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| << | < | > | >> |Pagina 13Lo sguardo del dottor Friari fu la prima cosa viva che vidi affiorare. Preceduto da un frusciare di cotone inamidato, appariva davanti a me in un alone azzurro e restava a scrutarmi per lunghi attimi. Ma nel magma fluido della mia vista disturbata non riuscivo a distinguere i contorni del suo volto. Era come se tutto fosse immerso in un liquido denso, che rallentava i movimenti e soffocava i rumori. Seguirono giorni immobili, appena increspati da voci ovattate, da ombre dietro un vetro, da lunghi silenzi tinti di giallo. Cercavo di tenere gli occhi aperti il più a lungo possibile, di strizzarne via 1'appannatura in attesa dello sguardo del dottore. Ma dopo appena qualche sforzo, puntualmente un'acuta fitta di dolore me li faceva chiudere. La sentivo crescere nel profondo delle tempie, ronzare e gonfiarsi come uno sciame d'api prima di abbattersi sulla radice dei miei occhi. A volte un caldo improvviso mi prendeva. Sudavo e sentivo la testa pulsare sotto le bende. Di questo le infermiere dovevano accorgersi, perché subito vedevo apparire accanto a me la bolla vitrea della fleboclisi e qualcosa di freddo mi veniva applicato su un braccio. Lentamente le fitte si diradarono, le cose attorno a me si asciugarono. L'alone azzurro divenne un oblò, i lunghi silenzi tinti di giallo, le notti illuminate dalla veilleuse avvitata in una nicchia sulla parete del corridoio. Ero dunque su una nave. Ne sentivo il rollio leggero. Ma non riuscivo a percepire nessuna sensazione di movimento. Avevo coscienza della mia infermità, ma vedevo e sentivo in un modo distaccato, come se solo una parte di me fosse viva e sensibile e galleggiasse in qualcosa a me estraneo. Come ricordai molto tempo dopo, in quei giorni di lento risveglio, il mio cervello era indifferente alla condizione del corpo, quasi non avesse più la voglia o la forza di preoccuparsene. Ora, prima delle visite del dottore, due infermiere venivano a mettermi seduto accanto all'oblò su una sedia con i braccioli. Avevo notato che erano due crocerossine e seppur confusamente ricordai che c'era una guerra. Immaginai anche che dovevo essere un superstite di qualche operazione bellica. Ma non ricordavo chi ero, né avevo la curiosità di ricordare. Il mio pensiero sembrava scaturire dal nulla e riaffondare nel suolo poroso della mia coscienza che nulla tratteneva. Ripensando in seguito a quella sensazione, quasi la rimpiansi. Per pochissimi, meravigliosi giorni, ero stato insensibile al ricordo, libero dalla memoria, esonerato dal dolore. Ero solo un amalgama di cellule, un organismo primitivo, come quelli che popolavano la terra milioni di anni fa. Dalla sedia vedevo 1'altro lato della cabina, la mia branda, il comodino. E soprattutto, anche se mi costava fatica girare la testa, vedevo il mare fuori dall'oblò. Il passaggio alla sedia doveva essere stato un grande progresso, perché adesso il dottor Friari sorrideva quando veniva a visitarmi. Mi esponeva alla luce e scrutava l'interno dei miei occhi dilatandoli con le dita. Apriva il tavolino pieghevole fissato alla parete, vi stendeva sopra figure di cartone colorato e mi chiedeva di associarle. Era sempre molto soddisfatto delle mie reazioni. Prendeva appunti su un quaderno. All'inizio i nostri incontri si svolgevano in silenzio. Era una danza di movimenti, scandita da gesti di cortesia e affabili cenni del capo. Dopo alcuni giorni, il dottor Friari cominciò a parlarmi. Ma con parole diverse da quelle che usava rivolgendosi alle infermiere, dai suoni più rotondi e corposi, che mettevano un certo tempo prima di dissolversi. Io ancora non avevo coscienza della mia tragedia, non sapevo che il trauma di cui ero stato vittima mi aveva precluso il mondo del linguaggio. La mia mente era una nave cui la tempesta aveva spezzato gli ormeggi. Vedevo 1'approdo scorrere poco lontano da me e credevo che recuperando le forze sarei riuscito a raggiungerlo. Non sapevo invece che il vento della disperazione mi avrebbe spinto sempre più allargo. Non capivo le