Autore Fosco Maraini
Titolo Il Nuvolario
SottotitoloPrincipi di Nubignosia
EdizioneLa nave di Teseo, Milano, 2020, le Onde 70 , pag. 126, ill., cop.rig., dim. 13x18x1,5 cm , Isbn 978-88-346-0320-8
PrefazioneToni Maraini
LettoreGiorgio Crepe, 2020
Classe narrativa italiana , umorismo , scienze improbabili












 

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Indice


    9   Introduzione
        di Toni Maraini


   25   Il Nuvolario
        Principi di Nubignosia


   39   1. Gli Iperonti

  103   2. I Perionti

  115   3. Gli Iponti
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È pacifico che qualora l'atmosfera terrestre fosse ridotta a qualche tenue lago di gas raccoltosi al fondo delle depressioni fra le montagne - come pare sia il caso per il nostro satellite la Luna - è pacifico, diciamo, che non potrebbero in alcun modo aver luogo quelle molteplici sospensioni di vapori note sotto i nomi di nuvole, nebbie, caligini o foschie.

Saremmo inoltre privati di buona parte dei colori dell'aurora e del tramonto, nonché degli arcobaleni, delle aurore boreali, delle stelle filanti, e di svariati altri fenomeni metereologici e astronomici per lo studio di cui rimandiamo ai trattati speciali in materia.

Il Sole si leverebbe improvviso, come i fari di un'automobile quando spuntano d'oltre la gobba d'un ponticello o di una cunetta nella notte, e si leverebbe in una volta perfettamente nera, cosparsa di stelle. Le ombre si distenderebbero in terra lunghissime e taglienti. Il cielo sarebbe sempre sereno, qualora potessimo definire serena una vòlta celeste cosparsa di luci accecanti contro uno sfondo senza fondo; una vòlta dalla quale l'astro del giorno lancerebbe con violenza omicida dei raggi mitragliatori di luce, di calore e di energie chimiche, irremissibilmente dall'alba al tramonto.

Le notti, d'altra parte, porterebbero subito con loro delle temperature bassissime. Le rocce, per l'alternarsi continuo di questi stati di calore da fornace e di gelo da ghiacciaia, si andrebbero fendendo, frantumando, polverizzando. Il paesaggio tuttavia non sarebbe in alcun modo addolcito da dune o da colline, ma si avrebbero soltanto dei dirupi, dei ghiaioni, delle frane; e ciò per la mancanza di venti, di piogge, di tempeste, di nevicate, come di ogni altra meteora.

Sarebbe, è vero, un mondo perfettamente mondo d'immondo, ma nessuna forma di vita potrebbe sussistervi.

Riteniamo perciò sia inutile parlarne.

Le nuvole, nebbie o foschie della nostra atmosfera furono fin dall'antico oggetto di studio. E ciò è facilmente comprensibile qualora si consideri che, dalla forma, specie e colorazione delle medesime dipendono, non soltanto molteplici suggerimenti al pensiero dei filosofi; alle arti del cuoco, del cappellaio, del pastore; alle attività dei re e dei politici; ai principi degli economisti, degli psicologi, dei sociologi e di altre varietà di scienziati; ma perfino, i risultati dei raccolti, vuoi di grano o di avena, vuoi di piselli o di zucche.

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Tralasceremo, perché troppo note, e già trattate ampiamente da molti autori in varie opere, i passaggi del periodo classico che si riferiscono alle nubi. Noteremo soltanto - perché quasi sconosciuto - il Nubisferio di Trilòdoco Meunzio, opera del secolo III dopo Cristo, pervenutaci in gran parte grazie a dei brani di un palinsesto scoperto nel deserto del Sinai durante i recenti scavi del professor G. von Ap und zu Wolkenpuff. Nel Nubisferio si enunciano alcune sorprendenti teorie: che la vòlta celeste sia di metallo, e che le stelle rappresentino dei fori attraverso i quali penetri fino a noi la "Gran Luce degli Spazi"; che la Luna sia di vetro; che la Via Lattea costituisca la cicatrice del taglio cesareo attraverso cui la Terra nacque dal cosmo; che le stelle cadenti siano lacrime; che i fulmini abbiano un effetto afrodisiaco; che bevendo l'acqua piovana si abbiano figli maschi; che le nuvole siano dei vegetali e nutrano, per i pascoli celesti, il Sole.

