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| << | < | > | >> |Pagina 11Abel, il figlio del medico, era steso sul letto con le membra rigide e contratte. Aveva il corpo madido di sudore e si sentiva la febbre addosso. Fissava il riquadro della finestra, dove le sagome spigolose della strada - un albero, il tetto di un edificio, tre finestre - sfumavano lentamente nella penombra. Dal comignolo della casa di fronte un sottile filo di fumo saliva dritto verso l'alto. A quell'ora, nella stanza dal basso soffitto a volte, l'oscurità del tramonto era più densa di quanto non lo fosse all'aria aperta. Dalla finestra spalancata entrava a ondate il caldo afoso dell'estate incipiente, e i lampioni a gas emanavano una luce verdognola tra i vapori del crepuscolo. Nelle serate primaverili cala talvolta una di queste nebbie invisibili che tinge di verde le luci della strada. La domestica stirava in cucina e cantava. Sul vetro inclinato della finestra balenava un cerchio di fuoco e si udiva crepitare la brace nel ferro da stiro, come quando si strofina al buio uno zolfanello contro un pezzo di legno: era la ragazza che sollevava la scatola di ferro arroventato e la scuoteva per rimescolare la carbonella. Abel giaceva rigido, con lo sguardo vacuo, in preda alla nausea. La banda era andata via già alle tre. Di colpo gli sembrò di essersi appena svegliato da un sogno orribile; fra un istante ogni cosa sarebbe tornata al suo posto, bastava svegliarsi del tutto, uscire, affrontare la vita e diventare qualcuno, mostrandosi garbato e diligente. Abbozzò un sorrisetto forzato. Poi si tirò su lentamente, mentre il suo corpo, un membro dopo l'altro, riacquistava coscienza di sé; quindi rimase lì con le gambe penzoloni, guardandosi intorno con occhi smarriti. Si trascinò giù dal letto a fatica, si accostò al lavabo, cercò a tentoni la brocca dell'acqua nell'oscurità, chinò il capo sulla bacinella, e si bagnò i capelli sudati e la fronte con il liquido caldo e stagnante. Si avviò alla cieca, gocciolante d'acqua, in direzione della porta e individuò l'interruttore con le dita. Andò a sedersi davanti al tavolo e cominciò a strofinarsi distrattamente i capelli con l'asciugamano soffice e spugnoso. La sveglia ticchettava sul comodino. Erano le sette; ormai lo stavano aspettando. Era rimasto sdraiato in quel modo, immobile e rattrappito, per quattro ore. Girò la testa di qua e di là, come uno che abbia una camicia stretta di collo e tenti di alleviare il senso di oppressione infilandosi un dito nel colletto. Inghiottì a vuoto con sforzo. Si accostò al lavabo, si lavò le mani, versò del collutorio in un bicchiere e si sciacquò la bocca. La ragazza, di là dall'uscio della cucina, doveva essersi accorta della luce accesa nella camera dello studente, perché smise di cantare. Abel si sbottonò il colletto e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. Sua zia non sarebbe tornata a casa prima delle otto. In passato, quando era bambino, la zia aveva promesso che un giorno gli avrebbe lasciato il suo patrimonio. A quanto diceva lei, il «patrimonio» era stato riposto in un nascondiglio sicuro, dove «gli agenti di borsa e le spie» non lo avrebbero mai scovato. La zia odiava la borsa, ma non aveva mai spiegato fino in fondo i motivi della sua avversione. Nella fantasia del bambino la borsa era rimasta un antro oscuro dall'ingresso dirupato, dinanzi al quale Alì Babà e i quaranta ladroni si scontravano con un pugno di uomini onesti e coraggiosi che difendevano il loro denaro armati fino ai denti. Nel racconto della zia, ogni volta che accennava al patrimonio, figurava anche il significato infausto della giornata di venerdì. Ne parlava spesso, con aria allusiva, specificando ogni tanto di aver controllato il patrimonio nel «posto sicuro» e di essersi accertata che tutto fosse in ordine; Abel non doveva darsi pensiero del futuro, un giorno il patrimonio sarebbe passato a lui, sicché non avrebbe avuto più nulla di cui preoccuparsi per il resto della sua vita. Un giorno il ragazzo aveva ispezionato di nascosto il «posto sicuro» - una scatola di latta in fondo a un cassetto dell'armadio