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[ inizio libro ]
Settembre era cominciato con un caldo fuori
dell'ordinario. In uno di quei pomeriggi di primo autunno,
quando le giornate sembrano protrarre la torrida calura
estiva, il giovane magistrato Kristóf Kömives esaminava nel
suo ufficio gli atti delle cause di divorzio.
Una, in particolare, interessava il giudice, poiché -
sia pure alla lontana - egli conosceva le parti in causa.
Lo sventurato eroe dell'udienza fissata per l'indomani, il
marito, un giovane medico di una certa fama, direttore del
laboratorio chimico di uno degli ospedali di Budapest, era
stato compagno di scuola di Kömives; avevano frequentato
insieme le medie, e in seguito, ai tempi dell'università, si
erano di tanto in tanto incontrati in qualche occasione
mondana, alle serate danzanti e alle riunioni studentesche.
Il giudice ricordava sempre con piacere quel suo compagno
modesto, i suoi modi discreti, il suo contegno riservato.
Ora, mentre metteva in ordine le carte, la figura del medico
gli appariva dinanzi in maniera particolarmente vivida: lo
rivedeva così come gli era capitato di vederlo in qualche
remota festa danzante, ai tempi dell'università, quando
aveva ventidue o ventitré anni: in piedi nell'ampia hall di
un albergo di lusso, con un sorriso imbarazzato e l'ingenua
cortesia dell'uomo inesperto del gran mondo, risponde alle
domande che gli pongono, con un tono tra l'affabile e il
condiscendente, alcuni gentiluomini dalla reputazione di
persone influenti. Nel gruppo c'è anche lui, il giovane
praticante legale, e d'un tratto prova simpatia per quel
compagno di scuola dimenticato, che conosce a malapena. E
un lampo di attrazione inattesa, divampante, del tutto
ingiustificato. Ma subito, come se un ineluttabile e
indefinibile divieto si frapponesse tra loro, per l'ennesima
volta passano l'uno di fianco all'altro scambiandosi poche
parole di circostanza con un sorriso di garbata cordialità.
Questi impacciati e appena abbozzati tentativi di approccio
si ripetono con una certa regolarità: talvolta, scorgendosi
per strada, si affrettano l'uno incontro all'altro con un
sorriso festoso; eppure sanno benissimo che ancora una volta
non succederà nulla: si limiteranno a stringersi a lungo le
mani e a farfugliare con imbarazzo generici convenevoli,
come se stessero parlando d'altro. D'altro? Di che
cos'altro? Il giudice, assorto nei suoi pensieri, si alzò e
andò alla finestra.
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Attraversò lentamente il ponte, in direzione di Buda; si
era tolto il cappello e camminava adagio, con aria pensosa.
Chi l'avesse visto così, mentre, con le mani dietro la
schiena, il busto leggermente inclinato in avanti, il passo
lento e svogliato, gli occhi fissi a terra, avanzava tra i
passanti della sera che si affrettavano verso casa,
l'avrebbe creduto più vecchio della sua età. Kristóf
Kömives era incanutito precocemente, e negli ultimi anni, da
quando era andato a vivere in centro e trascorreva quasi
tutta la giornata seduto dietro la scrivania, si era
appesantito. Questa condizione fisica lo impensieriva. In
cuor suo disprezzava ogni forma di rilassatezza, ivi
compresa la indolente rilassatezza del corpo - era propenso
a esaltare l'ascetismo, considerava con favore le attività
ginniche allora in voga e in generale era del parere che
coloro che si concedono eccessivamente agli agi e alle
esigenze del corpo finiscano per indebolirsi anche nello
spirito, come se pure il loro animo si appesantisse. In
verità non era ancora grasso, nel complesso viveva in modo
sobrio ed era parco nel mangiare e nel bere; ma da alcuni
anni nel suo organismo era sopravvenuto quel decadimento
fisico, quella fiacchezza, che lui vedeva con diffidenza,
anzi con fastidio, e di tanto in tanto per combatterlo si
proponeva di adottare un diverso stile di vita. Non era
arrivato al punto di seguire una delle diete dimagranti alla
moda; cose del genere le riteneva poco dignitose, pensava
fosse roba da donne. Tuttavia si era reso conto che la
questione delle sue condizioni fisiche era per lui causa di
una certa apprensione. Sembrava più vecchio della sua età,
il suo aspetto era quello di un posato signore quarantenne
dalle tempie ormai incanutite, e aveva anche messo su una
notevole pancetta. Di questo parlava talvolta con gli amici
intimi, certo sempre in tono scherzoso. «La pancia è segno
di autorità» solevano dire tra di loro e dal canto suo
capiva di voler comunicare con il suo aspetto fisico quella
autorevolezza che avrebbe in qualche modo controbilanciato
la sua giovane età; nel contegno, nell'eloquio, nello stile
di vita metteva in risalto il suo prestigio di borghese e di
magistrato; ciò nonostante, a voler essere sincero, era
costretto ad ammettere che negli ultimi tempi si era un po'
lasciato andare alla pigrizia.
