Copertina
Autore Sándor Márai
Titolo Le braci
EdizioneAdelphi, Milano, 1998, Biblioteca 358 , Isbn 978-88-459-1373-0
OriginaleA gyertyák csonkig égnek [1942]
CuratoreMarinella D'Alessandro
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa ungherese
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Pagina 11 [ inizio libro ]

In mattinata il generale si soffermò a lungo nella cantina del vigneto. Vi si era recato all'alba insieme al vignaiolo perché due botti del suo vino avevano cominciato a fermentare. Quando finì di imbottigliarlo e fece ritorno a casa, erano già le undici passate. Ai piedi delle colonne, sotto il portico lastricato di pietre umide ricoperte di muffa, lo attendeva il guardacaccia, che porse una lettera al padrone appena arrivato.

«Cosa vuoi?» disse il generale, e si arrestò con aria seccata. Spinse indietro sulla fronte il cappello di paglia a tesa larga che gli ombreggiava il viso arrossato. Da anni ormai non apriva né leggeva lettere. La corrispondenza veniva aperta e selezionata da un impiegato nell'ufficio dell'intendente.

«L'ha portata un messo» disse il guardacaccia, e rimase fenno sull'attenti.

Il generale riconobbe la grafia, prese la lettera e se la ficcò in tasca.

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Pagina 32

Non piangeva, era solo molto stanca perché non dormiva da sei giorni. Tornò nella stanza del malato, tirò fuori dalla sacca le provviste portate da casa e si mise a mangiare. Per sei giorni aveva lottato tenendo in vita il fanciullo con il calore del suo fiato. La contessa era rimasta in ginocchio davanti alla porta, piangendo e pregando. Erano restati tutti lì, la nonna francese, la servitù, un giovane prete dalle sopracciglia storte che entrava e usciva dal palazzo a tutte le ore del giorno. Le visite dei medici si diradarono. Il fanciullo partì per la Bretagna con Nini; la nonna francese, sconcertata e offesa, rimase a Parigi.. Naturalmente nessuno disse per quale motivo il fanciullo si fosse ammalato. Nessuno lo disse, però lo sapevano tutti. Aveva bisogno di affetto, e allorché quegli estranei si erano chinati su di lui, mentre quell'odore intollerabile lo investiva da tutte le parti, aveva deciso che era meglio morire. In Bretagna si udivano i rumori del vento e delle onde che irrompevano tra le vecchie pietre. Scogli rossastri affioravano dall'acqua. Nini, tranquilla, guardava sorridendo il mare e il cielo come se già li conoscesse. Ai quattro angoli del castello si ergevano dei tozzi torrioni di pietra grezza: in un passato ormai remoto, era di lassù che gli antenati della contessa avevano spiato l'arrivo di Surcouf, il pirata. Il fanciullo si abbronzava rapidamente e rideva spesso. Non sentiva più alcun timore, perché sapeva che loro due, lui e Nini, erano i più forti. Sedevano in riva al mare, e i lembi dell'abito blu scuro di Nini svolazzavano al vento. Tutto aveva sapore di sale, anche l'aria e i fiori. Ritirandosi al mattino, la marea lasciava dietro di sé ragni marini dalle zampe pelose, stelle di mare violacee e gelatinose e granchi dal ventre scarlatto, disseminati negli anfratti degli scogli rossastri lungo la riva. Nel cortile del castello c'era un fico pluricentenario, simile a un saggio orientale che ormai sappia raccontare solo storie estremamente semplici. Sotto il suo fitto fogliame si annidava una frescura dolce e profumata. Verso mezzogiorno, mentre il mare mormorava trasognato, il fanciullo sedeva lì in silenzio insieme alla balia.

«Diventerò poeta» disse una volta, alzando lo sguardo con la testa piegata di lato. Il vento gli scompigliava i riccioli biondi, mentre contemplava il mare tra le palpebre socchiuse. La balia lo abbracciò, gli prese il capo e se lo strinse al petto. Disse:

«No, tu diventerai un soldato».