della zia -, e aveva trovato soltanto vecchi titoli di credito fuori corso, alcune banconote di Kossuth e dei biglietti della lotteria scaduti. Nelle condizioni in cui si trovava, il patrimonio della zia non poteva essergli più di alcun aiuto. Si mise davanti allo specchio e diede una fuggevole occhiata al proprio viso disfatto. Non è detto, pensò, che a questo punto il denaro possa ancora servire a qualcosa. Può darsi che in certi casi il denaro, e tutto ciò che il denaro è in grado di offrirci - libertà, viaggi, lontananza, salute -, non ci aiuti minimamente. Tornò a sedersi davanti al tavolo. Estrasse del tutto il cassetto: i quaderni e i fogli ricoperti fittamente dalla sua grafia erano impilati con grande cura. Sfilò a caso una poesia dal mucchio, la lesse. Si chinò in avanti e la recitò a mezza voce, dimenticando tutto il resto. La poesia parlava di un cane sdraiato al sole. Quando l'aveva scritta? Non ricordava più. in piedi. Non era affatto impressionato, ma profon- damente Stupito. | << | < | > | >> |Pagina 36«In tre occasioni. Mio figlio Ernö non l'ha mai raccontato ai signorini? Forse non voleva vantarsi della purificazione di suo padre, e ha fatto bene, perché è giusto che una persona di umili condizioni rimanga modesta anche qualora i signori, nella loro bontà, lo accettino come un loro pari. Sono riuscito a purificarmi tre volte. Come senz'altro sa, la guerra che Dio, nella sua bontà, ci ha inviato per farci riconoscere i nostri peccati non offre molte occasioni per purificarsi, nonostante l'alto tasso di mortalità. Per esempio, puntare un'arma e colpire qualcuno da una certa distanza non è la stessa cosa che spegnere una vita con le nostre stesse mani, in maniera del tutto diretta, voglio dire. È diverso se afferriamo qualcuno con le mani nude e gli spezziamo l'osso del collo, oppure se laceriamo le carni di un nostro fratello con uno strumento affilato, oppure se usiamo del materiale esplosivo per spedire, a grande distanza, pallottole di piombo in un corpo umano. Le diverse gradazioni hanno molta importanza. Per potersi purificare occorre dare la morte in maniera diretta. Inoltre tutti e tre erano dei signori».«Chi?» domandò il ragazzo. | << | < | > | >> |Pagina 44Aveva cominciato a leggere due anni prima. Leggeva senza distinzione tutto ciò che gli capitava fra le mani. Un giorno scrisse qualcosa. Aveva quindici anni. Quando vide sulla carta ciò che aveva scritto, ebbe paura e nascose il foglio nel cassetto. Il giorno dopo lo tirò fuori e lo lesse. Non era una poesia, ma non gli sembrava neppure un testo in prosa. Si spaventò e lo strappò. Lo spavento gli rimase addosso per diversi giorni. Allora viveva ancora nel «mondo di qua». Non trovò il coraggio di parlarne con nessuno. Che cosa era successo? Perché aveva scritto quelle cose? Che vuol dire se qualcuno prende la penna in mano e si mette a scrivere? E poi si trova davanti alcune righe pronte e rifinite? Perché l'aveva fatto? Scrivevano così anche gli scrittori? Una volta aveva scoperto un libro che qualcuno aveva portato a casa dal fronte. Era un libro russo scritto in caratteri cirillici. Un romanzo. Scritto da un autore ignoto. Ogni volta che ci pensava ne era sconvolto: in Russia vive dunque uno sconosciuto che dal nulla crea come per incanto personaggi, scene e drammi, li fissa sulla carta, così che un'anima attraversa quella distanza immensa e ora lui stringe tutto ciò fra le sue mani. Péter Garren diceva che una volta, in sogno, aveva scritto qualcosa. Chissà se mentiva...Si fermò dinanzi alla vetrina del libraio e rimase con lo sguardo fisso sui volumi, sconsolato. C'era qualcosa nei libri, una specie di mistero, relativo non tanto a ciò che dicevano quanto al motivo per cui erano state scritte quelle pagine. Era un argomento che non riusciva ad affrontare con nessuno. Ogni tanto ci provava con Ernö, ma Ernö parlava sempre di qualcos'altro. Parlava del «contenuto» dei libri. E lui sapeva che si trattava di una questione secondaria. Invece sarebbe stato importante scoprire per quale motivo si scrivevano i libri. Erano una fonte di gioia per colui che fissava sulla