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| << | < | > | >> |Pagina 5 [ inizio libro ]Un tremaginocchio. Consumato sullo stipite della grande cucina in un soprassalto di libidine. Tra i barbugli della pentola, dove era stato messo un pollo a lessatura, e i crepitii di rametti ficcati nel fornello per alimentare il fuoco vorace. Rosina, la pettoruta cameriera con le guance pomellate che s'invermigliavano al solo pensiero di un contatto con un uomo, aveva cercato di resistergli. Non tanto però da impedirgli l'alzata delle sottane, il nervoso frugamento tra gli ampi pantaloni di fustagno e l'ansimante trafittura...- Matri quantu è gruossu, signur conti! - esclamò nell'affanno Rosina, aprendo la bocca perché le vocali le uscissero arrotondate e grosse come le sentiva... Il conte diede di sprone. Fino a disarcionare l'anima, che vaporizzò soddisfatta. L'impeto cavalleresco costò un ingrippamento della rotula al conte e l'inturgidimento della pancia a Rosina. Il primo non si riprese mai dal dissesto articolare che gli paralizzò la gamba sinistra. La seconda invece si riprese dopo nove mesi, con la nascita di Totò. Rosina e la contessa Mimì, che aveva sposato Alfredo Liberti per incorniciare con uno sbiadito blasone la ricca dote paterna, un giorno furono viste salire su un'auto carica di bagagli. La comunità amastratina, la cui curiosità eccelleva tra tutte le cromosomiche virtù, venne a sapere che padrona e cameriera si sarebbero assentate per un bel po'. Si disse: la prima per un cambiamento d'aria e certe terapie termali che avrebbero fatto bene alla sua salute, insidiata da una forma di consunzione che la buttava costantemente nell'indolenza; la seconda, invece, per un dovere di servitù alla quale la signora Mimì non avrebbe mai potuto rinunciare. E ciò anche per l'apatico temperamento della signora che mal sopportava persino che le si divincolassero i capelli se ne vedeva alcuni impigliati tra i denti d'osso di corno. Per cui Rosina aveva preso la sana abitudine di grattarle da dietro la chioma, nascondendo furtivamente i ciuffi staccatisi per inaridimento delle radiche. Trascorso il primo mese i buccinanti paesani cominciarono a grattarsi le cotenne irritate dalle zampe di fastidiosi dubbi. Alla maturazione del secondo, furono colti da peristaltici movimenti delle trippe e da veli d'affanno depositati sulle laringi arrossate. Al terzo i polmoni pieni di stupore si dilatarono per insaccare aria, non riuscendo a dare fiato alle parole che morivano loro in bocca prima ancora che venissero liberate... - Ma chi avi 'a contessa Mimì? Possibili tuttu stu tiempu fora? - era la ricorrente domanda che seguiva un sorriso oscillante da un orecchio all'altro. Per evitare eroiche lombaggini a coloro che si esponevano spontaneamente agli spifferi delle malignità, fu lo stesso conte a rivelare al circolo dei nobili che Mimì si stava girando l'Italia insieme a Rosina. Il giro, disse, faceva bene alla moglie. Meno che al suo prostrato portafoglio, aggiunse buttandola in celia. Gli incarogniti giocatori di poker si distrassero. E qualcuno, per una svista, si lasciò scappare dal gorguzzole un barocco sacramento, subito afferrato a volo e sottomesso al tardivo pentimento di un "Dio mi perdoni", sussurrato e suggellato da un furtivo segno di croce tracciato col pollice su labbra tabaccose. Le due donne, comunque, presto sarebbero tornate, aveva rassicurato Alfredo tastandosi il suo quarto di nobiltà dalla parte in cui teneva il portafoglio. Vastianu, marito di Rosina e soprastante nelle campagne del conte, aveva ricevuto una striminzita lettera con svolazzanti e incerte lettere. La moglie gli comunicava che aspettava. Aspettava cosa? Vastianu, dopo alcuni istanti di stralunamento e boccheggiamenti, intuì il significato di quel verbo. Che non a caso era stato lasciato in sospeso. In bilico sul ciglio dell'equivoco, con quelle due T che si muovevano come le gambette di un neonato. In siciliano l'allusione era a una futura nascita. A un figlio ancora ripiegato nel bozzolo materno e pronto a uscirne come i vitelli che lui aveva estratto dalle placente delle mugolanti madri. - Minchia! Cu fu? - disse Vastianu con le narici dilatate dal vapore della collera. | << | < | > | >> |Pagina 28Caterina era la prolissità di se stessa. Fin da giovanissima si era scoperta una vocazione alla quale aveva mantenuto fede per non smentire il viso ispirato. Di notte si metteva a fissare il soffitto. Sempre dopo la rimboccatura delle coperte. E le preghiere. Il cui calore scaturiva più dal contatto con la borsa dell'acqua calda stretta al petto che dal cuore. Invocava a labbra