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| << | < | > | >> |IndiceNota introduttiva 3 La rinascita della comunità ebraica romana 5 Il sionismo e la situazione degli ebrei italiani in Eretz Israel 12 L'associazionismo in Italia 27 Allegati 41 Israele nei quotidiani della sinistra italiana 1982-1991 di Marta Brachini 69 Introduzione Trattare con il nemico 70 L'orrore negli occhi 72 Vuoto di memoria 74 Antifascisti, socialisti e comunisti 77 Il peccato originale: la nascita di Israele 85 Ebraismo: da identità ideale a identità sopraffattrice 96 Indice dei nomi 113 |
| << | < | > | >> |Pagina 12Il sionismo e la situazione degli ebrei italiani in Eretz IsraelNel giro di poco tempo, mano a mano che la vita riprendeva la sua normalità, sorsero a Roma, dopo l'arrivo degli Alleati, diverse organizzazioni ispirate al sionismo: la Federazione Sionistica Italiana, l'Associazione per la lingua e la cultura ebraica, il Centro giovanile ebraico. Ripresero le pubblicazioni di Israel, il settimanale ebraico fondato nel 1916, le cui pubblicazioni erano state forzatamente interrotte. Nel luglio 1944, con il ritorno alla libertà, iniziò la pubblicazione anche il Bollettino Ebraico d'Informazione. L'organizzazione sionistica romana viene seguita con particolare attenzione dalla polizia: in un appunto non firmato del 25 giugno 1945 "Al secondo piano dello stabile, vi è invece il Circolo Giovanile ebraico, ove si tengono conferenze frequenti di propaganda e di cultura, promosse anche dall'organizzazione sionistica di Roma, si trattano problemi riguardanti l'immigrazione in Palestina, con facoltà di contraddittorio, da parte di esponenti ebraici italiani e stranieri, reduci dalla Palestina, o colà diretti, si discute con profonda passione del progettato Stato ebraico, di cui alcuni giovani fanatici, e moltissimi in buona fede, auspicano la prossima creazione, con l'appoggio di potenti forze internazionali, per garantire la loro piena personalità giuridica e politica, e soprattutto per sottrarre il popolo ebraico alle spaventose persecuzioni di cui gli israeliti sono stati periodicamente vittime in tutto il mondo, in specie sotto il deprecato regime fascista". Nel circolo, quindi, si discuteva delle tematiche relative al sionismo, si davano lezioni di lingua ebraica in un clima da dopo-scuola e dopo-lavoro: "per giovanetti e signorine che trovano colà il loro svago preferito, e che preparano anche e indirizzano il loro spirito e la loro mentalità nel solco delle direttive impartite dal giornale sionista Israel che si pubblica settimanalmente a Firenze. In quel momento, l'obiettivo del movimento sionistico era la creazione di uno Stato ebraico in grado di consentire "al popolo ebraico di essere libero e sovrano in tutte le sue manifestazioni nazionali, come ogni altro popolo". Il mondo che usciva dalla guerra non sembrava mostrare molte altre possibilità di azione e di speranza: per i giovani ebrei italiani, il sionismo cominciava ad essere una scommessa, dopo le tragedie della Shoah. Eretz Israel diventava il posto dove poter fondare una società nuova, basata su criteri di giustizia sociale. In questo fermento generale, la prima notizia sulla federazione sionistica ce la fornisce la Questura di Roma con una relazione del 3 ottobre 1945: "ha per fini la riorganizzazione delle comunità sionistiche di tutta l'Italia e il finanziamento dell'opera della costruzione delle comunità israelitiche in Palestina". Ma il sovvenzionamento fu anche a favore degli stessi gruppi sionistici locali, grazie a contributi che provenivano dall'esterno. | << | < | > | >> |Pagina 22La spinta dell'immigrazione italiana in Eretz Israel è stata dettata soprattutto da fattori ideologici e politici e non da fattori economici, come frequentemente capita con i fenomeni migratori. La spinta ideologica — come è stato sottolineato — ne ha spesso favorito la soddisfacente integrazione nel Paese, facilitata dalla generale buona base di partenza socio-economica degli immigrati dall'Italia. Non sembrano, quindi, plausibili le considerazioni evocate dalla Legazione italiana a Tel Aviv richiamate precedentemente; in un'indagine condotta nel 1975, vengono indicati altri fattori che influirono direttamente sulla decisione di lasciare l'Italia: una certa insoddisfazione nei confronti della società italiana (51,5%) e le manifestazioni di persecuzione razziale o di intolleranza religiosa — soprattutto per quanto riguarda il periodo anteriore alla guerra — menzionate come moventi importanti dal 50,2% e dal 44,4% del campione.Per gli immigrati, dopo la Guerra dei Sei Giorni, l'antisemitismo agì in modo più indiretto nelle motivazioni di emigrare dall'Italia: influì molto il desiderio di vivere in uno Stato ebraico (secondo il 62,6%); in una società pionieristica per il 66,5% e ugualitaria per il 57,6% e, con la stessa percentuale, è stato indicato il desiderio di vivere secondo i principi fondamentali dell'ebraismo, mentre i motivi familiari erano menzionati dal 44% dei casi. Anche l'impatto con il nuovo Stato è stato giudicato generalmente positivo: infatti, molti degli immigrati in Israele ha avuto una preparazione preliminare in Italia nei campeggi ebraici o nei campi di lavoro e molti di essi avevano partecipato ad attività di un'associazione sionistica: esperienze che sicuramente hanno reso meno traumatico il momento dell'arrivo e del primo inserimento. Come è stato osservato, il gruppo italiano in Israele ha dato al nuovo Stato un contributo proporzionalmente superiore al loro numero. Infatti, ha espresso una piccola élite culturale e professionale molto attiva negli strati superiori della società israeliana, con esclusione dei settori guida dello Stato, dalla politica al sindacato alle forze armate. Questa difficoltà a inserirsi in questi settori è stata spiegata, almeno parzialmente, con il relativo isolamento culturale delle comunità israelitiche italiane rispetto al quadro complessivo dell'ebraismo mondale e alla mancanza generale di appoggio dal gruppo etnico di appartenenza. L'intenso dibattito che si svolse nel secondo dopoguerra in Israele sul ruolo del sionismo coinvolgeva le basi stesse del neonato Stato ebraico e fu oggetto di una nota della Legazione che dava conto del dibattito in quel periodo alla Knesset dove si contrapponevano due indirizzi diversi: sullo status dell'Organizzazione mondiale sionista che veniva definita da un lato un "ente autorizzato a coordinare le attività di tutte le associazioni ebraiche impegnate nello sviluppo di Israele e nell'assorbimento degli