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| << | < | > | >> |IndiceAvvertenza 7 Introduzione 9 di Marco Bascetta LA FINE DELL'UTOPIA Relazione di Marcuse 21 Dibattito 29 IL PROBLEMA DELLA VIOLENZA NELL'OPPOSIZIONE (relazione di Marcuse) Obiettivi, forme e prospettive dell'opposizione studentesca 55 Dibattito 69 MORALE POLITICA NELLA SOCIETÀ OPULENTA Dibattito 97 VIETNAM. IL TERZO MONDO E L'OPPOSIZIONE NELLE METROPOLI Dibattito 133 |
| << | < | > | >> |Pagina 9L'esperienza può essere considerata da due punti di vista diversi, anzi del tutto antitetici. L'uno, per così dire conservatore, poggia su un pessimismo antropologico di fondo e di fronte a ogni prospettiva di cambiamento radicale pronuncia la sua fosca previsione: «sappiamo già come andrà a finire, la strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni». L'esperienza agisce insomma come un principio di prudenza, un limite di velocità, una doverosa diffidenza verso il nuovo. Tutt'al contrario esperienza può invece indicare la volontà di sperimentare, il bisogno di mettere idee e ipotesi a confronto con il proprio vissuto, il desiderio di passare al vaglio il vecchio sapere con un nuovo sapere. In questo caso alla certezza dell'«avere esperienza» subentra l'azzardo del «fare esperienza», al vissuto delle vecchie generazioni, il cantiere esistenziale delle nuove. Se non ci si lascia trarre in inganno dal fatto che le sembianze del nuovo celano sovente un ritorno al passato e che l'innovazione rivesta talvolta panni antichi, come le toghe repubblicane indossate dai rivoluzionari del 1789 o i berretti bolscevichi calcati sulle teste degli studenti del 1968, allora si potrà constatare agevolmente come le diverse stagioni politiche e sociali siano state dominate a fasi alterne dall'una o dall'altra idea di esperienza. In quella attuale prevale una visione dell'esperienza come messa in guardia dal cambiamento, entro una prospettiva che privilegia la difesa dello stato di cose esistente da tutto ciò che potrebbe minacciarlo. L'esperienza ci avrebbe insomma insegnato che non può esservi al mondo niente di più perfetto del libero mercato e della democrazia reale e che qualsiasi tentativo di superare, o anche solo di correggere sostanzialmente, queste due forme condurrebbe all'ennesima catastrofe. Vista la storia che abbiamo vissuto non possiamo che ragionevolmente augurarci la «fine della storia». La seconda metà degli anni '60 e quasi tutto il decennio successivo, sono stati invece dominati, in buona parte del pianeta, dalla seconda modalità dell'esperienza, quella che abbiamo designato come l'azzardo del «fare esperienza», dal tentativo, caparbio e generoso ad un tempo, di segnare una soluzione di continuità, nei modi di vita e di produzione, di prendere commiato da tradizioni e abitudini consolidate. Questo volume, che raccoglie tutti i materiali della discussione tra Herbert Marcuse, gli studenti del movimento tedesco e alcuni professori della 'Freie Universitàt', la Libera Università di Berlino ovest, svoltasi nel luglio del 1967, costituisce una straordinaria testimonianza dello spirito sperimentale che animò quella stagione, dell'enormità degli interrogativi che si ponevano, del campo, pressoché illimitato, che la critica sociale andava dissodando. Nulla poteva più essere ritenuto «indiscutibile», pacifico; ogni struttura, per potente e stabile che fosse, ogni abitudine, anche la più apparentemente innocua e radicata, doveva dar conto del proprio senso, del proprio contenuto di repressione, dell'infelicità che, in una forma o nell'altra, generava. Ogni regola sarebbe stata messa a confronto con il vissuto dei soggetti e sottoposta a una critica che risaliva, per così dire, alle sue spalle, disattendendola e misurandola con le comuni qualità, i bisogni e le caratteristiche specifiche dell'animale umano. Nella relazione introduttiva a quell'incontro, Herbert Marcuse poneva nientemeno che la necessità di una «nuova antropologia concepita non solo come teoria ma anche come modo di vita, il sorgere e lo svilupparsi di vitali bisogni di libertà (...) una libertà capace di esprimere lo sviluppo di bisogni umani qualitativamente nuovi e quindi le esigenze del fattore biologico (giacché si tratta di bisogni che vanno considerati in termini strettamente biologici)». Bisogni nuovi, dunque, ma anche, in quanto propri della specie umana, anteriori e sovraordinati al «disagio della civiltà» e alla società repressiva. E tuttavia, a loro volta, storicamente determinati e storicamente trasformabili