai!»

Troppe voci intorno. Tutti in piedi. Una donna ha gridato. Rumore di sedie e passi veloci.

Poi l'uomo brizzolato. Arriva dal fondo della sala. Mi scansa come se fossi un burattino e afferra la mia donna da dietro, con sicurezza. Gronda già di sudore.

Mi ha spiazzato.

Me ne sto impietrito a guardare la scena, ma l'unica cosa cui riesco a pensare mentre lei forse sta morendo, è che quell'uomo forte sembra se la stia inculando davanti a tutto il popolo vegano.

Gli basta un colpo secco, poderoso, e una poltiglia di pane, bacche e riso si va a schiantare sulla tovaglia.


Per tutta la notte ho pensato a questa cosa del soffocare: una bacca che fa un percorso e si va a piazzare da qualche parte come in stand-by, fino a far fermare tutto, e quella stessa bacca, se per un colpo assestato con perizia se ne esce, rifà quella strada al contrario, aggancia il tempo e cerca il punto di partenza fuori da te e dalla tua bocca. Ma quando si torna indietro non ci si ritrova mai allo stesso punto di partenza, mai allo stesso.

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Pagina 100

Prime volte


Stai strappando una pagina del libro di storia per appallottolarci dentro la cicca che mastichi da otto ore.

Non lo hai mai fatto. Ti sei sempre limitata a studiare, a ficcarti in testa tutti i nomi, le date, le frasi che potevi, come per farti popolare dai secoli, da vicende che non sono tue, e così ancorarti a terra. Tu che di anni ne hai pochi e ti sembra che il vento ti possa portare via quando vuole. Ma oggi sei diversa: hai smesso di essere un niente. Ti senti nuova: Tanto nuova da essere nata esattamente in questo momento.

La carta si lacera e tu incidi una cicatrice sonante nel tempo. Strappi una pagina e poi un'altra. D'ora in poi ci sarà solo quello che è venuto prima dello strappo e quello che è venuto dopo. Da adesso, ti dici, non importa più nulla di quello che devi o non devi fare. Tu stai prima di ogni regola e la vita comincia da questo punto preciso. Da te che hai dodici anni e da tutte le tue "prime volte". Parli solo di quello, pensi solo a quello. La prima volta che torni dopo mezzanotte, la prima volta che vedi un film dell'orrore, quella che ti metti lo smalto e fumi una sigaretta di tua madre, proprio come fa lei non appena ha finito di dirti che non devi farlo mai; quella che vai in moto dietro un ragazzo, ti metti i tacchi di un'amica più grande e il profumo alla vaniglia, che ti dà la nausea e, insieme, la certezza di esserci sempre, con quei suoi picchi d'odore che ti regalano l'evidenza che sai di non avere, perché altrimenti nessuno si volterebbe a guardarti o si accorgerebbe di te, almeno così ti sembra.

La prima volta che rubi qualcosa in un negozio, che dai un bacio con la lingua e mangi cinese.

Vivere è eliminare dall'elenco tutte le prime volte, spuntandole come le voci dalla lista della spesa.

Però a te quelle prime volte a cui ti chiamano tutti e stanno lì a guardare se ce la fai veramente a svangarle come hanno fatto loro prima di te, non riescono quasi mai. Succede sempre qualcosa per cui ti ritrovi indietro dieci passi dagli altri e ti sembra che così non crescerai mai, rimarrai ferma ai tuoi dodici anni e anche quando ne avrai trenta e ti diranno di fare un revival della tua giovinezza giocando a calcetto oppure facendo la ruota sul bagnasciuga, dentro di te non scatterà niente. Niente di niente.

E sarai catapultata di nuovo all'angoscia della linea di partenza, a cui rimarrai inchiodata.

E forse ti verrà il magone.