immigranti" e dall'altro come "l'entità rappresentativa della Nazione ebraica" in tutte le questioni relative allo sviluppo dello Stato d'Israele e all'immigrazione. La Knesset, nel 1952, approvò una risoluzione che chiedeva allo Stato di riconoscere l'organizzazione come organo rappresentativo del popolo ebraico in materia di partecipazione organizzata della Diaspora alla costruzione di Israele. Sempre nel 1952 venne comunque ammessa la cittadinanza israeliana che consentiva il possesso del doppio passaporto, non ammesso allora, dall'Italia. Chi proveniva dall'Italia doveva quindi scegliere tra l'accettazione dello statuto di residente temporaneo o di cittadinanza israeliana, rinunciando però a quella italiana. "Una cavillosa causa amministrativa permise, in un primo tempo, solo agli italkim giunti in Israele prima del 1952 di avere due passaporti, basandosi sul fatto che la cittadinanza israeliana era stata loro data senza che ne facessero richiesta. Situazione, questa, che andò in seguito gradualmente modificandosi". In realtà, non esisteva una distinzione formale tra i concetti di nazionalità ebraica e cittadinanza israeliana. Come venne chiarito in una nota dell'ambasciata trasmessa al gabinetto del Ministero dell'Interno: "È soltanto nell'uso comune che il termine 'nazionalità ebraica' viene usato per indicare i cittadini israeliani riconosciuti come ebrei ma su tale argomento avvengono spesso delle contraddizioni, in quanto manca nella legislazione una definizione precisa dello 'status' di ebreo, che è tuttora basato su interpretazioni di carattere biblico le quali sono spesso divergenti". | << | < | > | >> |Pagina 35In un report della Prefettura di Torino, in occasione del XXI Congresso che si tenne nel dicembre 1968, vennero segnalate profonde divergenze all'interno dell'organizzazione "tra due opposte correnti, una favorevole alla tesi secondo la quale la Fgei deve svolgere un ruolo esclusivamente educativo ed estraniarsi da qualsiasi discorso politico e l'altra per la quale il movimento giovanile ebraico deve scegliere una strada contestativa e diventare un movimento radicale rivoluzionario, svolgendo la sua azione al di fuori delle strutture comunitarie. Le divergenze di opinioni si sarebbero sempre più accentuate nel corso dei lavori, tanto che il segretario generale uscente, costatata l'impossibilità di proseguire i lavori in un clima democratico, ha proposto ai congressisti di dichiarare chiuso il congresso e di promuovere, a data da stabilirsi, in Roma, un'assemblea dei responsabili dei 'Centri giovanili ebraici' per la nomina delle nuove cariche direttive della Fgei". Durante il congresso furono infatti poste in votazione cinque mozioni politico-culturali tra di loro contrapposte che ponevano al centro il problema dell'identità ebraica e il ruolo organizzativo che doveva avere la Federazione.Tre questioni sono però al centro, costantemente, dei lavori dei vari congressi e assemblee della Fgei: la questione dell'identità storica e culturale dell'ebraismo, il conflitto arabo-israeliano e l'impegno per sensibilizzare i cittadini contro episodi di antisemitismo in Italia e all'estero. L'indirizzo maggioritario di sinistra della Fgei, comportò delle profonde polemiche: venivano spesso accusati di aver adottato posizioni filo-arabe per essere accettati senza riserve nei gruppi politici in cui militavano. Al congresso di Napoli del 1984, l'indirizzo politico dell'associazione risentiva molto dell'attività del forte movimento pacifista che in quegli anni si stava affermando: "le mozioni hanno auspicato, in via generale, l'abolizione degli armamenti e criticato, specialmente, l'impiego da parte dell'Egitto, di scienziati tedeschi nella produzione ed organizzazione bellica". Il carattere di estrema apertura, che in quel momento la federazione ebbe, coinvolse anche il mondo cattolico: "È stata, tra l'altro, affermata la necessità di maggiori contatti con le altre organizzazioni giovanili antifasciste cattoliche e con organizzazioni della Resistenza". I primi anni Ottanta sono anni in cui la Fgei critica spesso il governo israeliano: critiche mai rivolte allo Stato o al popolo verso il quale, anzi, veniva spesso ribadito molto spesso il legame e il sostegno dell'ebraismo giovanile italiano. In particolare, in quegli anni la Federazione si espresse in maniera negativa sull'operazione "Pace in Galilea" del 1982, quando le forze di difesa israeliana invasero il sud del Libano e sulla vicenda del massacro nei campi di rifugiati palestinesi di Sabra e Chatila quando vennero uccisi civili inermi, diverse centinaia, perpetrato da milizie cristiane libanesi in un'area direttamente controllata dall'esercito israeliano, tra il 16 e il 18 settembre 1982: Con un comunicato, il Consiglio Esecutivo della Fgei "condanna con fermezza questo gravissimo episodio (...) e si associa alla richiesta di dimissioni del Primo ministro Begin, di Sharon e del Gen. Eytan che si erano assunti la responsabilità politica e militare dell'occupazione di Beirut per evitare la guerra civile". Rispetto alla questione palestinese, la Fgei in quegli anni si è spesso espressa a favore del riconoscimento di un loro "focolare nazionale", senza negare mai la necessità del riconoscimento all'esistenza e alla sicurezza di Israele. Se la definizione "focolare nazionale" risulta ambigua, perché non allude ad un vero Stato quanto piuttosto ad un'entità nazionale, più serrata e netta era la critica all'Organizzazione per la liberazione della Palestina, che non è mai stata considerata un interlocutore valido, perché sostenitore della distruzione di Israele. | << | < | > | >> |Pagina 69Introduzione
Trattare con il nemico