parole del dottor Friari, né sentivo sorgere in me l'istinto o il desiderio di rispondergli. Ma questo non mi preoccupava. Distrattamente, lo attribuivo alla ferita che avevo subìto, alla stanchezza infinita da cui con lentezza mi riprendevo. In più, pur sradicata da ogni conoscenza oggettiva, galleggiava nella mia mente una confusa nozione di lingua straniera, che alla mia superficiale consapevolezza rendeva plausibile l'incomprensione delle parole del dottore. Come seppi più tardi, fin da quei primi giorni, il dottore mi parlava in finlandese, la sua lingua, che credeva fosse anche la mia. Sperava che le parole soffici e accoglienti della mia lingua madre avrebbero alleviato il mio dolore e contenuto il mio smarrimento, facendomi sentire fra gente amica. Io non cercavo di parlare semplicemente perché non ne provavo il bisogno. Si era spenta in me l'intelligenza linguistica, ogni interesse, ogni curiosità per la parola. Non potevo parlare nessuna lingua, non sapevo più quale fosse stata la mia. Ma non ne ero cosciente. Un velo impercettibile, come un'ipnosi, mi proteggeva dai colori violenti della realtà. | << | < | > | >> |Pagina 24Negli anni in cui la rivoluzione sconvolgeva la Russia, anche la Finlandia fu trascinata nella tempesta. Nei centri industriali gli operai si sollevarono, presero le armi e instaurarono un governo comunista. Il paese si spezzò in due e scoppiò una guerra civile da cui, dopo una dura lotta, uscirono vincitrici le armate bianche del maresciallo Mannerheim. Una volta restaurato l'ordine, si scatenò la repressione e non vi fu perdono per coloro che avevano simpatizzato con la causa bolscevica. Il padre del dottor Friari, professore universitario di convinzioni socialiste, fu arrestato e rinchiuso in un campo di prigionia. Dopo il terribile inverno del 1918, di lui non si seppe più niente. Petri Friari, allora giovane studente di medicina, aveva così abbandonato la Finlandia assieme a sua madre per rifugiarsi ad Amburgo, ospite di lontani parenti tedeschi. Nella città baltica, aveva fatto mille mestieri per sopravvivere e, al prezzo di grandi sacrifici, era riuscito a finire gli studi. Dall'età di ventitré anni, non aveva più rivisto il suo paese. Ma la sua lingua non l'aveva dimenticata. Né la sua gente.| << | < | > | >> |Pagina 28Ero stato raccolto in fin di vita, con la testa fracassata, all'alba del 10 settembre 1943, lungo un molo vicino alla stazione ferroviaria della città di Trieste. Addosso non mi era stato trovato nessun documento, nessun oggetto personale. Tranne i vestiti che indossavo, non possedevo altro. Probabilmente ero stato aggredito e rapinato, colpito alla testa con il tubo di piombo rinvenuto accanto a me e ancora sporco di sangue e capelli. Proprio in quei giorni era giunta nel porto di Trieste dal Nordafrica la nave ospedale Tübingen. Appartenevano a quell'unità i marinai che mi trovarono. Mi caricarono sulla loro scialuppa e mi portarono a bordo, dove fui affidato alle cure del dottor Friari, ufficiale medico della marina tedesca. Lui stesso successivamente mi confessò che il mio grave stato, assieme all'estensione della mia ferita, gli avevano fatto credere che non sarei vissuto ancora per molto. Tanto che non aveva neanche giudicato opportuno operarmi e mi aveva accettato a bordo della Tübingen per pura compassione, per quel nome che portavo cucito sulla casacca. Subito decise però di farmi trasferire dal reparto ,dove erano ricoverati gli altri feriti in stato comatoso e di tenermi sotto controllo in sala rianimazione. Una vasta area della nuca aveva subìto lesioni profonde ed era difficile valutare quanta parte del cervello fosse compromessa. Ma forse il dottore aveva sentito che qualcosa di vivo ancora si muoveva in me. Mi spiegò in seguito che clinicamente nulla mi distingueva dagli altri comatosi. In quel richiamo che lo aveva spinto a dedicarmi le massime cure, lui vedeva un segno del destino. Da uomo di scienza, pratico e concreto, ogni mattina, venendo a visitarmi in sala rianimazione, si aspettava di trovarmi morto. Quando si accorse che invece