La statuetta di ceramica, l'orribile bambina con il cane, che mamma e papà hanno riportato da un viaggio in Europa, sembra non avere pace. Un giorno la trovo all'ingresso vicino alla posta, un altro in salotto sul mobile di nonna. Poi in bagno e in camera da letto. Non crea sodalizi con gli oggetti di questa casa, penso.

È sempre fuori luogo, eppure questo la rende più forte. La noti, e se non la vedi la vai a cercare, anche se sai che ti deluderà.

Tutt'altra cosa rispetta a zio Salvo: bello che ancorato, conficcato, radicato al divano del salotto. Se ne sta lì con la scusa della convalescenza per l'operazione all'ernia e guarda la televisione da mattina a sera. Vede tutto, immagazzina tutto. Televendite, giochi a quiz, reality, TG regionali. Quel far passare dal nervo ottico il mondo, pare dargli un'idea di movimento, un assaggio d'avventura, tanto lo vedo sghignazzare senza motivo, fare urletti vittoriosi. Per cosa poi?

Dovrebbe prendersi cura di me, e io di lui, finché i miei non torneranno dalla crociera sul Nilo.

Il fratello di mamma. Ventotto anni, ma potrebbe averne ottanta. Forse otto.

Quando gli passo di fianco col mio profumo alla vaniglia lui si gira sempre. Qualche volta mi dice che mi sto facendo carina.

Io vado allo specchio ma non ci trovo nulla di speciale.

Quello che ho in testa, è solo di tornare a scuola a settembre con un carico di racconti da far rimanere tutti a bocca aperta.


Hai dodici anni e più che conoscere le cose, ti lasci conoscere da loro.

Ti entrano dentro, ti perlustrano la pelle con brividi, calore, emozioni. Ti prendono le misure e ti suggeriscono quello che sei e potresti essere.

Hai capito che i ragazzi non ti scansano: semplicemente non ti vedono. Come l'ora di chimica o di geografia: che ci siano o non ci siano non fa alcuna differenza. Neanche mandano i genitori a parlare con i professori.

Il primo bacio l'hai dato a uno rosso di capelli che puzzava di umido. Non appena ha avvicinato la sua faccia alla tua, hai chiuso gli occhi, perché era la sola cosa che potevi chiudere in quel momento. Non vedere, non sentire. Come se fosse lo stesso.

E hai capito che le prime volte ti si possono ritorcere contro, visto che lui andava vantandosi e a te prendevano in giro manco fossi un'appestata.


"Cosa vuoi vedere?", chiede per essere gentile.

"Quello che vuoi tu", rispondo io indifferente.

Ce l'ho seduto accanto in canottiera con il telecomando in mano. Quel suo essere sempre uguale a se stesso mi disgusta e mi dico che forse crescere è questa cosa d'immobilizzarsi a poco a poco. Mio zio emana odore di sudore e un vago afrore di fritto che dev'essersi impigliato tra i suoi capelli l'altro giorno, quando la sua amica è venuta qui a cucinare.

Lo vedo vecchio anche se non lo è.

Questa volta ha messo la statuina di ceramica proprio sopra il televisore: sembra ci guardi impassibile. Mi mette a disagio. Ho capito che le cose immobili ti lanciano addosso più disappunto di quelle che si agitano senza scopo.

Mi chiede come mai una ragazzina (usa proprio questo termine che mi fa sentire come strozzata in un paio di jeans passati di taglia) così simpatica (omette il "carina" e il suo non dire mi fa odiare l'elenco tutto delle mie virtù, perché poi sono le qualità senza merito, come l'essere bionda con occhi cerulei, a destare più meraviglia, anche se non ho mai capito perché), non ha qualcuno con cui uscire.

Ma il suo stupore è una lama e io per un attimo lo odio.

Come fa a non capire che ho solo dodici anni, che io non esco con qualcuno, che non mi ha invitato nessuno al campus di pallavolo perché l'ultima volta con la mia goffaggine ho fatto vincere la squadra avversaria e che l'unica volta – la prima volta – che stavo ballando a una festa, e mi sembrava di far parte di un qualcosa, è arrivata mamma con la sua gonnellona a fiori, per riportarmi a casa. E più che della figura di merda davanti a tutti, io mi sono vergognata di lei e le ho visto addosso tutti i difetti che non vorrò mai avere.