dall'azione dei soggetti. Il «fattore biologico» veniva così reintrodotto nella storia di cui sembrava dover costituire l'Altro e il limite, ma conservando, contraddittoriamente, i caratteri di un principio critico e la funzione di motore di un'altra storia possibile. Tra natura umana e storia sociale la «nuova antropologia» procedeva, tuttavia, con non poche difficoltà nel definire i bisogni vitali destinati a entrare in rotta di collisione con quei «bisogni repressivi» che la società capitalistica produce nei singoli e attraverso i quali i singoli riproducono la società repressiva. Nel corso del dibattito qualcuno richiamò, sensatamente, l'attenzione di Marcuse sulla difficoltà di definire come bisogni materiali, o addirittura biologici, i desideri di pace, felicità, libertà, creatività. Cosa c'era in comune tra il bisogno di nutrirsi e il rifiuto della guerra vietnamita? Ma il punto era, per Marcuse, dimostrare che le forze e gli elementi per una trasformazione radicale della società, per il grande salto di qualità dalla preistoria alla storia erano già interamente dati, nello sviluppo delle forze produttive così come nelle «qualità erotico-estetiche», naturali e storiche ad un tempo, dei soggetti. Questo significava appunto la «fine dell'utopia»: non la rinuncia a immaginare la radicale trasformazione dei rapporti sociali, non la resa di fronte all'esperienza dei fallimenti, ma la consapevolezza che le condizioni per eliminare miseria e repressione, per la resa dei conti tra il principio di prestazione (Leistugsprinzip) e il principio del piacere (Lustprinzip), erano ormai maturate. L'utopia cessava dunque di essere tale in quanto potenzialità concretamente e pienamente inscritta nella costellazione del presente. È nello sviluppo della scienza, della tecnologia e dell'automazione che Marcuse vedeva le condizioni di questa maturazione. Uno sviluppo che, sostituendo progressivamente il lavoro mentale a quello fisico e disponendo di una enorme forza produttiva con un impiego decrescente di lavoro umano, avrebbe reso sempre più arbitrario, ingiustificato, repressivo, e dunque insostenibile, lo sfruttamento capitalistico e il suo apparato di potere. Tuttavia, a contrastare questa tendenza, l'assetto capitalistico metteva in campo una formidabile capacità di integrazione che, attraverso la creazione di bisogni fittizi, di consumo, di protezione repressiva, di conservazione, di sicurezza, legava a sé la maggioranza della popolazione, riuscendo addirittura a mettere fuori gioco, corrompendolo, il principale soggetto dei processi rivoluzionari della prima metà del secolo e cioè la classe operaia. La politica di opposizione, veicolata nelle metropoli occidentali, da soggetti minoritari e marginali, avrebbe dovuto prendere le mosse proprio dalla «negazione determinata» di questi «bisogni repressivi» per affermare nuovi bisogni di libertà. Le giovani generazioni si sarebbero trovate in prima linea nel condurre questa battaglia, condividendo con le classi subalterne di un tempo, il fatto di non aver partecipato alla formulazione delle regole cui avrebbero dovuto sottostare, e sviluppando, in conseguenza, una forte propensione a metterle in questione. Proprio in Germania, poi, la frattura generazionale si presentava abissale e drammatica. È su questo preciso tema, sulla costruzione concreta di una politica d'opposizione, nel contesto della società tecnologicamente avanzata, che Marcuse cercava il confronto con gli studenti berlinesi. A partire dall'esperienza americana, il filosofo offriva una risposta da far tremare alla domanda su quale fosse il bersaglio di questa opposizione. «La domanda – rispondeva – deve essere presa molto sul serio, perché si tratta di un'opposizione contro una società democratica e ben funzionante che, almeno normalmente, non si basa sul terrore. Inoltre questa opposizione lotta contro la maggioranza della popolazione, inclusa la classe operaia, contro tutta la cosiddetta way of life del sistema». Non si contrapponeva, dunque una buona società civile a un governo malvagio, all'interesse egoistico dei «poteri forti» (tentazione cui non hanno saputo sottrarsi i movimenti altermondialisti dei giorni nostri), si chiedeva invece a una minoranza intellettualizzata, ma chiamata a occupare un ruolo sempre più determinante nella produzione di ricchezza e agli esclusi, messi fuori gioco dalle regole della competizione capitalistica, di allargare le crepe che attraversavano l'ordine dominante, (accentuate dal volto brutale che le democrazie