Questa era una cosa più complessa, e il più delle volte
crucciava profondamente il giudice anziché fargli piacere.
Non trovava nulla di «gioviale» nella sua tendenza a
ingrassare - era giunto un po' in fretta, forse
prematuramente, a tale forma fisica, come peraltro a tutto
in vita sua, alle prime tappe della carriera, agli assilli
familiari, a una quotidianità ormai fossilizzata, persino
all'autorevolezza. Che cosa c'era in fondo a quella fretta?
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Aveva ricevuto la sua educazione in un istituto
religioso, e ne serbava un buon ricordo. Kömives era
un sincero credente, e il suo sentimento religioso
era un'inclinazione personale, non il risultato
dell'educazione. Il padre a modo suo osservava i precetti
religiosi, non mancava di andare in chiesa in occasione
delle feste principali, a Pasqua faceva sempre la comunione,
ma Kristóf non sapeva se andasse a confessarsi regolarmente,
non l'aveva mai sorpreso a dedicarsi di sua spontanea
volontà agli esercizi spirituali, non aveva mai parlato con
i figli di devozione, non si interessava di quell'intima e
complessa sfera della loro crescita spirituale. Una volta
all'anno, il pomeriggio del 31 dicembre, si recava con i
figli nella cattedrale. Si sedevano in uno degli ultimi
banchi della chiesa semibuia, che a quell'ora è sempre
affollata di persone che non mettono piede nella casa di Dio
per un anno intero, e tuttavia quel giorno, quando la
coscienza si sente in dovere di fare un bilancio, sono
spinte in chiesa da timore e sensi di colpa, speranza e
disperazione, spinte verso l'ignoto che ascolta ma non dà
risposte, che prende atto ma non pone domande - e tutte
queste persone, colme di sentimenti dello stesso tipo, in
preda a una sorta di solenne timor panico, se ne stavano
sedute o inginocchiate nei banchi intorno a loro, e Kristóf
sentiva che anche suo padre faceva parte di quei credenti
occasionali. Ci andavano tutti gli anni, vestiti a festa,
in quella chiesa umida e fredda, sedevano muti nel banco, in
ordine rigoroso: alla destra del padre Emma, poi Kristóf e
infine Károly, in divisa, con lo spadino al fianco.
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[...] La vita, proprio in quegli anni, era alla ricerca
di nuove forme; di questo si trattava, e in tale prospettiva
bisognava cercare di comprendere le azioni disperate degli
esseri umani. Tutto era mutato, moda, macchine, idee,
convenzioni, tutto era stato relegato in soffitta, era
diventato vecchio nel giro di qualche anno, era passato di
moda... Ma il compito primario del giudice non era quello
di comprendere; semmai di stabilire, di accertare. La
società esigeva solo questo da lui, né più né meno; dopo
l'immane cataclisma si riparavano i danni e le crepe degli
edifici lesionati, si imbiancavano le facciate, tutti
tornavano a sedersi alle loro scrivanie di un tempo, a poco
a poco si riaprivano i negozi, le ferrovie riprendevano
con cautela a marciare, gli esseri umani si davano da fare
per ingentilire la cornice delle loro esistenze; il giudice
non aveva il diritto di chiedere che cosa mai desiderassero,
in che cosa credessero, quali fossero le loro aspettative -
il giudice si rendeva conto che la società era attaccata
alle antiche convenzioni. Soltanto che ancora non si era
raffreddata la materia rovente, la materia delle forme
esplose; ed era come se il clima di un tempo, tiepido e
temperato, fosse destinato a non spirare mai più sulle
distese del mondo civile... Dall'anima degli esseri umani
sgorgava lava, fumo e pece; si erano ripresi dal terrore
della morte e si erano buttati a caccia di denaro con
fanatica ingordigia; nei primi anni il denaro era tutto,
quelle banconote sgualcite erano il massimo cui si potesse
aspirare; il denaro dominava incontrastato negli affari
pubblici, nelle famiglie, sui sentimenti, sui pensieri - al
contrario di prima, non c'era più una meta, né una misura
dei valori, il denaro era semplicemente un narcotico, e gli
uomini, come i morfinomani, non si accontentavano più e
avevano bisogno di dosi sempre crescenti, mentivano,
imbrogliavano, si comportavano da ipocriti, assassinavano, e
nei cervelli si agitavano stratosferiche chimere, la
traballante struttura scricchiolava in ogni angolo,
contrabbandieri e pubblicani di deliri spacciavano oppio per
la strada - adesso alzati, e giudica, sopra l'individuo,
sopra il caso, mettiti là e giudica!, pensava talvolta.