«Come il babbo?» disse il fanciullo scuotendo il capo. «Anche il babbo è un poeta, non lo sai? Pensa sempre ad altro».

«E' vero» rispose la balia sospirando. «Non andare al sole, angelo mio. Ti verrà mal di testa».

Rimasero a lungo così, seduti sotto il fico. Ascoltavano il mare: il suo mormorio aveva qualcosa di familiare. Era simile a quello delle foreste di casa loro. Il fanciullo e la balia pensavano che a questo mondo vi era qualcosa in comune fra tutte le cose.

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Pagina 34

Di fatti come questi ci si ricorda soltanto più tardi. Trascorrono interi decenni, si passa per una camera buia in cui è morto qualcuno e a un tratto si ode il mormorio del mare, si riascoltano parole antiche. Come se quelle poche parole avessero dato espressione al significato della vita. Ma più tardi c'era sempre stata qualche altra cosa di cui parlare.

In autunno, quando tornarono a casa dalla Bretagna, l'ufficiale della guardia aspettava la sua famiglia a Vienna. Il fanciullo venne iscritto al collegio militare. Gli diedero in dotazione uno spadino, dei pantaloni lunghi e un chepì. La domenica, con lo spadino allacciato intorno ai fianchi e la giubba blu scuro, gli allievi venivano condotti a passeggiare lungo il Graben. Sembravano bambini che giocassero ai soldati. Portavano guanti bianchi ed eseguivano con grazia il saluto militare.

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Pagina 56

(...) E sapevano entrambi che la verità era semplicemente questa: che il figlio dell'ufficiale della guardia non poteva dare il suo denaro a Konrad ed era costretto a condurre quel tipo di vita che si addiceva al suo rango e al suo nome. Intanto, nell'appartamento di Hietzing, Konrad mangiava frittata cinque sere alla settimana e quando la lavandaia gli riportava il bucato contava personalmente i capi di biancheria. Ma questo non aveva importanza. Il fatto più importante era che bisognava salvaguardare quell'amicizia per tutta la vita, a prescindere dal denaro. Konrad invecchiava in fretta. A venticinque anni portava già gli occhiali da lettura. E di notte, quando l'amico rientrava a casa da qualche impegno mondano con addosso l'odore del tabacco e dell'acqua di colonia, un po' ebbro e in disordine e con l'aria del ragazzino che si dà alla bella vita, parlottavano a lungo sottovoce come due complici, come se Konrad fosse un mago che trascorreva il tempo seduto in casa a spremersi il cervello sul significato degli esseri umani e dei fenomeni, mentre il suo famulo girava il mondo per raccogliere segreti sulla vita della gente. Konrad leggeva di preferenza libri inglesi sulla storia della convivenza tra gli uomini e l'evoluzione sociale. Il figlio dell'ufficiale della guardia leggeva con piacere solo libri sui cavalli e racconti di viaggio. E dato che si volevano bene, ciascuno perdonava all'altro il suo peccato originale: Konrad perdonava all'amico il suo patrimonio, e il figlio dell'ufficiale della guardia per donava a Konrad la sua povertà.