Bisogna venire alla fine del secolo XVII per incontrare una razionale classificazione degli aspetti nuvolosi, o nuvoleschi che dir si voglia, presentatici dalla natura. Fu nel 1685 che Vapor De Cumulis pubblicò il suo celebre De Nimbo uno et trino. È un vero peccato, però, che l'autore fosse talmente preso dal furore delle digressioni teologiche da trascurare seriamente il fine principale del proprio lavoro; cioè lo studio naturalistico delle nubi, che nella introduzione egli s'era proposto di condurre a perfine. È al De Cumulis che dobbiamo la distinzione delle nubi in cirri, cumuli e nembi. Egli vide però in tutto questo un'immagine della Trinità: tre specie distinte in una sola essenza: il vapore. Qualsiasi accenno ad altri tipi (e le classificazioni di oggi ne enumerano dalle venti alle cinquanta!) diveniva nel suo spirito, non tanto uno sproposito scientifico, quanto un'eresia da punirsi con la tortura.

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Sull'odierna attività nimbologica e sul progresso generale degli studi, vedere:

G. VON AP UND ZU WOLKENPUFF, Dar Wesen der Wolken von dem Wissenschaftlichen punkt aus, Tubinga, 1928, 3 voll.

A. VOGOCIRRI, Trattato teorico pratico di nubignosia iperontica, Lanciano, 1933.

H.W. BOFFYSPLASH, Clouds: their Use, Production and Exchange in a Democratic World, Chicago, 1954, 6 voll. con indice, mappe e statistiche.

S.T. ROT, Nimbology, a Science of our Times, Oxford, 1955.

Actes du Centre Nimbologique International, vol. XXXII.

Proceedings of the Royal Nimbological Society, Londra, 1863 et segg.

Giornale nimbologico italiano, prima serie (dal 1879) e seconda (dal 1924).

Zentrallblatt für Wolkenlamde, Berlino, 1911-1956.

The Practical Nimbologist, Chicago, 1909 et segg.

Acta Nimbologica Petropolitana, Pietroburgo, 1889-1918.

Dai Nippon Un-rui-gakii Kenkyu Zasshi, Tokyo, 1892 et segg,

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Secondo G. von Ap und zu Wolkenpuff i vapori dell'atmosfera si dividono dunque, e anzitutto, in tre gruppi fondamentali: gli Iperonti; i Perionti; e gli Iponti.

Gli Iperonti sono quelli che si trovano comunemente al disopra dell'osservatore; sono cioè le comuni nuvole.

I Perionti sono quelli che avvolgono il medesimo; cioè le nebbie, le caligini, le foschie.

Gli Iponti sono quelli che si distendono ai suoi piedi; cioè i mari di nuvole o i veli di nebbie al fondo delle valli.

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1. Gli Iperonti


Tratteremo anzitutto gli Iperonti, che si dividono in diciotto classi.

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III. Piume di Fuoco

Brillano prima rosa, poi rosse come graffi di fiamme, come frecce di sangue, come tagli nelle carni del cielo. Non si ammirano tutti i giorni, anzi possono dirsi piuttosto rare. Tutti i nimbologi sono d'accordo nell'affermare che le Piume di Fuoco diano, tanto per visione diretta che per evocazione artistica, brividi di una liricità cristallina e metafisica. V'è stato a questo proposito chi ha citato la maniera con la quale Paul Valéry prende a parlare di Leonardo. "Je me propose d'imaginer un homme de qui auraient paru des actions tellement distìnctes que je vien à leur supposer ime pensée, il n'y en aura pas de plus étendue." Quando poi l'illustre autore francese si volge attorno per cercare un nome con cui battezzare questa mente limite, gli si presenta ineluttabile quello di Leonardo. Potrebbe figurarsi una maniera più geniale d'introdurre un soggetto? Non sorge esso dalla ragione, logico e rorido di meraviglia? Emozioni essenzialmente simili vengono risvegliate in noi dalle Piume di Fuoco, se ancora vicine al Sole. Quando ne siamo più distanti nel tempo - e perciò più sanguigne, più cupe - s'unisce a tutto questo un vago accoramento, come di presente che sta per fuggire, che è già quasi passato, che pencola sull'orlo invisibile del nulla, non sai se ancora sensazione o già ricordo.