carta i propri pensieri? A lui sembrava che fossero piuttosto una fonte di dolore. Quel che metteva nero su bianco si distaccava da lui, non aveva più nulla in comune con la sua persona, si trasformava in un ricordo penoso, simile a quello di un delitto in virtù del quale - un giorno, più avanti - si sarebbe sempre potuto inchiodare il colpevole alla sua responsabilità. | << | < | > | >> |Pagina 68La città dorme adagiata fra le montagne. Le sue tre torri puntano indifferenti verso il cielo. Le case sono fornite di luce elettrica e di acqua corrente. Alla stazione ferroviaria una locomotiva fa manovra ed emette un fischio prolungato. La città è circondata da tre monti le cui rocce contengono un po' di rame e un pizzico di magnesite. Un fiume la attraversa di corsa, un rapido torrente di montagna; l'aria è secca e pungente. Folti boschi si inerpicano lungo i pendii dei monti. Sulla cima che svetta al centro la neve risplende a lungo e gli abitanti ne vanno fieri, poiché essa offre alla città lo sfondo di un paesaggio alpino. Un tram sgangherato conduce dalla stazione alla piazza centrale. La città possiede anche un angolo di mare, quel tanto che basta a far bella figura e a formare un golfo. La gente del posto va fiera anche di questo, ma non sa bene che farsene. Gli edifici sono alti e stretti, pigiati gli uni contro gli altri, perché in passato la città era una fortezza, ed è abitata sin dai tempi più antichi. Il convento dei francescani è dipinto di giallo e i frati ne escono la sera e la mattina, nelle loro tonache marroni, con i calzari ai piedi e il rosario appeso ai finachi cinti da un cordiglio, quando attraversano la strada per recarsi alle funzioni nella chiesa dell'Ordine. Il palazzo del vescovo ha un'ampia balconata in ferro battuto ornata di ghirigori tardobarocchi e sovrastata dall'asta della bandiera. Tutti i giorni, alle tre del pomeriggio, il vescovo esce per fare una passeggiata in compagnia del segretario; il suo cappello a larghe tese emana un luccichio serico ed è provvisto di una piccola nappa che pende sulla nuca. Il vescovo risponde con un inchino a tutte le persone che gli rivolgono un saluto. All'alba è già in piedi, ritto davanti a un ampio leggio a scrivere qualcosa con la sua grafia minuta e tondeggiante. Nella cantina del municipio si mesce un vino freddo come il marmo. Le volte della cantina sono fatte di pesanti blocchi di pietra grezza; da secoli la gente va lì a bere il vino e sulle pareti spiccano ancora le tracce affumicate delle fiaccole. L'aria è permeata dal sentore umido delle botti, da un profumo denso e sottile di alcol e dall'odore delle candele di stearina. È il tempo delle tessere per il pane e del coprifuoco. Convogli ferroviari di lunghezza smisurata attraversano ininterrottamente la città. Passa un treno lungo due o trecento metri, il ferroviere di servizio non alza neanche lo sguardo, ai treni che trasportano feriti se ne alternano altri pieni di soldati che vanno in licenza; questa è una stazione di sosta: le porte dei vagoni vengono lasciate aperte per un'ora e dall'interno si sprigiona l'odore dello iodoformio misto a quello dell'acido fenico, insieme a un'ondata di silenzio profondo. L'odore penetra anche in città ed è particolarmente soffocante nei paraggi della stazione. Grandi secchi colmi di calce si allineano sui marciapiedi; capita che da certi vagoni si debbano estrarre i passeggeri per poi cospargerne di calce i corpi senza vita. | << | < | > | >> |Pagina 96«Fa bene a tacere, Prockauer. Con lei faremo un discorso a parte" Cosa significa questo abbigliamento da buffone? E così che si preparano per gli esami? Mentre i loro padri combattono al fronte, è così che si preparano alla vita?».