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Pagina 58

(...) Come accade con le corde di uno Stradivari, che non vanno usate per strimpellare motivetti da osteria, così lei riteneva che le sue gambe, capolavori che non potevano avere altro scopo che la danza - questa vittoria sulla legge di gravità, sulla pesantezza umiliante dei corpi -, dovessero essere preservate con cura. Cenarono nel cortile della locanda, sotto un pergolato di uva selvatica, al lume di candele protette da globi di vetro. Sorseggiarono un vino rosso leggero e la giovane donna rise con allegria. Tornando a casa in carrozza sotto il chiaro di luna, quando dall'alto di una collina scorsero la città immersa in una luminescenza argentea, Veronica, estasiata, li abbracciò entrambi. Fu un momento di felicità, incoscienza e totale abbandono. I due amici accompagnarono a casa la ballerina in silenzio e si congedarono da lei baciandole la mano davanti al portone del vecchio edificio del centro. Sì, Veronica. E Angela, con la sua passione per i cavalli. E tutte le altre, con i fiori tra i capelli, che si allontanavano danzando in un lungo girotondo, lasciandosi dietro una scia di nastri, lettere, fiori, a volte un guanto. Quelle donne avevano portato nella loro vita lo smarrimento dei primi amori e tutto ciò che significa l'amore: desiderio, gelosia, e un disperato senso di solitudine. Ma al di là delle donne e del mondo balenava un sentimento più forte di tutto il resto. Un sentimento, noto soltanto agli uomini, che si chiama amicizia.

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Pagina 76

«Non ho più niente di cui occuparmi. Ho settantacinque anni come te. Tra poco morirò. E' per questo che mi sono messo in viaggio, ed è per questo che mi trovo qui».

«Si dice» replica il generale con gentilezza, in tono incoraggiante, «che una volta arrivati a quest'età si va avanti fino a quando non ci si è stancati di vivere. Non credi che sia così?».

«Io mi sono già stancato» dice l'ospite.

Lo dice senza enfasi, con aria indifferente.

«Vienna» dice. «Sai, mentre ero lontano, quella città rappresentava per me il diapason del mondo. Pronunciare il nome "Vlenna" era come far vibrare quel diapason. Osservavo la persona con cui stavo parlando per vedere come reagiva. Era il mio modo di mettere le persone alla prova. Chi non aveva alcuna reazione non faceva al caso mio. Perché Vienna non è soltanto una città, il suo nome ha un suono che alcuni sentono vibrare in fondo all'anima per sempre e altri no. E' stata la cosa più bella della mia vita. Ero povero ma non ero solo, perché avevo un amico. E anche Vienna era come un amico. Ai Tropici, quando pioveva, udivo sempre la sua voce. E in mille altre occasioni. Un odore di muffa che aleggiava nell'androne della casa di Hietzing mi tornava in mente persino nella giungla. A Vienna la musica e tutto ciò che amavo vibrava nelle pietre, nello sguardo e nella cortesia degli uomini come vivono nei cuori le passioni ormai purificate. Sai, quando le passioni non ti fanno più soffrire. Vienna d'inverno e in primavera. I viali di Schónbrunn. La luce azzurra nel dormitorio del collegio, la grande scalinata bianca con le statue barocche. Le cavalcate al mattino, nel Prater. I cavalli bianchi della scuola di equitazione. Ricordavo intensamente tutto questo e volevo rivederlo ancora una volta» dice a bassa voce, quasi con vergogna.

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Pagina 77

(...) Nel mondo imperversava la guerra. A quei tempi ero già cittadino britannico, ma le autorità inglesi si resero conto che non potevo combattere contro il paese in cui sono nato. Gli inglesi mostrano comprensione per queste cose. Fu così che potei tornare ai Tropici. Laggiù non eravamo informati di nulla, e i coolies erano gli ultimi che avrebbero potuto sapere qualcosa, in mezzo alle paludi, senza giornali, senza radio. Dopo che erano trascorse settimane intere senza che giungessero notizie dal mondo, un bel giorno, allo scoccare del mezzodì, interruppero il lavoro. Senza una ragione. Nulla era cambiato intorno a loro, le condizioni di lavoro, il sistema disciplinare, il vitto, tutto era come sempre, non particolarmente buono né cattivo, come poteva e doveva essere in luoghi del genere. Dunque un bel giorno, nel diciassette, allo scoccare del mezzodì, dichiararono che non avrebbero più continuato a lavorare. Dal folto della foresta spuntarono quattromila coolies a torso nudo, imbrattati di fango fino alla cintola, deposero gli utensili, le asce, le zappe, e dissero basta. Avanzarono rivendicazioni di tutti i generi. Pretesero che ai possidenti fosse tolto il diritto di stabilire le sanzioni disciplinari. Reclamarono un aumento di salaiio. Intervalli più lunghi durante l'orario di lavoro. Non si riusciva a capire cosa li avesse presi. Quattromila coolies si trasformarono davanti ai miei occhi in quattromila diavoli gialli e bruni. Nel pomeriggio montai a cavallo e mi recai a Singapore. Fu lì che appresi la notizia. Sulla penisola fui uno dei primi a venirne a conoscenza». «Di che cosa si trattava?» domanda il generale, e si sporge in avanti.