Forse, se dalla razza degli antichi giudicatori, fosse nato
un grande magistrato, un giudice che fosse al tempo stesso
sacerdote, vate, a cui render conto di ogni azione, una
sorta di Savonarola... Ma non si vedeva traccia di un
Savonarola da alcuna parte. Il giudice non poteva fare più
nulla; tirava fuori gli incartamenti, convocava le parti in
causa e accertava i fatti.
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Poi, all'improwiso: «E tu, Kristóf? » chiese l'anziano
magistrato con voce tagliente; e i suoi occhi, dapprima
simili a quelli di un essere primordiale risvegliatosi da un
pigro sopore, dardeggiarono verso di lui. Il vecchio adesso
era teso come una corda di violino. Quello sguardo, in un
primo momento sonnacchioso e indolente, e subito dopo
violento, sferzante al punto da trasmettere una sensazione
quasi fisica, quello sguardo, del quale pochi riuscivano a
reggere l'improvviso balenare senza provare una scossa,
sconcertò Kristóf. Il magistrato lo guardava dritto negli
occhi, con espressione cordiale e garbata, il busto
lievemente inclinato in avanti, scuotendo appena il capo,
con la debolezza tipica dei signori anziani, eppure
visibilmente irrequieto, con una sorta di caparbietà, di
tenacia mal celata nel corpo decrepito. Da quando si
conoscevano, quella era la prima volta in cui il, venerato e
autorevole collega più anziano pretendeva da Kristóf un
giudizio critico, un parere personale. Tutti coloro che
sedevano intorno al tavolo, nella luce soffusa della
piantana, il giudice, l'ex procuratore di Stato, l'avvocato,
si volsero verso Kristóf, in trepida attesa. Avevano la
vaga sensazione che quello fosse un momento decisivo;
aspettavano che Kristóf manifestasse il suo punto di vista,
attendevano la risposta del collega più giovane, di colui
che era destinato a succedere a tutti loro: avrebbe preso il
loro posto, avrebbe accettato incondizionatamente, senza
compromessi, i loro princìpi? Kristóf si guardò intorno con
aria incerta, alquanto nervoso. Anche lui avvertiva
l'importanza del momento - uno di quelli in cui, d'un
tratto, ci si rivela per quello che si è; poi non succede
niente, la vita continua, il giudice giudica, prosegue nella
sua carriera, amministra la giustizia così come può; ma la
generazione che lo ha preceduto e che sta per ritirarsi,
prima di cedergli il posto, ancora per un attimo lo guarda
dritto in faccia. I suoi occhi si fermarono sul volto del
vecchio giudice, i loro sguardi si toccarono. Kristóf aveva
studiato la materia processuale, era al corrente del
retroscena politico dello scandalo, riusciva a penetrare
e comprendeva quella trama incresciosa, conosceva anche la
parte lesa del processo. Mentre stava per formulare l'unica
risposta possibile, e cercava con cura le parole giuste, udì
con sorpresa la propria voce pronunciare in tono fiacco,
incolore, quasi meccanico: «La sentenza è iniqua». La sua
risposta fu breve e sorda. Il vecchio giudice restò
immobile, non fece alcun cenno, né di approvazione né di
dissenso: guardava Kristóf con espressione attenta e
garbata. Posò con gesto lento il sigaro nel posacenere,
intrecciò le mani sul ventre, si appoggiò allo schienale
della poltrona e socchiuse stancamente gli occhi, come se
stesse per addormentarsi. Kristóf rimase seduto in silenzio
per qualche istante, come in attesa di una replica; ma,
siccome nessuno parlava, si alzò, fece un inchino e si
diresse nell'altra stanza.