strette l'assistenza di un gruppetto di santi affidabili perché si mantenesse pura, ma sognava contatti voluttuosi che la facevano smaniare. Non si sa se per piacere o per disgusto. Guardava gli uomini di sottecchi e poi li odiava accorgendosi della loro indifferenza. Quando era giovane, nelle serali passeggiate al Corso, gli infoiati sguardi dei coetanei viravano sempre sulle amiche. Aveva notato occhi che spogliavano. Meno che lei. Per rispetto, si lusingava. Perché nessuno se la sarebbe mai immaginata nuda, era la verità. Le sue giornate ormai erano piene dei rimasugli di quelle precedenti. E le ore che attraversavano il suo cammino per le stanze erano frontiere astratte. La sua esistenza oscillava nell'intervallo tra quello che aveva sempre sognato di essere e quello che la vita le aveva riservato. E il tempo passato era un soffio che le faceva aggricciare la pelle dopo il risveglio. Tanti anni erano trascorsi. Troppi. I tessuti avevano ceduto. La cellulite era scesa alle caviglie. E pure i conti erano scivolati verso il basso. Ormai avrebbe potuto farli la serva. I numeri che aveva manipolato avevano perso fibra e tono. La muraglia d'ignoranza di cui s'era circondata, vantandosi di non avere mai letto un romanzo per mancanza di tempo, era il suo orgoglio di persona non intaccata dalla malizia.Da anni covava la remota speranza di mettere a dormire la testa agitata dalla falsa nostalgia di baci che non ricordava. E che non avrebbe potuto se la memoria, che lei a ragione o per finta dava per persa, fosse stata a regime. Caterina non aveva gioie da rimpiangere né speranze deluse. Evitava solo la peggiore delle nostalgie: quella di ciò che non si è fatto. Ma il maggiore tormento le proveniva dall'incapacità di piegare l'orgoglio con l'autorità dell'esperienza. Spesso e volentieri si disponeva davanti allo specchio non per rimirarsi, ma per vedere e studiare le reazioni del rivale. Era un perenne duello d'inganni che dava tono a un'esistenza vuota. Insomma, giocava con la ruota smerigliata dell'illusione e del suo opposto. Ogni qualvolta le capitava di sondare se stessa finiva spesso per lasciare cadere la sonda nel fondo. Diceva con amaro umorismo, soprattutto per farne sentire il peso al fratello Alfredo, che tutta la sua vita era stata una ricevuta da firmare. E non aveva torto. Perché fin da giovanissima, prima ancora che conseguisse il diploma di ragioniera a Palermo, era stata dietro alla contabilità della famiglia con l'aiuto del vecchio e fidato Rocco. Fino a che non era stata pronta a prenderne le redini. Era lei che teneva i conti. Che preparava gli smunti bilanci, conoscendo tutti i trucchi per imboscare i guadagni e mettere in evidenza le perdite. Il fisco per lei non era una voce passiva. E neanche una rogna. Non esisteva e basta. Era semmai la storpiata eco di quei lazzaroni di Roma che pretendevano chissà cosa, fottendosene della Sicilia e dei siciliani. Era lei che pagava e riscuoteva. Che metteva firme su firme. Non c'era quindi da meravigliarsi se uno sbadiglio costituisse uno sforzo. Occupata com'era con carte e contanti, per forza doveva avere i muscoli facciali tirati e alla fine della giornata indolenziti. Considerava il fratello Filippo un minchione al quale bisognava dire sempre di sì. Le sue prodezze filosofiche erano gli sfoghi di una mente capricciosa. O meglio ancora: semplici spurghi. Proprio come le chiazze di sangue vecchio raggrumato sui dorsi e sulla testa. Comunque, ammetteva che il fratello era una persona inoffensiva. Nei confronti di Alfredo aveva una tenerezza quasi morbosa. Forse perché con lui aveva esercitato un po' il ruolo di madre. Il che le aveva lasciato un residuo di quel senso di protezione che si ha verso il fratello più piccolo. Che non aveva preso alcunché da lei e da don Filippo. Alfredo era diverso dagli altri campioni della famiglia Liberti. E il fatto che ora si fosse intromessa un'estranea come Mimì, che tirava dalla sua parte il marito, la indispettiva. Anzi la caricava d'odio verso la cognata, con la quale però era cortese. Forse anche troppo. E come si sa la cortesia portata al massimo è la più alta espressione di disprezzo. Questa sfumatura non era certo sfuggita a Mimì, il cui affetto entrò in agonia dopo pochi giorni che mise piede nel palazzo. L'acidità di carattere di Caterina era dovuta al fatto di non essere consumata né dai ricordi né dai rimorsi. Questo vuoto la riempiva d'umore nero. Che ne intristiva le linee del viso. L'ingresso di Mimì costituì un utile pretesto per Caterina, il cui rancore aveva finalmente davanti a sé un profilo contro il quale scaricare il cumulo di liquidi