«Seppi che in Russia era scoppiata la rivoluzione. Un uomo, di cui all'epoca si sapeva soltanto che si chiamava Lenin, aveva fatto ritorno in patria in un vagone piombato, portandosi dietro nel bagaglio il bolscevismo. A Londra la notizia si seppe lo stesso giorno in cui l'avevano appresa i miei coolies nel mezzo della giungla, tra le paludi, senza radio né telefono. Era un fatto incomprensibile. Più tardi però compresi. Le cose importanti si sanno comunque, anche senza apparecchiature o telefoni».

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Pagina 80

«La mia patria» dice l'ospite «non esiste più, si è disintegrata. La mia patria erano la Polonia e Vienna, questa casa e la caserma giù in città, la Galizia e Chopin. Cosa è rimasto di tutto ciò? Il misterioso elemento che unificava ogni cosa ha esaurito il suo effetto. Tutto è caduto in pezzi, sono rimasti solo i frammenti. La patria per me era un sentimento. Questo sentimento è stato offeso. In casi come questi, uno se ne va. Ai Tropici o ancora più lontano».

«Più lontano, dove?» chiede freddamente il generale.

«Nel tempo».

«Questo vino,» dice il generale sollevando il bicchiere di vino rosso, quasi nero «forse ne ricordi l'annata. E' stato vendemmiato nell'ottantasei, l'anno in cui prestammo giuramento. Mio padre fece riempire di questo vino un'ala della cantina, in memoria di quel giorno. Sono passati molti anni da allora, quasi una vita intera. E' un vino vecchio, ormai».

«Tutto ciò a cui giurammo fedeltà non esiste più» dice l'ospite gravemente, e solleva a sua volta il bicchiere. «Sono tutti morti, oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me. E tutto ciò che posso dire».

«Per me quel mondo è sempre vivo, anche se non esiste più nella realtà. E vivo perché gli ho giurato fedeltà. E' tutto ciò che posso dire».

«Sì, tu sei rimasto un vero soldato» risponde Konrad.

Sollevano i bicchieri in un tacito brindisi, quindi li vuotano senza aggiungere altro.