Sulla soglia sentì ancora sulla schiena lo sguardo fisso dei
tre uomini.
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Pagina 147
[...] Ho dovuto lasciarla lì, sola con il suo destino.
Prima o poi si è costretti ad abbandonare ogni essere umano
al proprio destino. Allora non sapevo ancora che... Ma
chissà quanto deve suonarti estraneo tutto questo! Forse
ancora non sai... non immagini nemmeno che non si può
aiutare nessuno. Non c'è niente di più difficile che
cercare di aiutare qualcuno. Senti solo che una persona
alla quale tieni molto, che ti è cara, va verso la propria
rovina, agisce contro i propri interessi, disperata o solo
infelice, si tormenta, non si regge più in piedi, non ce la
fa più, sta per crollare... e tu accorri, vorresti aiutarla,
e di colpo ti rendi conto che non è possibile. Sei troppo
debole per farlo? Non sei abbastanza buono? Abbastanza
sincero? Abbastanza altruista, premuroso, umile? Sì, non
lo siamo mai abbastanza... ma nemmeno se tu fossi un
profeta, se dalle tue mani si irradiasse una forza
magnetica, e sapessi parlare tutte le lingue del mondo come
i santi apostoli, neanche questo sarebbe sufficiente... Non
si può essere d'aiuto a nessuno, poiché l'"interesse"
dell'uomo è sempre qualcosa di diverso da ciò che è buono e
sensato. Forse gli umani hanno bisogno di sofferenza. Forse
hanno bisogno di tutto ciò che, in apparenza, è contrario al
loro "interesse". Non c'è segreto più ingarbugliato di
questo: in che cosa consista l'"interesse" di una creatura
umana... Si possono curare i sintomi, posso prescrivere una
pozione contro il mal di testa, ma ciò che gli fa dolere il
capo, quello, non sarò mai capace di coglierlo. È stato
così con mia madre. È stato così con Anna». Riprende a
camminare su e giù per la stanza.
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Pagina 166
[...] Che cosa significa amare una persona? Per molto
tempo ho creduto che significasse conoscerla... conoscerla
alla perfezione, conoscere ogni riflesso dell'altro corpo,
in tutti gli aspetti più segreti, ogni impulso dell'anima...
forse conoscere equivale ad amare. Ma questa è solo una
teoria. In fondo, che vuol dire conoscere? Fino a che
punto si può conoscere qualcuno? Fino a dove si può seguire
un'altra anima? Fino al sogno? E poi? Nella coscienza
degli organi, non posso più seguirla. Non devo nemmeno
aspettare che chiuda gli occhi e si congedi da me,
ritirandosi in quell'altra dimensione, lo spazio della
notte... poiché esistono due mondi, oltre le dimensioni
conosciute nelle quali viviamo; e in quest'altro mondo
viviamo forse in modo più reale di quanto non facciamo nello
spazio e nel tempo... Ormai so bene che c'è un'altra
dimensione, che è soltanto nostra, che appartiene
individualmente a ogni essere umano... Anna è capace di
allontanarsi da me anche in altra maniera. Anche di
giorno. A volte solo con lo sguardo, mentre pranziamo, io
le sto raccontando qualcosa... e di colpo mi accorgo che lei
non c'è più. Allora la richiamo indietro. La richiamo
energicamente. Penso di averne il diritto. Ho tutti i
diritti di pensarlo. Anna ha stretto un patto con me. Non
si possono più dettare condizioni, non si possono negoziare
ulteriori patti. Naturalmente, dormiamo nella stessa stanza
da letto. Sono io a volerlo, non sopporto le camere
separate, io non ho bisogno di avventure, di spazi autonomi
nel matrimonio, quel che serve sono semplicemente due letti
e un comodino, come si vedono ancora nelle vetrine dei
negozi di mobili di periferia. E, se possibile, un drappo
ricamato con parole di benedizione e di augurio appeso alla
parete sopra i letti. E Anna nel letto accanto. E, quando
moriremo, Anna nella tomba accanto.
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