«Chiedo scusa» disse Abel con fermezza. «Noi non ci stiamo preparando alla vita». Ernö sistemò le due candele sul tavolo, si sedette e invitò gentilmente il monco a prendere posto. «Non dica sciocchezze» tagliò corto. «A che cosa si stanno preparando, se non alla vita?». «Noi non ci prepariamo affatto, signore» ribadì tranquillo Abel. «È proprio questo il punto. Noi cerchiamo di non prepararci. A cosa si prepari la vita, è affar suo. Il nostro compito è completamente diverso». «Completamente diverso» approvò Béla. «Stia zitto, Ruzsák. Uno come lei, che compra caffè con i soldi rubati, fa meglio a star zitto. Qual è dunque il loro compito?». «Il nostro compito» rispose Abel come se recitasse una lezione «è quello di curare il nostro sodalizio. Noi, se permette, siamo la banda. Ciò che fanno lor signori non ci riguarda minimamente. Non siamo responsabili delle loro azioni». «C'è qualcosa di vero in quel che dice» osservò il monco. «Tu hai già la tua parte di responsabilità» ribatté Abel. «Hai acconsentito a partire per la guerra e a farti amputare un braccio. Per causa tua sono morti degli esseri umani. Anche per causa del padre di Ernö sono morti degli esseri umani. Secondo la mia modesta opinione, chiunque abbia acconsentito a cose come queste è responsabile». «Tra poco lor signori verranno tutti chiamati sotto le armi» riprese Ernö in tono impassibile. «Ripeteranno le stesse impertinenze anche allora?». «Ce ne guarderemo bene, naturalmente, e saremo tutti responsabili. Ma fino a quel momento non sono obbligato a tener conto delle leggi e delle regole del loro mondo. Né della lezione di canto da cui mi sto assentando proprio ora con una giustificazíone contraffatta, né del divieto di orinare in pubblico contro il muro del teatro. Né della guerra. Per questo ci troviamo qui». «Capisco» disse Ernò. «E perché si trovano in questo posto?». Rimasero in silenzio. Béla si guardò le unghie. Tibor si arrotolò una sigaretta. | << | < | > | >> |Pagina 148La gelosia reciproca che emanava dagli amici, avvolgendolo con la sua fervida violenza, lo sgomentava e lo irritava. Si sentiva infastidito e incerto. L'amicizia degli altri gli pesava. Pensò con sollievo che la disciplina che li aveva legati fino a quel momento oggi si era spezzata, e quel pensiero gli infondeva un senso di leggerezza e di liberazione. Non sapeva più che farsene di un'amicizia del genere. Era eccessiva, lo paralizzava. L'esaltazione di Abel, la gelosia di Ernö, l'insistenza appiccicosa di Béla, l'aria circospetta dei due fratelli Garren che sembravano spiarlo da lontano, i giochetti e gli atteggiamenti dell'attore - tutto questo era troppo per lui, non se la sentiva più di continuare in quel modo. E con sollievo considerò la possibilità di vivere in caserma entro pochi mesi. Lì non ci sarebbero stati né sua madre, né Lajos, né Abel a chiedergli conto di ogni passo che faceva, non ci sarebbe stato Ernö, il cui sguardo indagatore gli riusciva intollerabile, non avrebbe dovuto vedere Béla, quel damerino da strapazzo. Ne aveva abbastanza. Sospirò alla prospettiva, che ora gli appariva desiderabile, del fronte, di cui non sapeva nulla a parte il fatto che rappresentava la conclusione definitiva di una vita talmente piena di tensione da diventare insopportabile. L'immagine del padre, come fusa nel metallo, comparve dinanzi ai suoi occhi, emergendo da una nebbia primordiale, simile alle statue degli eroi. Era una certezza a cui ci si poteva aggrappare, sebbene il suo terribile peso schiacciasse la vita intorno a sé. La mattina seguente avrebbe parlato con sua madre, forse le avrebbe confessato tutto, a ogni modo voleva pagare Havas e farsi restituire l'argenteria; quindi si sarebbe congedato a cuor leggero da Abel e da Ernö, avrebbe salutato Béla con una pacca sulle spalle, avrebbe evitato di incontrare l'attore e avrebbe affrontato allegramente la vita di caserma, eventualmente anche la guerra, entrando a far parte della grande comunità degli adulti, dove l'angoscia della responsabilità si sarebbe dissolta; non sarebbe più stato l'oggetto idolatrato di un'amicizia che lo metteva in difficoltà poiché non era in grado di contraccambiarla. Tutto sarebbe andato a buon fine e si sarebbe aggiustato in qualche modo; forse sarebbe stato sufficiente pronunciare una parola, perché si liberassero tutti quanti da quell'incantesimo oppressivo e doloroso. Non ci capiva più niente. Il gioco era caotico e indecifrabile. Stavano seduti lì come se attendessero qualcosa. Cos'era successo? Di chi era la colpa?| << | < | |