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Pagina 140

Ad Arco per la prima volta sento che Krisztina non mi appartiene del tutto. Mi pare di riudire, proveniente da molto lontano, dall'abisso del tempo, la voce saggia e malinconica di mio padre, che parla di te, Konrad». E la prima volta in quella serata che il generale pronuncia il nome dell'ospite, senza enfasi né ostilità, in tono cortese e indifferente. «Mio padre dice che tu non sei un vero soldato, che appartieni a una razza diversa. Non lo capisco, non so ancora che cosa significhi essere diversi. Solo più tardi, dopo molte ore trascorse in solitudine, mi renderò conto che tutto ruota sempre intorno a questo. I rapporti tra l'uomo e la donna, l'amicizia, le relazioni mondane dipendono da questo, dalla diversità che divide il genere umano in due parti. A volte sono portato a credere che le differenze tra le classi sociali, le divergenze ideologiche, i conflitti di potere, insomma tutti i contrasti che dividono l'umanità dipendano da questa diversità. E come le persone appartenenti allo stesso gruppo sanguigno sono le uniche che possano donare il loro sangue a chi è vittima di un incidente, così anche un'anima può soccorrerne un'altra solo se non è diversa da questa, se la sua concezione del mondo è la stessa, se tra loro esiste una parentela spirituale. Dunque, proprio là ad Arco intuii per la prima volta con angoscia che anche Krisztina era diversa. E mi tornarono in mente le parole di mio padre, che non leggeva libri ma che aveva imparato anche lui, con l'esperienza e la riflessione solitaria, a conoscere certe verità; aveva sperimentato anche lui il disaccordo che può esistere fra gli esseri umani di razza diversa, perché si era unito a una donna accanto alla quale, pur amandola, si era sentito sempre solo. I miei genitori avevano temperamenti e ritmi di vita diversi, fatti per scontrarsi, perché anche mia madre era diversa, come lo eravate tu e Krisztina... E ad Arco scoprii anche un'altra cosa. I sentimenti che provavo per mia madre, per te e per Krisztina erano identici: la stessa nostalgia, le stesse trepidanti attese, gli stessi desideri impotenti. Il fatto è che noi amiamo sempre i diversi da noi, e continuiamo a cercarli in tutte le circostanze. Ed è questo uno dei misteri della nostra vita. Quando due esseri uguali si incontrano, la si considera una fortuna, un dono della sorte. Ma gli incontri di questo genere sono disgraziatamente rari, come se la natura facesse di tutto, usando la forza e l'astuzia, per impedire che si formi una tale armonia - forse perché ha bisogno, per ricreare il mondo e rinnovare la vita, della tensione che si sviluppa tra individui che, pur vivendo secondo ritmi e tendenze discrepanti, si rincorrono eternamente. Una sorta di corrente elettrica alternata... dovunque si volga lo sguardo, si vede questo scambio continuo tra il polo negativo e quello positivo. Quanta disperazione, quante speranze inutili si celano dietro questa alternanza!

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Pagina 144

(...) Nessuno sapeva accarezzare un tessuto di gran pregio o un animale con il tocco appassionato di Krisztina. Nessuno sapeva rallegrarsi come lei delle piccole cose quotidiane. Provava interesse per tutto, uomini e bestie, astri e libri, senza per questo darsi arie di superiorità, senza atteggiarsi a intellettuale, ma al contrario accostandosi a tutto quello che la vita ci offre con la serena esultanza di chi si sente a casa sua nel mondo. Come se tutte le manifestazioni del mondo la riguardassero personalmente, capisci?... Sì, tu mi puoi capire. E saprai come al suo spirito così aperto e scevro di pregiudizi si unisse una grande umiltà, come se lei si rendesse sempre conto che la vita è un grande dono, una grazia suprema. Ogni tanto vedo ancora il suo volto» dice con emozione. «In questa casa non vedrai più il suo ritratto, il grande quadro dipinto dal pittore austriaco che è rimasto a lungo appeso fra i ritratti dei miei antenati maschili e femminili e che è stato rimosso dalla parete. Non ho più nemmeno una fotografia, nessuna immagine di Krisztina è rimasta qui al castello» dichiara quasi con soddisfazione, come se si vantasse di una prodezza. «Tuttavia ogni tanto, nel dormiveglia o quando entro in una stanza, vedo ancora il suo volto. E ora che, dopo quarantun anni, noi due che l'abbiamo conosciuta a fondo stiamo parlando di lei, vedo il suo volto con la stessa nitidezza con cui lo vidi quell'ultima sera, mentre sedeva qui tra noi. Devi sapere che quella fu l'ultima volta che cenammo insieme, io e Krisztina. Non solo tu, anch'io cenai con lei per l'ultima volta in quella occasione. Perché quel giorno tutto accadde, fra noi tre, come era destino che accadesse. E poiché Krisztina era la persona che sappiamo, era inevitabile che venissero prese certe decisioni: tu partisti per i Tropici, io e Kriszùna non ci rivolgemmo più la parola» dice tranquillamente.