Dal mio silenzio intuisce di aver detto qualcosa che non va e mi strofina il palmo della mano sul ginocchio. Io fisso le sue nocche. Poi guardo la statuina di ceramica e mi sento arrossire.

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Pagina 139

Il gioco della torre


L'inesorabilità della roccia e l'anarchia della schiuma. In mezzo, la sabbia e i suoi grani grossi: fuggevoli l'uno dall'altro, come parole scollate di un discorso che non trova filo logico.

A Marina quella lingua di spiaggia resa incerta dalle maree sembra il luogo perfetto per questa domenica in famiglia.

Scendono dalla ripida scalinata portandosi dietro tutto il necessario. I teli a righe, il piccolo ombrellone, i giochi di Mattia, la borsa frigo color lampone, i racchettoni. Nessun libro che spinga a concentrarsi solo su se stessi. Anche le riviste, che Lorenzo le ha chiesto di comprare, le ha lasciate sul sedile posteriore della macchina, ad aspettare il loro ritorno.

Quello laggiù non è un luogo, sembra una soglia, il confine di qualcosa. Forse solo una parentesi di vento e luce. Cambia a seconda del tuo umore, sarà per questo, pensa Marina, che ogni volta appare inesplorato, vergine. Ed è per questo che ogni volta, ancor prima di gustarti la vista mozzafiato, scruti la distesa beige, la scandagli. Speri di non trovare nessuno, neppure la più piccola macchia di una presenza.

Ma qualcuno c'è sempre.

Una musica R&B arriva fino alla scalinata. Al centro esatto della spiaggia c'è un gruppo di ragazzi, accennano passi di danza. Marina si guarda intorno: a destra si alternano delle famiglie indaffarate. Le famiglie appaiono sempre indaffarate. E impermeabili. Sono in mezzo alla gente ma sembrano concentrate unicamente su se stesse, come se il loro campo visivo si dilatasse e contraesse seguendo solo l'andare e il venire dei propri componenti.

Sono indifferenti a tutto il resto.

Marina scansa una coppia attorcigliata in madide effusioni. Punta allo sfondo di una roccia scura che incornicia una mezzaluna di sabbia solitaria. Fosse un po' in ombra, ma va bene lo stesso, sembra una nicchia.


Le bambine sono due particelle nere: prima si attraggono e poi si respingono. Creano e disfano i campi magnetici della loro innocenza.

Quando si sono sistemati vicino alla parete di roccia, Marina non le aveva viste, né sentite. Guardandole correre senza riparo si chiede dove siano i loro genitori, poi però ritorna immediatamente al suo campo visivo, al suo personale orizzonte che da oggi si stende dritto a unire due punti. Mattia e Lorenzo. Finalmente è tornato da lei. Ha dovuto aspettare cinque anni, l'età di Mattia.

Per suo padre era questo il senso di famiglia: l'essere contenuti tutti nell'orizzonte delle sue pupille. Tenuti insieme dalle sue impalpabili traiettorie.

La famiglia è un luogo: o sei dentro, o non ci sei, per niente.


"Mattia!"

Sua madre lo chiama in continuazione, come non ha mai fatto prima d'ora. Lo vuole vicino. Pensa sia l'effetto che le fa Lorenzo.