La documentazione del Ministero dell'Interno pubblicata per la prima volta in questo lavoro di Andrea Maori riporta alla luce passaggi importanti della storia dell'ebraismo italiano e della Comunità ebraica di Roma nei terribili anni delle persecuzioni e delle deportazioni e in quelli dell'immediato dopoguerra, dove lo sforzo di ricostruzione di una comunità e di un'identità ebraica è evidentemente segnato dalla mostruosità della Shoah. Ma l'elemento più significativo della rinascita di un nucleo comunitario ebraico a Roma e in Italia in generale è la comparsa sulla scena internazionale di Israele. La nascita nel 1948 di un focolare nazionale ebraico fondato sull'ideale sionista di Theodor Herzl ha ispirato e guidato dal 1897 l'azione di attivisti e militanti di tutta Europa che hanno creduto, combattuto e infine realizzato un sogno millenario. L'ebraismo diasporico – l'unico ebraismo conosciuto fino alla sua distruzione sistematica ad opera del regime hitleriano – cambia gradualmente prospettiva all'indomani della creazione dello Stato d'Israele. Questo lo si intuisce bene nei documenti pubblicati in questo lavoro dove si vede come l'attenzione degli organismi di polizia italiani nel dopoguerra si sposta dalla ricomposizione delle comunità ebraiche italiane ai primi movimenti giovanili sionisti in Italia. È innegabile la gravità di episodi come quello famoso dell'oro di Kappler, l'inganno più spregevole subito dalla Comunità ebraica di Roma alla vigilia dei rastrellamenti nazisti, e che emerge dalla lettera dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane alla Presidenza del Consiglio dei Ministri datata 15 Agosto 1944. Questo episodio ci induce a non dimenticare quanto ancora inverosimile e impensabile sembrasse il tipo di violenza persecutrice e letale che si stava per abbattere sugli ebrei d'Europa negli anni del secondo conflitto mondiale. Anche Ben Gurion e l'Agenzia ebraica nel protettorato inglese di Palestina non immaginavano nemmeno quanto sangue avrebbe fatto scorrere lo sterminio nazista annunciato con persecuzioni, espulsioni dai luoghi di lavoro e ricorrenti episodi di violenza come la Notte dei Cristalli. La bandiera con la croce uncinata sventolò sopra il consolato tedesco in Prophets Street a Gerusalemme per sei anni dei dodici di regime nazista, dal 1933 fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Sempre nell'anno dell'ascesa di Hitler, una forma di accordo diplomatico negoziato da Arthur Ruppin dell'Agenzia ebreaica con il Ministero delle Finanze tedesco – la Haavarah – suscitò ampi dibattiti sul merito e sull'opportunità di trattare col nemico in quegli anni e soprattutto alla luce delle ideologie naziste. Un fattore che influenzò in modo determinante l'atteggiamento degli israeliani nei confronti della Shoah e dei sopravvissuti negli anni '50 e '60. | << | < | > | >> |Pagina 85Il peccato originale: la nascita di IsraeleCiò che emerge dall'analisi delle due testate giornalistiche di sinistra, "l'Unità" e "il Manifesto", negli anni, è una concezione del sionismo complessa e articolata quanto fortemente negativa. Il sionismo veniva rappresentato come un'ideologia pervasiva di aspetti politici, sociali e culturali della realtà israeliana e ridefinito nei suoi contenuti caratteristici. Ne risultava una visione generale ostile: il sionismo rappresentava una rottura con la ben più elevata cultura ebraica europea; si era trasformato negli anni in un movimento di carattere coloniale, avamposto degli interessi americani in Medio Oriente, tradendo coi fatti i principi socialisti fondanti delle sue origini; aveva creato una questione israeliana nella rivendicazione di un presunto diritto a quella terra; nel 1977, con l'ascesa della destra israeliana al governo, si accusava il sionismo in generale di avere per obiettivo la costruzione della Grande Israele e di perseguirlo con l'espansionismo militare; il sionismo era un'ideologia anacronistica che impediva l'integrazione dei popoli autoctoni e la spartizione della terra contesa, ovvero l'ideale che si opponeva al diritto dei palestinesi ad una patria; il sionismo, infine, era foriero di una colpa originaria: quella di aver spodestato un popolo intero della terra che aveva posseduto per secoli. L'accezione in senso negativo del termine sionismo arrivava a stravolgere il significato storico e culturale del movimento sionista. Il sionismo aveva avuto successo nella realizzazione dei suoi obiettivi politici e Israele ne costituiva certamente il risultato tangibile. Il sionismo aveva creato Israele e sionisti erano dunque i suoi governi e la sua società, sioniste le sue guerre e sionista era la sua politica nei confronti dei suoi vicini arabi. Rimaneva inesplorato il rapporto del fenomeno sionista con la storia dell'ebraismo europeo, un rapporto esistente da prima della fondazione dello Stato ebraico e che si era espresso nelle vivaci discussioni sul senso politico e sull'opportunità storica della fondazione di uno Stato per gli ebrei e, dopo la nascita di Israele, sulla rispondenza e assimilabilità della cultura israeliana a quella diasporica. Nella pubblicistica analizzata, il sionismo viene trattato analiticamente in maniera distinta dalla sua realtà culturale d'origine. L'ebraismo tuttavia non perdeva la sua valenza positiva e diveniva lo strumento principale per misurare il grado di eticità dello Stato israeliano, sganciandolo da qualsiasi diretto riferimento alle circostanze storiche in cui era nato. Non mancano i riferimenti a noti intellettuali che condividevano largamente questa posizione, ebrei antisionisti che non avevano mai supportato l'idea della necessità di una patria per il popolo ebraico, né creduto che questa sarebbe stata la soluzione definitiva della millenaria questione ebraica. Wlodek Goldkorn, sosteneva per esempio che: Il sionismo è nato con il proposito di rompere con la continuità del popolo di Roth, di Kafka, di Freud e di Marx, per creare ex novo un altro popolo, di agricoltori-soldati e non più intellettuali critici e scettici. (...) I veri eredi della grande tradizione universalista e umanista ebraica di cui l'insurrezione del ghetto di Varsavia fu il punto più elevato sono gli ebrei antisionisti. Nella sempre più diffusa opinione antisionista di sinistra, il popolo nuovo di "agricoltori-soldati", gli israeliani, sarebbero stati eredi indegni dei movimenti socialisti ebraici russi e dei loro teorici. La memoria dell'insurrezione del ghetto di Varsavia (in Israele un simbolo di rinnovamento del popolo ebraico) veniva reinterpretata alla luce dello sciovinismo della destra beginiana che si presentava con lo slogan in cui si esaltava la nascita di "un nuovo esemplare umano, sconosciuto negli ultimi milleottocento anni: l'ebreo combattente". Figura assai negativa quando alcuni giornalisti ritenevano opportuno distinguere tra l'ebreo che si difende da una volontà persecutoria e discriminatoria e l'ebreo che combatte per discriminare e perseguitare. Menachem Begin veniva decritto come un noto terrorista, "il capo della più violenta organizzazione sionista, (...) un uomo che vuole sterminare i palestinesi", l'uomo a cui oltretutto "hanno dato il Nobel per la pace". Si costruiva così lo stereotipo del sionista: Begin crede nell'odio come alimento indispensabile della lotta e il suo odio si divide tra il nemico e coloro che, nelle stesse file ebraiche e sioniste, non accettano il suo