le mie condizioni miglioravano, pensò a un miracolo e non si allontanò più dal mio capezzale. Il giorno che uscii dal coma, le infermiere mi giurarono di aver sorpreso una lacrima sulle sue guance indurite. Volle seguire personalmente la mia rieducazione. Per questo ogni mattina era lui che mi sottoponeva agli esercizi dei cartoni colorati. Quando si accorse che non potevo parlare, che il trauma aveva distrutto la mia memoria linguistica e la mia capacità di articolare i suoni, in cuor suo aveva sperato la mia morte. Sorpreso per la rapidità con cui il mio cervello recuperava la conoscenza, all'inizio fu incuriosito soprattutto dall'aspetto scientifico del mio trauma. Ma non poté rimanere insensibile alla paura, allo smarrimento di un uomo ucciso per metà, privato del suo passato, del suo nome, della sua lingua, costretto a vivere senza un ricordo, un rimpianto, un sogno. La supposizione che, come lui, anch'io fossi un finlandese, finito per chissà quale motivo in quei mari così lontani, lo spinsero a riservarmi cure che in tempo di guerra è difficile dare a un ferito.| << | < | > | >> |Pagina 54Era nel primo pomeriggio, quando c'era più luce, che il cappellano mi impartiva le sue lezioni. Nella sagrestia c'era freddo e mi si intirizzivano le mani. Ma i canti mi scaldavano il cuore e quando la temperatura diventava proprio insopportabile, il cappellano apriva l'anta di un armadietto dai pomelli di vetro, infilava la mano dietro una pila di messali e tirava fuori una bottiglia contenente un liquido bianco. Imparai che si chiamava koskenkorva e che era molto forte. Quel che aveva di magico quella bottiglietta era che, malgrado le ripetute sorsate, per tutti quei mesi rimase sempre piena a metà, come la prima volta. Era il personale miracolo del cappellano militare Olof Koskela.Quell'antidoto contro il freddo aiutava anche molto il pastore nelle sue divagazioni, quando recitava le poesie di Yrjö Jylhä o quando raccontava le storie della mitologia finnica. I personaggi del Kalevala mi sembravano più veri se sul tavolo c'era la bottiglia del koskenkorva e i nostri due bicchierini di vetro spesso. Allora le gote del cappellano si infiammavano e quell'austero uomo di chiesa si trasformava. Abbandonava i gesti asciutti del prete e il suo corpo acquisiva una mollezza strana, da marionetta. Anche il viso si piegava in smorfie che da sobrio non faceva. Delle parole che usava non posso giudicare, ma sentivo che anche la sua pronuncia cambiava. La lingua e le labbra allentate dall'alcol non riuscivano più a chiudere il tappo delle consonanti, e le vocali colavano a fiotti, appena modulate da soffici colpi di glottide. Sopra le pagine della vecchia grammatica che il pastore mi aveva procurato, venne così a sovrapporsi in trasparenza una mia personale grammatica finlandese, fatta di un materiale eclettico e variopinto che andava dagli inni religiosi alle marce di guerra, dalle favole mitiche alle letture della Bibbia, dalle imprese della battaglia di Suomussalmi alle memorie d'infanzia di Olof Koskela, quando abitava nella città di Vaasa. Il pastore non era un finlandese qualunque. Faceva parte della minoranza svedese che un tempo colonizzò la Finlandia. Aveva anche antenati polacchi ed era forse per questo che vedeva i russi come il fumo negli occhi. Nutriva una profonda diffidenza per tutto quello che veniva da oriente, compreso il vento. "Dire oriente non significa nulla. Nella nostra lingua bisogna specificare. Itä è l'est generico, Kaakko è il punto preciso dove sorge il sole. Se in finlandese abbiamo due parole distinte, è per non dover chiamare con lo stesso nome l'alba e la direzione da cui arrivano le invasioni slave," mi aveva spiegato un giorno. | << | < | > | >> |Pagina 58Una sera dopo la messa il cappellano Koskela mise nella stufa molti più ciocchi di legno di quello che era permesso e ci appoggiò contro i piedi. Mi fece cenno di sedermi sulla panca accanto a lui."Era così che recitavano le loro storie i runoilijat, gli antichi cantori del Kalevala. Uno di fronte all'altro e il koskenkorva in mezzo," cominciò