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Pagina 146

(...) Ormai erano morte o lontane tutte le persone che un tempo erano state importanti per me, mio padre e mia madre, tu e Krisztina. Erano vivi solo i due vecchi, Niní, la balia, e il padre di Krisztina; li tenevano in vita, proprio come accade a noi adesso, la strana indifferenza e la tenace volontà dei vecchi, tesa verso qualche imperscrutabile obiettivo. Tutti gli altri erano morti. Non ero più giovane nemmeno io, avevo superato i cinquant'anni, e mi sentivo solo come quell'albero della foresta intorno al quale tutti gli altri erano stati distrutti da un uragano alla vigilia della dichiarazione di guerra. Solo quell'albero era rimasto in piedi in mezzo alla radura, nei pressi del casino di caccia. Ormai, un quarto di secolo dopo, un nuovo bosco è cresciuto intorno a lui, ma il vecchio albero, solitario tra le giovani piante, è ancora lì, pieno di vigore, continua a vivere con forza assurda e gigantesca. Quale può essere lo scopo della sua esistenza? Nessuno, credo. A mio parere, la vita non ha altro scopo che quello di durare e di rinnovarsi il più a lungo possibile. Dunque ero appena tornato dalla guerra, e parlai con il padre di Krisztina. Cosa sapeva di noi tre? Tutto. E io gli dissi - non lo avevo mai detto a nessun altro - tutto ciò che valeva la pena di dire. Eravamo seduti nella stanza buia, tra mobili antichi e vecchi strumenti; c'erano fasci di spartiti disseminati ovunque, sugli scaffali, negli armadi, una musica senza voce imprigionata nei segni, il ronzio e il frastuono delle note racchiusi in tutta quella carta stampata, fra quelle mura dove tutto emanava un profumo antico, come se ogni soffio di vita, ogni presenza umana se ne fossero ormai allontanati... Il vecchio mi ascoltò e poi disse soltanto: "Che cosa pretendi? Tu sei sopravvissuto a tutto". Lo disse come se pronunciasse una sentenza, o come se lanciasse un'accusa. Guardava fisso davanti a sé nella penombra, con occhi appannati. Era già molto vecchio, aveva superato gli ottanta. Allora compresi che chi sopravvive non ha il diritto di accusare nessuno. Chi sopravvive ha vinto la sua causa, non ha alcun motivo di formulare accuse. Si è dimostrato il più forte, il più furbo, il più prepotente. Come noi due» conclude seccamente.

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Pagina 171 [ fine libro ]

Il generale sale verso la sua stanza. All'inizio del corridoio lo attende la balia.

«Adesso ti senti più tranquillo?» domanda.

«Sì» dice il generale.

Si avviano insieme verso la stanza. La balia si muove a piccoli passi veloci, come se si fosse appena alzata e si accingesse a sbrigare il suo lavoro mattutino. Il generale si muove con lentezza, appoggiandosi al bastone. Percorrono il corridoio affollato di quadri appesi alle pareti. Davanti alla macchia vuota che indica il posto in cui si trovava il ritratto di Krisztina, il generale si arresta di colpo.

«Il quadro,» dice «ormai puoi anche appenderlo di nuovo al suo posto».

«Sì» dice la balia.

«Non ha nessuna importanza» dice il generale.

«Lo so».

«Buonanotte, Nini».

«Buonanotte».

La balia si solleva sulla punta dei piedi e alza la mano minuta, con la pelle giallastra e rugosa, per tracciare un segno di croce sulla fronte del vecchio. Si danno un bacio, uno strano bacio rapido e un po' goffo: se qualcuno li vedesse non potrebbe fare a meno di sorridere. Ma come tutti i baci umani anche questo, alla sua maniera tenera e grottesca, è la risposta a una domanda che non è possibile affidare alle parole.

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