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V. Figlie del Sole

Sono generalmente le prime nubi a formarsi nei campi dell'azzurro assoluto; queste, che uno spirito irrispettoso ha chiamato "dei bianchi flòcculi", vanno invece dette più propriamente Figlie o Vergini del Sole. Antichi poeti paragonarono tali nubi a navicelle disormeggiate dai Golfi del Silenzio, ad angioli sfuggiti da Paradisi Socchiusi, a petali staccatisi dai Grandi Fiori. Gli scienziati moderni - in specie dopo le fruttuose discussioni del memorabile congresso nubignostico e nimbologico di Berna del 1935 - hanno semplicemente osservato che ve ne sono due tipi: a) immobili; b) sospinte dal vento. La distinzione parrà molto elementare: bisogna però tenere presente che, da questo semplicissimo fatto, hanno origine due serie completamente diverse d'Iperonti. L'immobilità fa tendere subito le Vergini all'obeso, le induce a cercar marito, le trasforma in Spose o Matrone: il moto le rallegra invece in Nudi e Frutta, le sospinge con le Torme, o le lancia per il mondo; forse nei Giardini degli Dei, forse in Incendi e Delitti. Comunque non vogliamo qui porre il carro davanti ai buoi: per il momento ci interessano le giovani ghirlande di queste nubi semplicemente come le si vedono, in genere nel pieno mattino o sul mezzo del giorno. Diremo anzitutto che sono degli esseri profondamente felici. E perciò forse inclinano la mente e i sensi all'abbandono solare nei profumi che salgono dai boschi, nelle canzoni che giungono dai campi portate dalla brezza, nell'amplesso di radiazioni che avvolgono il corpo in calore, colore e pace. La scuola nimbologica mediterranea pone giustamente in rilievo il senso di franchezza delle Vergini: sono semplici, entusiaste; forse poco sensibili alle penombre e alle complicazioni, ma ricche di luci; splendide e pure. Sono dei canti senza suggerimenti, ma di una melodia perfettamente naturale e gioiosa. V. Moncher, nella sua grande monografia sulle Vergini, ricorda la loro connessione storica con il mare, soprattutto Mediterraneo; con i campi di grano maturo, i papaveri e la Specularia speculum veneris; con i paesaggi di rocce gialle dove alcune poche erbe lunghe e bionde ondeggiano nel vento; naturalmente, con le colonne e gli archi; poi con le foglie degli ulivi; con i pampini delle viti, con le foglie dei castagni, delle querce e dei carrubi; con giovani donne che tornano dai campi; con bambini e aquiloni; con cornucopie e l'ordine ionico; con Botticelli, Milton e Händel.

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VIII. Torme in fuga

Questa è una classe d'Iperonti determinata soprattutto da circostanze di ora e di luce, nonché da stati soggettivi dello studioso. Alcune nubi che per uno, e in un certo Iuogo, possono dirsi ancora Danze e Vino, per un altro, magari a poca distanza, saranno già Torme in fuga. Fin dalla più grande antichità è stato riconosciuto il fatto che: niente Vento, niente Torme. Ma ciò è stato tanto elementare da non valer la pena di venir detto. Perfino Vagusio Nebulina, quell'impreciso - per quanto lirico - autore veneto della seconda metà del Cinquecento, ha un lungo passaggio nel suo Theatro de li nuvolon buffi, in cui parla della necessità di Noti, Ostri e Favorii per dar vita alle Torme. I nimbologi tedeschi hanno cercato di consegnare una consistenza oggettiva alla classe e, non riuscendoci, hanno finito per negarla. Con molta maggiore finezza G. Dopotutto ha studiato in profondità la questione, denudandola dalle scorie accumulatevi intorno da più decenni di accanite dispute accademiche. "Le Torme - citiamo in extenso - originano nelle sensibilità dell'animo. Ci è stato detto a volte da profani: 'Guardate quelle nebbie che ingombrano il cielo, paiono stracci.' Per tali persone non esisteranno mai delle Torme; punto e basta. Ma chi ha educato il proprio gusto nimbologico con lunghe esplorazioni del cielo, sa immediatamente quando certi fenomeni dell'atmosfera e certi moti della psiche, fecondandosi a vicenda, generino delle Torme in fuga. 'Eccole, eccole!' esclama egli allora. Potrà trattarsi di violacei sporadici brandelli sperduti, rincorrentisi, sospinti dal vento sullo sfondo di un cielo diafano e verde della sera, potrà trattarsi invece di sfilacciature paonazze di un mattino invernale di tramontana o, magari, di sciabecchi a vele spiegate nel mezzodì di un giorno scontroso. Quello che importa è che essi sappiano generare un senso di avvenimento importante, forse tragico, certo impellente e in pieno divenire; quel senso di fuga da, e corsa verso, qualcosa di minaccioso, di dubbio e terribile: la certezza che dove siamo noi è un luogo di nessun conto; che tutto quanto conta nell'Universo sia avvenuto là donde fuggono le Torme, o stiano per succedere là dove corrono sospinte. Talvolta queste nubi saranno orlate di oro, porteranno con loro i propri broccati, i propri gioielli, i propri tesori; altre volte parranno intrise o striate di sangue. Vanno, vanno. Altre e altre ancora. Dove? Perché? Padri, e madri, vecchie con bambini e malati e asinelli! e giumente. Ogni tanto dei re, dei patriarchi, dei vescovi, degli arconti; su bighe o a cavallo, o su cammelli, o con delle renne; senza regola, confusi, via, via, oltre l'orizzonte, alle case bige del nulla." Non pensavano forse alle Torme - aggiungiamo noi - i contadini dell'Estonia quando cantavano la strofa seguente?