a dire piazzando sulla panca la bottiglia dell'armadietto dai pomelli di vetro. E continuò: "Il canto è bello quando finisce presto, è buono quando ha giusta fine. Meglio arrestarsi per tempo che essere interrotti in pieno canto, dicevano. Tu che vuoi imparare il finlandese questo devi saperlo, perché il finlandese è un unico, incessante canto. Il finlandese è una lingua che andrebbe solo cantata, questa è la sua vera forma, la sua morfologia. Parlarlo è come fare la versione in prosa di un poema. È per i selvaggi che non sanno capire la poesia." Parlava, beveva e si riempiva di nuovo il bicchiere. Lo guardava in trasparenza, tenendolo fra due dita come una fiala preziosa. A volte s'arrestava, mi stringeva un braccio con la mano e avvicinandosi pronunciava qualche frase sottovoce. Sgranando gli occhi, si guardava attorno, come se cercasse di vedere oltre le cose apparenti, come se sentisse i rumori di un mondo a noi precluso che viveva appena qualche millimetro fuori dalla realtà. Io non capivo tutte le sue parole, ma vedevo che il pastore era contento di parlare e questo mi bastava. Rendeva contento anche me. "Come tanti vasi di vetro, le forme contengono il liquido delle parole che altrimenti colerebbe via, disperdendosi nel silenzio. Le forme di una lingua si ripercuotono inevitabilmente su chi la parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le abitudini, il cibo. Uno straniero che impara il finlandese forza i propri tratti somatici, si allontana da sé e corre il rischio di non riconoscersi più. Questo non succede studiando le altre lingue, perché le altre lingue sono solo impalcature provvisorie di significato. Il finlandese no, non è stato inventato. I suoni della nostra lingua erano attorno a noi, nella natura, nel bosco, nella risacca del mare, nel verso degli animali, nel rumore della neve che cade. Noi li abbiamo solo raccolti e pronunciati. Quando Dio ha creato l'uomo, non si è curato di mandarne fin quassù di uomini. E così noi abbiamo dovuto arrangiarci a uscire da soli dalla materia inerme. Noi abbiamo sofferto per diventare vivi. Prima eravamo alberi, laghi, rocce, vento. Diventare uomini da soli non è stato uno scherzo. Il finlandese è una lingua massiccia, un po' bombata sui lati, con sottili tagli al posto degli occhi e così sono fatte le case di Helsinki, i visi della nostra gente. È una lingua dai suoni dolciastri e molli come la carne del pesce persico e della trota che si cuoce nelle sere d'estate in riva ai laghi dal fondale coperto di alghe rosse come le case di legno dei cacciatori, come le bacche che sanguinano d'estate nei cespugli. La Finlandia è un osso di seppia, un grosso sasso concavo nel cui ventre sabbioso gli alberi crescono in fretta come muffe sotto la luce interminabile del nord. Rosicchiata dai ghiacci e sbriciolata in migliaia di isolotti, è questa la figura che fa sulla carta geografica accanto alla polposa Russia e all'ossuta ma robusta Scandinavia. La Finlandia è quel che avanza di qualcosa: togliere gli slavi, gli scandinavi, gli ortodossi, i cattolici, il sale dal mare, le betulle dalle foreste, grattar via qualche centinaio di migliaia di tonnellate di granito e quel che resta è lei, la Finlandia. Se tu sei stato un giorno finlandese, tutto questo prima o poi lo ritroverai dentro di te, perché questa roba non sta nella memoria, non può andare smarrita. Sta nel sangue, nelle viscere. Noi siamo quel che resta di qualcosa di antichissimo, qualcosa che è più grande di noi e non appartiene a questo mondo." Così come aveva incominciato a parlare, il pastore Koskela d'improvviso tacque e si ritrasse nella sua sedia. Il silenzio di tutti i boschi del nord piombò nella chiesa. La stufa mandava rossi bagliori che scolpivano il viso del pastore fuori dal buio. Dietro i vetri degli abbaini, la notte si stringeva scricchiolando come il ghiaccio contro i muri delle case. Sulla panca davanti a me si era nuovamente prodotto il miracolo: la bottiglia del koskenkorva era ancora piena per metà. | << | < | > | >> |Pagina 94[...] Soltanto il pensiero di stringere