occidentali, e gli Usa in primo luogo, erano costrette a mostrare nel terzo mondo), di trasformare il disagio esistenziale e la ruvida aridità dei rapporti sociali in critica politica, di lavorare, insomma, sul piano simbolico, così come su quello empirico della sperimentazione di diverse forme di vita, a un rovesciamento del senso comune. In questa opposizione contro la maggioranza della popolazione (ogni opposizione, in fondo, si batte contro una maggioranza) era implicita una critica radicale della democrazia, non del suo concetto, ma della sua sostanziale incompiutezza. Democrazia intesa non semplicemente come una delle tre forme di governo della filosofia politica classica, ma come un campo conflittuale in cui si intrecciavano consenso e coercizione, benessere e disagio, violenza e seduzione. Nel ripercorrere i termini di quella discussione il riconoscimento di folgoranti anticipazioni si accompagna alla inevitabile registrazione di una siderale distanza. L'idea che l'automazione completa avrebbe minato le basi stesse del capitalismo, ci si rivela oggi in tutta la sua generosa ingenuità. Che la tecnologia avrebbe consentito di trasformare il lavoro in gioco, una volta scardinato, attraverso il rischiaramento delle coscienze, il dispositivo di riproduzione dei «bisogni repressivi», stride aspramente con un mondo, quello in cui oggi viviamo, che ha trasformato il gioco, la stessa libertà creativa dei soggetti, in lavoro, competizione, impresa assoggettata alla accumulazione del profitto. Marcuse, e con lui gli studenti berlinesi, vedevano nella manipolazione della coscienze e nella corruzione degli interessi gli strumenti attraverso i quali l'ordine capitalistico riproduceva surrettiziamente la sua propria necessità, fin nell'interiorità del soggetto. Non potevano immaginare come e quanto lo stesso principio del piacere e gli stessi bisogni di libertà potessero essere messi al lavoro, trasformati in fattori di produzione, moltiplicatori del profitto e infine in meccanismi di nuova dipendenza. Da quei presupposti discendeva dunque una visione fortemente illuministica della lotta politica. «Io considero – affermava Marcuse nel corso del dibattito – lo sviluppo della coscienza o, se preferite, il lavoro necessario per ottenerlo, insomma questa particolare deviazione idealistica, come uno dei compiti principali del materialismo, del materialismo rivoluzionario.» Sulla stessa lunghezza d'onda si muovevano gli studenti berlinesi dell'Sds, guidati da Rudi Dutschke, impegnati a tutto campo contro la manipolazione dell'informazione e il bombardamento ideologico, soprattutto ad opera del gruppo editoriale di Axel Springer, che controllava, all'epoca, il 70 per cento della stampa berlinese, il 31 per cento dei quotidiani nella Rft e l'80 per cento dei fogli domenicali, e aveva condotto una furibonda campagna contro gli studenti, le culture giovanili e la sinistra in generale. È proprio su questo terreno, prima ancora che si parlasse di fabbriche, di quartieri, di immigrati, che gli studenti rivoluzionari immaginavano l'uscita dall'ambito specifico dell'Università per confrontarsi con un problema generale della società, e cioè con quella stessa riproduzione ideologica dei «bisogni repressivi» che Marcuse indicava come il dispositivo più potente dell'integrazione capitalistica. Seppur del tutto minoritaria, la lotta degli studenti contro l'industria della menzogna culturale, avrebbe contribuito col tempo ad aprire l'orizzonte e a smuovere le acque stagnanti di un senso comune profondamente conservatore. Tuttavia, sebbene oggi le maglie della censura, soprattutto sul piano del costume, siano infinitamente più larghe di 40 anni fa, la produzione dei «bisogni repressivi» ha ripreso poderosamente terreno. E lo ha ripreso nella forma di quelle politiche securitarie, dilaganti per ogni dove, che, attraverso una manipolazione non meno sfrontata di un tempo dell'informazione, alimentano una generale sensazione di minaccia volta a favorire, nell'opinione pubblica, una progressiva rinuncia, o comunque un significativo ridimensionamento di quelli che Marcuse aveva battezzato «bisogni di libertà». Meccanismo di integrazione (in primo luogo dei partiti della sinistra e di chi li ascolta) e di esclusione (di ogni forma di devianza culturale e sociale) ad un tempo: produzione, da un lato, di norme comportamentali uniformi e, dall'altro, di dispositivi repressivi sempre più capillari. Come Marcuse aveva pronosticato nella conferenza del '67, di fronte all'indebolimento del bisogno