credo. (...) L'Irgun si è riciclata come partito politico, sotto il nome di Herut e agita il programma di sempre: la conquista dei territori cui si è dovuto, per il momento, rinunciare, la creazione di un grande Israele, comprendente i territori palestinesi, oltre il Giordano, il Sinai, parte della Siria e del Libano. D'altra parte, le barriere tra governo e opposizione sono elastiche. Scompaiono quando il gruppo dirigente tradizionale riprende la via dell'espansione militare, interrotta con gli armistizi del '48-'49 . Nel '56, quando Israele invade il Sinai, Begin è con tutto il cuore e con tutta l'anima a fianco del governo. Nel '67, alla vigilia della guerra dei sei giorni è cooptato in esso. Destra e sinistra venivano accomunate dall'essere entrambe espressioni del sionismo, identificato con quella volontà espansionista confermata dalla storia dei conflitti arabo-israeliani che avevano visto governi e opposizioni uniti allo scopo dell'allargamento territoriale. I contenuti teorici e ideologici del sionismo ne uscivano del tutto alterati e, puntuali, giungevano gli interventi di coloro che prevedevano gli effetti della diffusione di tali analisi devianti: (...) Siamo veramente convinti che l'unificazione e la demonizzazione di tutti i sionismi oltre a costituire una grave falsificazione della storia in questo secolo (del tipo Mussolini come Mazzini, Cattaneo, Pisacane e Gramsci) non costituisca obiettivamente una attacco rivolto contro tutti gli ebrei? Non fu lo stesso Marx ad invitare a guardare oltre la forma la sostanza dei processi? E non fu Freud a invitare a leggere dietro le righe di un discorso la struttura nascosta e il significato latente? Se il liberale Herzl è accomunato a Jabotinski e il generale Sharon all'umanista Buber e al marxista Borochov non è la stessa storia del nostro secolo che tanto sangue ebraico ha visto scorrere ad essere riscritta secondo parametri che offendono le vittime, uccidendole come dice Benjamin per una seconda volta? La storia ebraica è ricca più di quanto gli stessi ebrei non immaginino e gli apologeti del moderno nazionalismo ebraico non pensino. Ma su un punto mi pare i vari filoni del marxismo rivoluzionario di Rosa Luxemburg e il liberalismo assimilazionista, le varie correnti del socialismo bundista e del sionismo hanno qualche cosa in comune: l'essere il prodotto di una civiltà di "paria", anche quando i singoli personaggi di essa che assursero alle alte cariche dello Stato e dei partiti si chiamavano Rotshild.(...). Rappresentazioni superficiali ed eccessivamente sintetiche del sionismo rievocavano alla memoria di molti quelle forme di pregiudizio antiebraico mai sopite nella generale percezione comune. Un intervento di Giorgio Agamben su "il Manifesto" denunciava indirettamente l'assenza nelle discussioni in merito al successo o al fallimento dell'ideale sionista di ogni esplicito riferimento alla Shoah. In una forma provocatoria, Agamben sottolineava il legame esistente tra gli orrendi crimini perpetrati ai danni di quella tanto elogiata espressione culturale dell'ebraismo europeo, e la scottante realtà dell'esistenza dello Stato d'Israele. Un parallelo storico ampliamente trascurato nei pochi riferimenti alla storia del sionismo e a volte apertamente denigrato in quanto arbitrario, pretestuoso e inattuale ai fini della difesa di Israele. Valga per tutte questa affermazione: "L'olocausto non ha fatto degli ebrei i giusti per definizione, e meno ancora poteva fare giusto il loro Stato. (...) Bisognerà pure un giorno acquisire questa constatazione, uscire dalla leggenda costruita di una massa secolare di dolore". Dato "il tono generale di alcuni articoli del Manifesto", Agamben invitava i responsabili di simili affermazioni a far attenzione al "rapporto tra linguaggio e politica", dal momento che esistevano "responsabilità etiche implicite nell'uso del linguaggio". Bastava riflettere su questo aspetto: nel momento in cui "per coincidenza" la sinistra si fosse accorta di aver usato un linguaggio vicino alla "pubblicistica fascista degli anni Trenta" avrebbe immediatamente realizzato che ciò non aveva senso per una sinistra "ideologicamente ben distinta dal fascismo", poiché "uno stesso linguaggio non può esprimere due realtà eticamente e logicamente contrapposte". "La distinzione che la sinistra ha sempre avanzato fra popolo ebraico e Stato d'Israele" era "una verità lapalissiana" e allo stesso tempo una distinzione "profondamente falsa". L'interesse degli intellettuali di sinistra per la cultura ebraica dell'Europa orientale era un fenomeno vivo e diffuso ma da non identificare né con l'ebraismo, né con gli ebrei: "Non ci sono più chassidim, sono morti nei campi, tanto tempo fa. (...) Gli ebrei sono oggi in Israele, sono Israele, con le sue industrie e i suoi missili, con i suoi kibbutz e le sue rappresaglie, con la sua lingua e la sua religione". Gli ebrei della diaspora — continuava Agamben — "sono cittadini degli Stati in cui vivono e come tali è giusto considerarli". I "distinguo" della sinistra erano a suo avviso fuori luogo perché "gli ebrei sono Israele" e sarebbe stato "più sincero e meno antisemita" riconoscere il rifiuto che questa nuova espressione della cultura ebraica suscitava a sinistra pur nella consapevolezza che si trattava di un fenomeno europeo. A sinistra si interpretava questo tipo di precisazioni come un'improponibile limitazione alla libertà di critica dell'operato dei governi israeliani, non riuscendo o non volendo riconoscere la continuità storica che esisteva tra le vicende del popolo ebraico della diaspora e Israele. Rossana Rossanda rispondeva ad Agamben sostenendo che, sebbene fosse innegabile l'importanza del linguaggio in politica, non era invece condivisibile l'affermazione secondo cui "chi è contro lo Stato d'Israele nelle sue scelte è contro il popolo ebreo". Era innegabile, per Rossanda, l'esistenza di un "vincolo simbolico profondo fra gli ebrei e la sola versione esistente della terra promessa", ma le considerazioni che ne discendevano erano altre: "buona o cattiva che sia la coscienza degli ebrei fuori da Israele", essa "esplode" in concomitanza di eventi che lo riguardano e ben pochi avevano scelto di recidere i "legami costituiti in terra d'esilio" per andare a "difendere con le unghie e coi denti" una terra sulla quale "era passata troppa storia" e soprattutto fondata "privando altri d'un diritto altrettanto millenario quanto la loro spossessione". Inoltre, il motivo per cui quando si discuteva del rapporto ebrei/Israele tutto assumeva "quella