fra me e quella donna il più vago legame, ora mi faceva mancare il fiato. Come avevo potuto lasciarmi prendere da una tentazione simile? Era sicuramente colpa dell'alcol. Lo stomaco mi si chiudeva sempre più all'idea di ritrovarmi accanto quella sconosciuta che avrebbe preteso da me calore e attenzioni. Avrei dovuto interessarmi a un'altra esistenza e alle sue bassezze, sforzarmi di provare curiosità per una vita a me estranea, spartire la mia angoscia con qualcun altro e accettare di chinare il mio sguardo sulla sua. Soprattutto ascoltare, ascoltare la storia di un altro essere e compatirla, sporgermi sui suoi sentimenti, essere trascinato in dolori non miei che però avrei dovuto consolare, avere ogni giorno quel viso davanti a chiedermi comprensione, aiuto, pietà, a promettermi gioia che non desidero, affetto che mi indispone. Vedere il mio tempo passare dentro il suo, la mia noia nascondersi nella sua, riconoscere il suo odore nei miei vestiti e la sua sagoma lungo la via, dormire nel suo letto e svegliarmi io per primo tutte le mattine, solo nella luce grigia ad aspettare che cominciasse un altro giorno interminabile da trascorrere insieme a lei, da scavare con le mani fuori dal silenzio e da portarmi nel cuore fino a sera, fino al momento in cui il buio sarebbe tornato ad allagare la mia e la sua solitudine. Mi ripugnava. Mi ripugnava la vita e l'ostinazione con cui tutta la gente attorno a me si accaniva a conservarla, rinascendo sotto le macerie, ricostruendo senza sosta quel che le bombe distruggevano, in preda a quell'inestinguibile volontà di rinascere che è la maledizione, la condanna della specie umana. Sentivo che la mia istintiva aspirazione era di attraversare senza sporcarmi la vita che m'era rimasta, con il minimo danno e il minimo coinvolgimento. Perché vita non era più, ma un resto, un avanzo raccolto per strada. Ritrovare il mio passato era impossibile. Cercarmi un futuro era uno sforzo immane. Il dottor Friari aveva ragione: la lingua è madre e dalla madre si viene a questo mondo. Ma io avevo smarrito per sempre entrambe. A me ogni rinascita era preclusa. La cosa più giusta che potevo fare era vivere quel resto di vita come si fuma un resto di sigaretta, con la fretta di finirla, cercando già con 1'occhio dove buttare la cicca. Deciso a non dar seguito a quel pericoloso legame, stavo per andarmene verso il buio dell'Esplanadi, ma Ilma già era accanto a me. Appoggiò il braccio sulla mia casacca blu e io istintivamente lo strinsi.| << | < | > | >> |Pagina 143Non avevo mai pensato che la parola "Raamattu" deriva da "Grammatica". È una di quelle palesi evidenze cui si finisce per non far più caso. Eppure forse questo la dice lunga sul devoto amore per la propria lingua che distingue ogni finlandese. Per noi la lingua è parola di Dio, anche quando in Dio non si crede, e la grammatica è una scienza esatta, fatta di significati commensurabili e retta da teoremi incontestabili. La parola corretta dà armonia al pensiero, gli conferisce la matematica ineluttabilità della musica. Ma ogni epoca suona musiche diverse e accordi un tempo diabolici ora non fanno più paura a nessuno. Non esiste l'armonia eterna: come tutto quello che appartiene a questo mondo, alla lunga anche i suoni si consumano e l'uomo deve inventarne degli altri per riuscire a tenere la testa fuori dal silenzio. Quel che per noi oggi è musica, cento anni fa era rumore. L'errore di ieri oggi è solo un'innocente eccezione. La regola viene sempre dopo la parola: questa è la grande debolezza di ogni grammatica. La regola non è ordine, è soltanto la descrizione di un disordine. Come tutto quel che è proprio dell'uomo, anche la lingua si trasforma e perseguirne la purezza è insensato quanto perseguire la purezza della razza. I linguisti dicono che ogni lingua tende via via a semplificarsi, a esprimere il massimo significato con il minimo ingombro di suoni. È così che le parole più corte sono quelle più antiche, più corrose dal tempo. In finlandese, guerra è sota e queste due sillabe bastano a dire quante ne abbiamo fatte.| << | < | |