corrosivi che le avevano tolto l'appetito. La partenza fu accolta con profondi sospiri. Per Caterina era una liberazione. Non meno per la cognata. Entrambe comunque sorridenti e affettuose come non mai al momento del commiato. - Fai buon viaggio Mimì,- disse Caterina con un retropensiero che era l'opposto del pensiero espresso. | << | < | > | >> |Pagina 53- Haiu 'nu gran desideriu di musica... - attaccò Mimì in dialetto, sorprendendo Alfredo con quell'esordio piuttosto insolito per una educata in collegio a dominare le proprie passioni e a esprimersi nell'italico idioma.Le suore, dove Mimì aveva avuto l'opportunità di modellare la sua formazione, sapevano come piegare e forgiare anche le menti meno duttili. Per evitare che le allieve fuori dalle aule cedessero alla tentazione del vernacolo, magari dietro la spinta di schietti moti dell'animo che trovavano nel dialetto i colori più adatti, era stato adottato un metodo subdolo: la mattina la superiora consegnava a una ragazza una moneta, che doveva essere ceduta alla prima che si lasciasse scappare una frase o un'esclamazione in siciliano. Tenersela, per evitare di denunciare l'infrazione della compagna, significava esporsi al rischio di giocarsi la fiducia. E al limite di essere anche cacciate dall'istituto per essere venute meno all'obbedienza. Quelle facce bianche e rigide, intonate all'ornamentale soggolo che nascondeva colli da tacchino sussultanti per deglutizioni di gioie metafisiche, erano maestre di diabolici trucchi. Le alunne, infatti, erano preavvisate che tra loro ci sarebbe stata sempre qualcuna incaricata d'infrangere a bella posta il divieto e riferire poi se avesse ricevuto o meno la moneta. Quanto la circostanza fosse attendibile nessuno poteva dirlo. Fatto sta che una volta buttato con malignità il seme del sospetto in quel rigoglioso terreno che è l'adolescenza, la diffidenza esplodeva in tutta la sua esuberanza. Proprio come l'erba cattiva. Strano a dirsi, ma quelle suore avevano uno stretto bisogno della cattiveria come strumento necessario per raggiungere il bene. Paradossalmente il vituperato male, nelle mani di quelle velate donne che dell'intonsa verginità avevano fatto virtù, si metteva al servizio del suo eterno nemico. Tutto ciò non significava che Mimì, al pari delle sue colleghe, rinunciasse del tutto al dialetto. Se ricorreva a quella lingua, piena di spine come i fichidindia e dura nelle sonorità come la pietra lavica dell'Etna, lo faceva per diletto. Almeno all'inizio. Finché non ne scoprì la segreta forza di seduzione. E allora nei momenti di baldoria con le amiche si abbandonava all'ebbrezza del dialetto. Spesso era una sbornia collettiva di frasi anche grevi che mandavano in estasi quelle menti modellate secondo regole rigidissime. Le aule del collegio erano laminatoi dove si affinavano i sentimenti con la parola, il discorso, il ragionamento. Per cui le incursioni tra i mucchi di materiale grezzo, che le ragazze custodivano di nascosto, erano violazioni che destavano piacere. Suor Immacolata, insegnante d'italiano e di bon ton, con quel suo viso grinzoso e con una tinta di cera rancida frutto del fumo delle candele davanti alle quali faceva ardere mattina e sera la sua fede appunto immacolata, avrebbe corso il pericolo che le sgusciassero fuori dalle orbite le palle degli occhi se solo avesse assistito per pochi attimi a uno di quei folleggiamenti. L'intransigente e acidula insegnante, che s'era guadagnata il nome di Suor Maculata, per dire che era un animale pezzato e cioè pieno di macchie, pretendeva dalle sue alunne la massima attenzione anche nella dizione. E ciò per ammorbidire la durezza dialettale nel raddoppio delle t, delle d o nell'oscena apertura delle vocali. A parte la u, che per suor Immacolata aveva il timbro dell'ululato e il cui uso non era dissimile dal largo impiego delle melanzane nella cucina dell'isola: stava dappertutto. Insomma, la fonetica era altrettanto importante quanto la grammatica e il glossario. Parlare, soprattutto nei primi tempi, era per le ragazze un vero incubo. Se interrogate non solo dovevano sforzare la memoria, ma badare pure a come muovere la lingua. A come posizionarla nel palato. Un vero tormento. Mimì appena entrata in collegio se ne lamentò con i genitori nel corso di una delle visite che ogni tanto le facevano. Con conseguente surriscaldamento del sangue ed ebollizione della collera paterna che fece saltare il coperchio delle buone convenienze:
- Ma che minchia rici! Iu mi sfunnu 'u culu ne' cave e tu? Cicicì, cicicì... -
il padre aveva perso la tramontana.
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