carica etica, quell'interrogativo di ordine morale che sentiamo in questo caso", era questo: ... Accanto all'immagine dell'Olp è lo Stato d'Israele che viene in ballo, e Israele per essere stato a lungo negato è anche, un simbolo dell'ebraismo. Ma un simbolo, un riferimento, non la sua interezza, che è più complessa e diversamente drammatica: dico diversamente, perché ben drammatico è lo scenario che Agamben delinea, nessun ebraismo fuori di Peres e Begin. Il "distinguo" secondo Rossanda si rendeva necessario perché l'antisemitismo era certamente "il lato più torbido della nostra coscienza", ma era dubbio che l'antisionismo costituisse una forma di manifestazione antisemita, dal momento che posizioni antisioniste erano state fatte proprie anche da "nobili figure della cultura ebraica" nel presente e nel passato. Un'altra argomentazione classica e ricorrente emerge dall'ultima citazione. Israele aveva una colpa originaria: quella di aver leso il diritto dei palestinesi a uno Stato, un diritto "altrettanto millenario" quanto quello avanzato dai sionisti. Il sionismo aveva preteso di risolvere il problema dell'autodeterminazione ebraica sulla base di un diritto storico-religioso, sotto la copertura dell'ideale laico sionista, con l'appoggio delle potenze coloniali e l'aiuto del senso di colpa europeo. Gli assunti e le tesi del sionismo politico venivano contestati con decisione. Sempre nelle pagine de "il Manifesto" leggiamo: La prima di queste tesi è che tutti gli ebrei del mondo formano un popolo, non più solo in senso biblico ma nel senso moderno e politico della parola e che significa il diritto ad avere una patria, che questo popolo discende tutto da Abramo e dagli ebrei dei tempi del regno di David e che ha quindi un diritto storico sulla terra degli avi, il diritto al ritorno. In altre parole la Bibbia viene presa come libro di storia dal quale si fa partire un'operazione politica contemporanea, senza mai spiegare il passaggio fra il momento mitico-religioso e quello politico reale. Questo comporta, per forza, la necessità di tacere il sistema di alleanze colonialistiche e imperialistiche che ha reso possibile la nascita, la sopravvivenza e l'aggressività dello Stato d'Israele. Comporta però anche la necessità di omettere il popolo palestinese che per novemila anni ininterrotti su questa terra è vissuto. (...) È proprio questo che va combattuto nel sionismo: la distinzione continua tra ebrei e non ebrei. Secondo uno schema d'analisi largamente utilizzato, lo Stato d'Israele appariva come uno Stato fondamentalmente coloniale che aveva occupato quei territori in linea con la peggiore tradizione imperialista occidentale: "Israele diventa di fatto il centro nevralgico di un sistema di relazioni regionali che rende più penetrante il cuneo strategico occidentale dentro una nazione araba decomposta strategicamente dopo Camp David"; uno Stato impostosi con la forza che cercava pretesti per l'espansione e l'assoggettamento delle popolazioni locali: "Niente è così occidentale come il terreno nel quale affonda le sue radici questo impasto arrogante di volontà persecutoria e micidiale tecnologia". Il sionismo, distinguendo tra "ebrei e non ebrei" e "omettendo" il popolo palestinese dai suoi calcoli, appariva come una ideologia razzista. Secondo questo ragionamento l'atteggiamento razzista derivava da un complesso psicologico di accerchiamento dal nemico, cosa che non stupiva dato che "la precarietà degli inizi dello Stato d'Israele, la forzatura da cui è nato, può creare sentimenti assai contrastanti e complessi" come la paura di essere "sommersi" dal mondo arabo. Da ciò la tendenza a diventare uno Stato di destra e ingiusto. La questione israeliana si riduceva sostanzialmente al peccato originale della nascita d'Israele: quello di aver prodotto con la sua costituzione anche la sua negazione distruggendo "una nazione esistente e uno Stato potenziale" ostinandosi a non riconoscere il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione. Il sionismo aveva lasciato un'eredità fortemente negativa, Israele, il Paese che si era gettato dietro le spalle tutto quel bagaglio di valori, convinzioni di libertà ed eguaglianza, di tolleranza e rispetto che avevano caratterizzato la sua storia originaria. Il sionismo aveva fallito nell'intento di porre fine alla questione ebraica, il problema di un popolo senza terra, perché aveva occupato una terra in precedenza abitata da altri. Questo era il peccato originale del sionismo, la nascita di Israele. Un peccato difficilmente cancellabile, la cui ombra si proiettò anche sulla nuova stagione di dialogo aperta dalla prima conferenza di Pace di Madrid nel Novembre del 1991: Facendo sedere allo stesso tavolo ideale israeliani, arabi e palestinesi ha forse cancellato per sempre il peccato originale del Medio Oriente stesso, quello per intenderci che è costato ben cinque guerre: l'esistenza dello Stato d'Israele. | << | < | > | >> |Pagina 96Ebraismo: da identità ideale a identità sopraffattriceDall'analisi dei commenti ricorrenti nella pubblicistica di sinistra degli anni '80, emerge tutta una serie di contenuti rappresentativi della condizione palestinese. Condizione equiparata perlopiù a quella degli ebrei perseguitati e discriminati per secoli nella storia della vecchia Europa. Tutte le forme tipiche di intolleranza e razzismo furono grossolanamente presentate come la realtà subita dai palestinesi a partire da quella che, nella percezione comune, era stata l'invasione sionista della Palestina. La popolazione palestinese, a giudizio dei più, era sottoposta a una discriminazione paragonata a quella subita dagli ebrei da parte del nazionalsocialismo tedesco. Il nazismo voleva dare vita a una nazione priva di elementi contaminanti della purezza identitaria tedesca e priva anche di scomodi oppositori politici. Così gli israeliani, i sionisti, i nuovi ebrei, facendo distinzioni tra ebrei e non ebrei e pretendendo di rappresentare tutti gli ebrei del mondo, furono dipinti come fautori di un nazionalismo molto vicino a quello della Germania nazista. Questo nuovo volto conferito all'ebraismo fu un modo per avallare la convinzione che solo la diaspora fosse depositaria della vera cultura ebraica, quella universalista e ispirata ai valori umani più alti. A causa dei suoi aspetti più discutibili, lo Stato d'Israele sembrò a molti tradire le aspettative di una sua realizzazione nel rispetto di quei principi di uguaglianza civile e tolleranza, importantissimi nella storia dell'emancipazione ebraica europea. Di questo