    O vento della Croce! O gran furore!
    Maligna la sferzata che c'investe:
    grand'urlo di sciagura e di dolore,
    cavalcan Maghi Finni le tempeste.

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3. Gli Iponti


Gli Iponti, le formazioni di vapori che vengono a disporsi ai piedi dello studioso, si dividono in due classi:


I. Laghi del Silenzio


È stato osservato sin dall'epoca classica come durante certi periodi di freddo invernale l'aria al fondo delle valli sia più gelida di quella che avvolge moderate colline all'intorno, producendo con ciò dei veli di vapori aderenti ai luoghi umidi e bassi. Già Minutius Omniavidens nel suo Heptaponton - nei suoi Viaggi per i Sette Mari - descrisse, con il solito lusso di particolari e le solite fantastiche storie offerte alla credulità dei lettori, una mattinata in Cappadocia. "Pervenimmo - dice il nostro - al sommo di una collina donde si aprì alla vista una vasta estensione di campagna. Qui ci fermammo presso la capanna di un pastore a riscaldarci. Le valli intorno erano sommerse da un velo di nebbia immobile, leggermente glauca, dove la sfioravano le ombre delle elevazioni circostanti, candida se in pieno sole. Ne emergevano soltanto qua e là le cime di alcuni alberi. Il pastore ci spiegò che tali nebbie erano note nella regione come Laghi del Silenzio e che vi si celavano i tremendi Dragoni Splenetici (splenetici dracontes), i quali prendevano gli uomini e li disossavano, lasciandoli poi molli e vuoti come zampogne afflosciate. A conferma di ciò il buon uomo portò fuori della sua capanna un bottiglione e 'Qui - ci disse - v'è un mio bambino disossato dai draghi'. Versò quindi dal recipiente un essere completamente floscio che si sparse in terra come una focaccia poco cotta e prese sonoramente a ridere vedendo il nostro orrore: cominciò a muoversi in maniera non dissimile da quella che potrebbe avvenire per una vescica munita di una propria volontà. È inutile dire che fuggimmo terrorizzati verso la più alta cima della regione fin quando i Laghi del Silenzio furono completamente spariti." I filologi moderni hanno generalmente trattato la storiella con il medesimo rispetto con cui hanno trattato le altre non poco consimili di Minutius, cioè ridendone. Recenti studi comparativi di R. Penetrantoff paiono invece rilevare un duplice e autentico sostrato di questa leggenda: anzitutto un simbolismo igienico, cospicuo nel riconoscimento dell'insalubrità di luoghi bassi; poi, un ricordo mitologico che ci porta notizie di un antichissimo culto fallico, condannato nel secolo III dopo Cristo dai primi missionari cristiani della regione (san Veritazio e san Virtuzio) con il famoso motto "Il fallo disossa lo spirito". Si è venuti con ciò da una parte a riabilitare il nome di Minutius e, dall'altra, a portare della luce sopra un'interessantissima fase nella storia dei contatti culturali. È inutile dire che tutti i nimbologi moderni concordano nel celebrare la grazia verginea e impube di questi vapori. La scuola scandinava si è poi specializzata nello studio dei Laghi del Silenzio illuminati dalla Luna. Ai Laghi sotto quest'ultimo aspetto pensiamo possa applicarsi la bellissima frase di A. Huxley: "A nameless emotion of quiet happiness shot with melancholy."