Chiamarlo papà gli fa strano, perché sono anni che non lo vede, anzi diciamo che non l'ha quasi mai visto, e questa cosa di alzarsi alla mattina e prendere dal niente a fare il figlio, chiedere il permesso per tutto, mostrare una faccetta vittoriosa non appena ha finito di fare un castello di sabbia, per vedere se lui lo sta guardando con occhi fieri, questa cosa di duplicare espressioni e domande, perché anche se si rivolge a sua madre lo sa che le parole che gli escono dalla bocca se ne vanno pure da un'altra parte, ecco la trova strana e difficile. Faticosa e piena di tranelli, come se da un momento all'altro potesse fare uno sbaglio senza accorgersene. Un inciampo senza rimedio che potrebbe riportare lui e mamma a essere uno sgabello a due gambe. Questo sono stati fino a oggi. Così gli ha detto Marina ieri sera, rimboccandogli la coperta di Winnie the Pooh.


"Facciamo il bagno?" Chiede una delle due bambine.

Mania guarda sua madre e suo padre: stanno stendendo un quarto telo per sistemarci sopra il pranzo. Marina ha preparato dei tramezzini al pollo e un'imprecisata quantità d'insalate di riso e di pasta.

Mattia fa di no con la testa, anche se vorrebbe seguirle alla deriva. Poi osserva bene le sue compagne di gioco. Hanno ossa piccole e articolazioni tonde, sproporzionate, come se fossero state sostituite per tenere insieme pezzi mal accoppiati. Hanno capelli lunghi e ondulati: alghe nere e sinuose. Le efelidi sono così simmetriche da sembrare disegnate, le pupille se ne stanno dietro le sbarre lucenti delle ciglia.

Sembrano venute dal nulla. Due alieni dalla pelle tesa e senza pori.

"Allora facciamo il gioco della torre", dice la seconda avvistando il faro lontano. Dritto e bianco. A Mattia ricorda l'indice di sua madre.

"Lo conosci, no?"

Mattia dice di sì. Gli è sempre piaciuto il gioco della torre. L'idea di buttare giù-qualcuno che non si sfracella, semplicemente scompare dalla vista, e sei tu a farlo, dà sempre una certa ebbrezza. Rende più vivo, pulsante, chi hai salvato. Sai che c'è qualcuno, quello che è rimasto con te sulla torre, a cui tieni di più. E da lassù, ti pare impossibile che il sentimento non sia ricambiato con la stessa identica intensità.

Quel salto nel vuoto è così lineare. Come l'innocenza.


Lorenzo mostra il profilo a Marina. Sente i suoi occhi addosso, ma non può far altro che rivolgere il viso verso i tre ragazzini.

Mentre guarda suo figlio, le pupille sono distratte dalle due bambine. Sembrano vibrare incessantemente anche quando dovrebbero stare ferme. Sono lì e altrove, come lui. Lo agitano. Deve costringersi a mettere a fuoco Mattia, che sembra sempre contro luce. Poi si chiede se non siano i suoi occhi. Ha subito da poco un'operazione all'occhio destro: un orzaiolo si era infiammato fino a invadere lo sguardo come una collina nera e maligna.

A Marina non l'ha detto perché voleva la sua giornata al mare. Voleva mettersi alla prova come padre, vedere se da qualche parte c'era una sua collocazione precisa.

Improvvisamente gli viene da giocare con loro.

Fa per alzarsi e lei lo guarda indignata. Quando hanno iniziato quel gioco si è sentita a disagio, con un senso improvviso di vertigine.

"Prometti che non gli dirai niente", dice Marina. Non è una supplica: ha pupille che sembrano punti neri sulla pagina.

"Prometti che non gli dirai di quell'altra donna... e della sua famiglia."

Lorenzo prende a fissare le ragazzine con insistenza, ne segue i movimenti imprevedibili da cui gli arrivano boccate d'aria fresca.

"L'importante è che ora tu sia qui." Accompagna la frase con un gesto della mano che va a battere sull'asciugamano a righe, come a indicare un' posto preciso, fisico.

Poi prende a chiamare suo figlio.

"Mattia! Mattia!"

Estende il confine del territorio famigliare con le sole corde vocali.

Dove finisce l'urlo si alza un muro per chi lì dentro non c'entra niente. Il gioco della torre.

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