avviso erano coloro che incolpavano Israele di riversare sui palestinesi tutta una serie di fobie e frustrazioni derivanti dal vissuto ebraico europeo. In special modo nelle pagine de "il Manifesto", tali assiomi erano enfatizzati attraverso un uso spregiudicato di terminologie di regola associate alla storia ebraica e dunque utilizzate per descrivere la situazione del popolo palestinese. Così i palestinesi risultavano essere oggetto di "pogrom" da parte dei soldati israeliani, vennero definiti "deportati", internati in "lager", "gassati" (coi lacrimogeni!); i dirigenti politici israeliani, di conseguenza, furono accostati ai gerarchi nazisti e Israele al Terzo Reich. Il risultato di questa visione fu l'idea che l'ebraismo stesse perdendo la sua forza morale e degenerando a causa del modo d'azione violento dello Stato d'Israele. Gli ebrei della diaspora, dal canto loro, si trovarono a disagio in una situazione fortemente squilibrata: da una parte la condanna dell'operato israeliano veniva strumentalizzata a favore di una posizione politica generalmente antisionista e dall'altra la disapprovazione degli eccessi propagandistici pro-palestinesi veniva bollata come sostegno all'uso della violenza da parte israeliana. I veri ebrei non potevano dopotutto identificarsi con uno Stato che tradiva i loro stessi ideali: a giudizio di molti, gli ebrei rimanevano connessi con lo stereotipo degli oppressi, dei deboli, delle eterne vittime e questa condizione non era più riscontrabile in quella nuova forma identitaria ebraica rappresentata dallo Stato israeliano. Gli inermi e gli indifesi, gli ebrei, divennero nel caso del conflitto israelo-palestinese i palestinesi stessi. L'ebreo rimaneva tale solo se vittima di qualsiasi tipo di ingiustizia; il fatto di passare dal ruolo di "vittima" a quello di "carnefice" equivaleva a non essere più depositari di questa identità. In definitiva, l'ebreo della diaspora doveva scegliere se rinnegare il legame personale con quella manifestazione di ebraismo o passare per difensore di criminali simili ai nazisti. Da un'interessante intervista a Natalia Ginzburg, pubblicata da "l'Unità" all'indomani dell'uscita dell'Appello contro l'invasione del Libano, emerse chiaramente quello stilema che sarebbe stato proprio di tutti gli approfondimenti rinvenuti nelle testate giornalistiche analizzate. La famosa scrittrice, firmataria dell'appello promosso da Primo Levi, ebrea da parte di padre e non sionista, diceva di aver firmato l'appello non per discolparsi, come sostenne Rosellina Balbi nelle colonne de "La Repubblica" (dicendo di vedere in quella dichiarazione "il timore, conscio o inconscio, di venire accomunati nella condanna della politica di Israele; e dunque il bisogno di dissociarsene, di far sapere che non tutti gli ebrei sono cattivi"), ma solo per esprimere la sua opinione contraria alla politica di Begin: Si è scritto che Israele è uno Stato come ogni altro, spietato. Questo per me è orribile; forse era prevedibile, ma è sempre orribile, perché non si può accettare come naturale che chi ha conosciuto la persecuzione l'attui poi selvaggiamente sugli altri. (...) In tutto quanto sta accadendo di atroce, nella morte di tanti innocenti in Libano, in rapporto a questa macchia che ha scempiato l'immagine di Israele, l'unico fatto positivo è che per la prima volta Israele appare divisa e in centomila hanno sfilato a Tel Aviv per protestare contro la politica di Begin. Ecco, quella mia firma sotto quell'appello, voleva significare questo: che sto con quei centomila e contro Begin e la sua politica, anche se è sostenuta dalla maggioranza degli israeliani. Si è detto che abbiano firmato per paura conscia o inconscia? No, non è così. Certo l'antisemitismo fa paura; fa paura a noi ebrei e dovrebbe far paura a tutti; perché insudicia il mondo. Ma non è per questo che abbiamo firmato. Io penso che – al di là di ogni paura antica – non si possa mai accettare di stare dalla parte del Potere, ma che bisogna stare sempre dalla parte degli inermi, degli emarginati. Così deve esprimersi la natura ebraica vera. Lo ripeto: è orribile essere vittime, lo so bene, ma è sempre, sempre meglio essere vittime che diventare persecutori. (...) Ecco, i palestinesi sono oggi gli ebrei di ieri e come gli ebrei di allora, sono abbandonati da tutti, compresi i Paesi arabi. Questo dobbiamo capirlo. E noi ebrei, così come gli ebrei di Israele, non possiamo trasformarci in Erode, non possiamo e non dobbiamo compiere noi la strage degli innocenti. L'intervista della Ginzburg espresse un'opinione di condanna morale fortissima nei confronti del governo israeliano: "Meglio vittime che persecutori" per non tradire la "natura ebraica vera". Ma questa condanna andò oltre l'accusa delle scelte politiche del governo israeliano e fu anche un giudizio morale personale sullo Stato d'Israele nel suo rapporto con l'ebraismo. Natalia Ginzburg dichiarò all'inizio dell'intervista di aver apprezzato particolarmente l'articolo di Rossana Rossanda pubblicato da "il Manifesto" pochi giorni prima. Benché vi fossero delle cose che non condivideva, lo stimava "giusto e bello come tono": era giusto "dire che gli ebrei non possono e non devono sentirsi in colpa per quello che ha fatto ora, di atroce, Israele". Riteneva importante inoltre sottolineare che vi furono anche molti non ebrei tra i firmatari di quell'appello. "La vera separazione", diceva la scrittrice, "è fra sionisti e non sionisti. Il sionismo è sempre stato un pericolo". Nonostante le persecuzioni razziali e la necessità di trovarsi un rifugio sicuro, lei non aveva mai sentito "il richiamo della Terra promessa", e tuttora rimaneva dell'opinione che fosse "buono e giusto che tutti gli ebrei si mescolino agli altri, a tutti gli altri, in ogni nazione". E continuava: "Certo, conservando una propria fisionomia, ma come dimensione dello spirito, non come affermazione con la forza della propria diversità: perché quest'ultima diverrebbe allora solo un razzismo alla rovescia". A sua detta, gli ebrei avrebbero dovuto conservare la loro "natura disarmata". Anche secondo l'opinione di Rossana Rossanda l'essere ebreo o il sentirsi tale era solo uno "stato d'animo" e non capiva il senso di un appello firmato da soli ebrei secondo "un parametro rigido di diversità":
Eppure io voglio essere ebrea, se l'ebreo è quel che in noi può
essere sempre l'altro, quello con minori diritti, il senza patria, il
perseguitato, l'immagine in cui la nostra crudeltà o incertezza o
paura improvvisamente coagula il diverso, e quindi il nemico.