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II. Tappeti degli Angioli

Sono delle formazioni che si possono osservare dall'alto di torri, capi, dirupi, rocche, montagne, ciminieri, aerostati, velivoli, paradisi o empirei. Il tipico Tappeto si presenta come un gran mare di nuvoli generalmente immobili, sfolgoranti luce e soffici come una coltre. Separano dal mondo. Le cime delle montagne ne emergono come isole, come schiene pacifiche di pacifici mostri. Spesso queste nubi si abbattono in vortici e onde ai piedi delle rupi, in maniera simile a quella di un oceano sconvolto da una smisurata e solenne tempesta. Diversi teologi sostengono che faremmo bene a recarci spesso sulle alture dei monti, per abituarci a simili paesaggi, i quali, con notevole probabilità, dovranno costituire quel nostro ordinario quando ci saremo finalmente spogliati di quel gravoso, seppur gradevole, peso di questo nostro corpo di creta. Ciò naturalmente secondo le tendenze dei teologi ottimistici e positivi. Secondo invece quelli pessimistici e negativi, bisogna pur aggiungere, faremmo bene a visitare di frequente fornaci dove si cuociono mattoni, fonderie dove si lavora il ferro, fabbriche di vetro, altiforni, crateri di vulcani, solfatare, moiette e simili. A proposito dei Tappeti degli Angioli, citiamo qui un passaggio dai taccuini dell'esploratore Galba Finimondo. "Ore 5 - scrive egli da una montagna dell'Imàlaia - esco dal sacco, sbuco dalla tenda. Freddo. Il Sole sorgerà fra poco. In alto ci sovrasta la vetta dello Z3. Il cielo è cosparso di poche ragnatele rosse. Ai nostri piedi un infinito mare cilestrino metallico in lento movimento nell'ombra. Riflette appena qua e là le tinte del cielo: il rosso delle nubi vi compare in viola. Accidenti: le scarpe non si possono infilare: gelate. Rumore del vento dietro la cresta. Quasi un canto. Pensieri: agli amici, ai portatori in basso, alle calze che dovrò cucire quando le mani saranno meno intirizzite. Fame. Un poco di formaggio. Il Sole illumina la vetta dello Z3. Lontani, come piramidi paonazze spuntano dalle nubi l'X31, il B5 e il T7. Misteriosi; algebrici; cabalistici; bellissimi. Sorge il Sole. Sfiora il mare di nubi. Le prominenze fioccose si orlano d'oro. Contrasto fra: mondo aspro e selvaggio, nudo e tendineo che mi circonda (ghiaccio, lame d'ombra, precipizi, scarponi, corda) e cuscini rosa di tardo pomeriggio di palazzo (nubi dell'aurora in basso ai miei piedi). Qui uomo muscoli tensione che lotta con freddo intirizzimento mani per mettersi scarpe grosso cuoio: laggiù principesse che si confidano segreti dietro paraventi di seta con dipintivi fiori glicine. Qui fame soddisfatta pezzo secco galletta e formaggio: là sovrano ritirato cure governo tracciante breve intensa poesia su transeunza cose vita, o su foglie autunnali cadenti, o su gioielli perduti lago. Qui barba tre settimane, odori, grassi, corda, cibi scatola: là fruscio seta giù per scale segrete, amante che torna di nascosto all'alba propri appartamenti e passa attraverso sala dove sera prima fu festa e ora sono petali piume nastri per terra, sedie in disordine, coppe arrovesciate atmosfera pregna senso inutilità e vanità del tutto. Qui sassi: là giade e lacche. Qui precipizi: là giardini e pergole. Qui vento: là musica e brezza, forse suono fontana sotto portico notte Luna. Qui Sole: là chiaro filtrato su gelsomini su terrazza, oppure da tendami rossi su letto dove giovane donna dormente muove molle braccio tra lenzuola ricamate; pastosi riflessi ori marmi velluti stanza."


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