Dunque chi erano gli ebrei? O sionisti o niente?, secondo il titolo dato da "il Manifesto" a un'energica obiezione a questo tipo di semplificazioni eccessive. In tale intervento, firmato Tamar Pitch, si obiettava che dietro la necessità di chiedere a un ebreo di autodefinirsi, inquadrarsi in una determinazione identitaria, si nascondeva un pregiudizio e una discriminazione latente. Non prendendo in considerazione quella parte dell'identità di una persona di origini, cultura o religione ebraica — proseguiva nell'intervento – si credeva di evitare il pregiudizio. Ma era proprio in questo che il pregiudizio si perpetuava: non ritenendo obiettiva l'opinione di un ebreo in quanto tale, come minimo esso avrebbe dovuto essere inquadrato in una categoria che fosse sionista o israeliano o altrimenti negare il legame con la sua cultura di provenienza ebraica. Sembrava che per gli ebrei della diaspora il non essere più discriminati equivalesse a rinnegare la propria identità, quando esisteva invece nello Stato d'Israele e la "legge del ritorno" che considerava tutti gli ebrei potenziali cittadini dello Stato Ebraico, quindi un ebreo avrebbe dovuto ignorarne l'esistenza. Il non riconoscimento del legame esistente tra gli ebrei dentro e quelli fuori dello Stato d'Israele equivalse a negare una componente identitaria di quegli ebrei che in esso facevano riferimento, indipendentemente dalle loro convinzioni o appartenenze politiche. Il problema sollevato non era un caso isolato. Lo dimostravano altri interventi di ebrei che denunciarono lo stesso disagio anche in situazioni di militanza politica a sinistra. Piero Della Seta scrisse che nel dibattito sulla politica israeliana l'opinione degli ebrei militanti in partiti di sinistra era condizionata dal fatto che chi la esprimeva venisse considerato di parte (in quanto ebreo): "la presa di posizione degli ebrei rischia di essere poco credibile", per un ebreo comunista "non ha senso parlare come ebreo, esso deve parlare solo come comunista". Chi esternava riserve o dubbi sul modo di trattare Israele nella stampa di sinistra, sbilanciandosi in quello che poteva essere letto come un atteggiamento favorevole alle posizioni israeliane, e in misura maggiore se di fede ebraica, veniva con molta probabilità stigmatizzato come fiancheggiatore dei sionisti. E poteva anche succedere di essere contraddetti con delle accuse di sapore fascista come quella che mise in dubbio la lealtà degli ebrei all'Italia poiché possessori di una doppia nazionalità:
Il premurarsi di affermare sempre e ovunque la propria acritica
fedeltà ai governi d'Israele con una sollecitudine che non vediamo
espressa nei riguardi dell'operato dei governi italiani, non porta forse a
pensare: ma questi ebrei allora sono proprio degli estranei!
In questo clima di censura per chi denunciava una retorica antisraeliana sbilanciata nei toni e nel linguaggio, la sostanza delle condanne non mutava: Israele era la peggiore incarnazione dell'ebraismo e i palestinesi i nuovi ebrei, vittime dei suoi soprusi. L'intero patrimonio culturale e religioso dell'ebraismo, insomma, funzionava da metro di giudizio etico per Israele. L'accusa fece ampio uso di tutta una tradizione identitaria propria dell'ebraismo, dalla vastissima produzione di pensiero umanista e universalista ai suoi testi sacri, per costringere Israele a ripensare se stesso da capo. Anche i suoi simboli, come la stella di Davide, non più emblema dei perseguitati, furono rivisti e rivalutati in chiave polemica con Israele. In un articolo di Filippo Gentiloni furono citati i dialoghi tra i protagonisti del romanzo di Primo Levi, Se non ora quando, a rafforzare la tesi secondo cui l'ebraismo non sarebbe stato in alcun modo riconducibile alla realtà israeliana:
I partigiani ebrei russi di Primo Levi per difendersi non assomigliano agli
israeliani sicuri di sé, senza dubbi e senza ironia che
dominano dalle torrette dei carri armati di Begin e Sharon. Assomigliano ai
personaggi lieti e folli di Chagall, ai saggi dei racconti hassidici raccolti da
Martin Buber. (...) Alla fine di un'ennesima discussione sulla identità ebraica
con l'unico non ebreo del gruppo, il capo partigiano conclude: "Anzi, ora che ci
penso, noi abbiamo un inno, ma non abbiamo una bandiera. Dovresti farcene una,
bella, invece di perdere tempo con la toilette.
Una bandiera di tutti i colori, e in mezzo, invece della falce e
del martello, o dell'aquila con due teste, o della stella di David,
ci metterai un meshugge col berretto a sonagli e l'acchiappafarfalle". Il
meshugge di Levi è il fratello dello Schemiel di Singer, degli innocenti, dei
violinisti di Ben Shahn non certo di
Begin e Sharon (e ancora citando i dialoganti): "Il sangue non
si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia (...) Se i
tedeschi hanno ucciso con il gas, dovremmo uccidere con il gas
tutti i tedeschi? Se i tedeschi uccidevano dieci per uno, e noi
faremo come loro, diventeremo come loro e non ci sarà pace
più. (...) Ognuno è l'ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono
gli ebrei dei tedeschi e dei russi". E oggi i palestinesi sono gli
ebrei degli israeliani.
Una trattazione sui mutamenti intervenuti nell'identità ebraica è una cosa ben diversa dalla semplice contrapposizione fra una identità ideale e una identità sopraffattrice. Questo ci dice in realtà che l'intenzione non fu quella di discutere l'impatto dell'esistenza di uno Stato israeliano sull'identità ebraica in sé, ma piuttosto quella di voler presentare l'attacco contro Israele come qualcosa di non lesivo dell'identità ebraica della diaspora. Non era certamente quel tipo di ebraismo inoffensivo ad essere oggetto di critica. La sinistra intese chiarire la sua posizione nei confronti degli italiani ebrei che incalzando gli eccessi della carta stampata denunciavano l'insinuarsi di un pregiudizio antisemita a sinistra. Viceversa, da parte ebraica, si rese necessaria una revisione del proprio atteggiamento nei confronti di partiti e istituzioni italiane in momenti di forte tensione politica nel Vicino Oriente, nonché del proprio rapporto con lo Stato d'Israele. Sicuramente gli atti di antisemitismo moltiplicatisi contro gli ebrei in Italia e in Europa aggravarono l'inquietudine delle singole comunità contribuendo a far alzare il livello di attenzione sui riflessi della situazione mediorientale dentro il contesto politico italiano. Tutto il sostegno fu espresso dunque agli ebrei oggetto di attacchi antisemiti, ma allo stesso tempo la critica a Israele rimase inflessibile. Le posizioni della sinistra seguivano questa linea generale trascurando però un dettaglio importante. Escludevano l'antisemitismo dal novero delle motivazioni concrete dell'ostilità araba nei confronti degli ebrei tutti. Anche se gli arabi avevano dei validi motivi per odiare israeliani e sionisti, questo non bastava a spiegare il motivo di una lunga serie di atti che colpirono gli ebrei in tutto il mondo. Sicuramente l'atteggiamento della diaspora nei confronti dello Stato d'Israele non riusciva a spiegare fino in fondo i meccanismi che muovevano l'odio antiebraico. Ci sembra opportuno, a questo punto, riportare qui in ampi stralci l'intervento di Stefano Levi dalla Torre, pubblicato da "l'Unità" nell'aprile del 1988, a titolo esemplificativo degli attriti tra la sinistra e il mondo ebraico in quegli anni, un rapporto sempre più vicino alla completa incrinatura: (...) È un fatto che la sollevazione palestinese e la repressione israeliana in questi mesi mettono a dura prova i rapporti tra ebrei e non ebrei. Già durante l'aggressione israeliana in Libano del 1982, indignazione motivata e slittamenti antisemiti si aggrovigliavano in forme difficili da districare. Oggi la solidarietà verso la popolazione palestinese che a ragione vuoi liberarsi dell'occupazione militare straniera e la condanna di Israele che sostituisce la repressione alla via della trattativa e del compromesso, tendono a coinvolgere non solo Israele, ma anche gli ebrei in quanto tali. Da un lato, infatti la confusone tra ebrei e israeliani è abituale, e le responsabilità ebraiche di Israele nonché le responsabilità israeliane degli ebrei si intrecciano impropriamente nel senso comune; dall'altro lato è un fatto che gli ebrei in genere vedono in Israele un riferimento, critico o acritico, della loro stessa identità in quanto ebrei. La condanna di Israele chiama in causa il rapporto che gli ebrei nella loro maggioranza hanno con Israele. (...) Ora si leva verso gli ebrei una pressione fatta di diffidenza e di pretesa: la diffidenza per quel rapporto tra gli ebrei e Israele universalmente posto sotto accusa; pretesa ancora perché si presuppone, da chi è stato collettivamente oggetto della persecuzione estrema del nazifascismo, l'obbligo morale di insorgere contro la violenza da parte israeliana. Gli ebrei, che proprio nel ricordo dello sterminio nazista sono intimamente solidali con Israele, sono oggi chiamati da più parti, e in nome di quello sterminio, a dissociarsi da Israele. Dissociarsi da Israele o da una sua politica? Qui è il punto nevralgico. (...) Ora il rapporto che gli ebrei hanno con Israele quanto luogo centrale della vicenda ebraica moderna è giudicato sul terreno della politica oltre che come fatto inerente all'identità ebraica. (...) Gli ebrei sono chiamati a rispondere politicamente della loro discendenza, della loro identità in quanto ebrei. Qui sta il punto in cui la critica politica e morale può slittare nell'ostilità antiebraica: il sovraccaricare di una valenza politica e morale un'identità, una discendenza è proprio anche dell'antisemitismo, che fantastica sempre di qualche complotto ebraico. (...) Questo difficile confronto tra ragioni dell'identità e ragioni della morale e della politica si svolge sullo sfondo di un altro confronto: quello sulla memoria della Seconda Guerra Mondiale e dello sterminio nazista. L'Europa è attraversata da correnti di opinione che aspirano a riconciliarsi col passato, a scrollarsi di dosso il nazifascismo. Il complesso ebrei-Israele rappresenta un promemoria fastidioso. (...) Ora la sinistra da Tango al Manifesto ha facilmente ceduto alla tentazione di paragonare Israele al nazismo. Con ciò si banalizza il nazismo o si demonizza Israele come nuovo vertice del male. Né l'una né l'altra cosa rendono conto della realtà storica né della realtà attuale.
Chi paragona l'intollerabile repressione israeliana con i campi di
sterminio vuole falsificare la storia. La volontà ideologica di designare
Israele come nuovo impero del male fa sì che da sinistra
si accetti di confluire nella grande corrente revisionistica volta ad
attenuare le responsabilità del nazifascismo. L'equiparazione tra
Israele e nazismo veleggia sull'onda non del ragionamento ma
del riflesso condizionato. La parola ebreo richiama per associazione di idee la
parola nazismo, per opposizione o per similitudine. Si tratta di assecondare per
demagogia le associazioni di idee,
o non forse di contrastarne l'ambigua spontaneità? Si vellicano
riflessi condizionati e stereotipi che, per quanto riguarda gli ebrei,
producono facilmente forme di ostilità e luoghi comuni sedimentati nei secoli
dell'oppressione cristiana sugli ebrei (...).
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