di libertà, le potenzialità tecniche si traducono in dispositivi sempre più raffinati e ineludibili di controllo e di repressione. Il tentativo di espellere il conflitto, quando non anche il semplice attrito, dalla vita sociale, attraverso una mostruosa proliferazione di regole e divieti, sembra voler saldare i conti proprio con le aperture degli anni '60 e '70, catalogate oggi sotto l'infamante etichetta di «permissivismo». «La violenza istituzionalizzata – scriveva Marcuse – è in grado di fissare discrezionalmente i propri confini e di restringere fino ad un minimo soffocante quelli della legalità, utilizzando leggi riguardanti ad esempio il diritto di stazionare su terreni privati o sul suolo pubblico, le interruzioni del traffico o il disturbo della quiete notturna, ecc. Grazie a questi espedienti, ciò che ieri era legale può diventare illegale da un momento all'altro». Come non riconoscere in questi vecchi «espedienti» le attualissime politiche di ordine pubblico e di «decoro urbano», oggi così in voga tra i sindaci italiani di tutti gli schieramenti politici? E come negarsi, allora, nella Berlino del 1968, così come nelle nostre città 40 anni dopo, un diritto di resistenza, contro lo spregiudicato opportunismo di un diritto «invasivo» e l'arbitraria moltiplicazione delle sue fonti? Il discorso marcusiano sullo scontro tra i «bisogni repressivi» e i «bisogni di libertà», ci si ripropone oggi nella partita senza esclusione di colpi tra normazione e autonomia, tra la potenzialità tendenzialmente indipendente e autodeterminata delle nuove forme di produzione e la volontà di metterle sotto controllo, attraverso i flussi del reddito e i diritti proprietari. Tutta la discussione berlinese era ampiamente attraversata dal tema della violenza e, a ripercorrerla, balza immediatamente agli occhi quanto poco il movimento di quegli anni lo prendesse alla leggera. Con violenza, da parte del movimento, si intendeva essenzialmente infrazione della legalità e disobbedienza civile, l'affermazione di un diritto di resistenza contro l'arbitrio del potere esercitato attraverso il diritto positivo, non senza un richiamo diretto alle versioni rivoluzionarie del diritto naturale. Sul versante del «sistema» si denunciava invece la possibilità, sempre presente, che, di fronte a questa o quella emergenza, alla violenza latente e impercepita della manipolazione si sostituisse l'esercizio fisico di una violenza pienamente dispiegata o che, attraverso un progressivo restringimento dei diritti democratici, alimentato dallo sviluppo dei «bisogni repressivi», potesse svilupparsi una qualche forma di nuovo fascismo. Dalla discussione sulla violenza, discendevano poi una quantità di problemi correlati, ampiamente dibattuti nel movimento: come impedire che lo scontro con l'avversario degenerasse in crudeltà e terrore; se la radicalizzazione della lotta non rischiasse di favorire la stabilità del potere, spaventando la maggioranza dei cittadini; se giudicare o meno una forma di violenza l'indottrinamento mediatico delle masse, (gli studenti tedeschi avrebbero considerato i giornali di Axel Springer come i mandanti diretti dell'attentato contro Rudi Dutschke nell'aprile del 1968), ecc. Ma il punto decisivo in tutta quella discussione era questo: la violenza vi veniva razionalmente concepita come una relazione, un rapporto che metteva in gioco, entro un determinato contesto, la qualità morale e la natura di entrambi i contendenti. Si trattava dunque di un problema che, di volta in volta, doveva essere affrontato e in qualche modo risolto. Questa lucidità è andata oggi completamente perduta, il tema è stato escluso dal discorso pubblico o confinato nella vuota retorica d'ordine della classe dirigente. Tanto che, nelle banlieues parigine per esempio, la violenza delle rivolte, viene imputata a una pura e semplice inclinazione irrazionale alla distruzione e all'autodistruzione. E, in generale, della violenza, (estesa, nel frattempo agli episodi più insignificanti come una scritta murale o una bordata di fischi) si disquisisce come di una propensione individuale al male, o tutt'al più una cattiva ideologia ereditata dal passato. Il resto è tabù. In quell'estate del '67, su ogni discussione e argomentazione politica, su qualsiasi prospettiva di movimento e analisi delle tendenze nel mondo, non poteva non incombere la guerra vietnamita. Era laggiù, nel sudest asiatico che, raccogliendo l'eredità del colonialismo francese, la più potente democrazia del pianeta rivelava la sua natura aggressiva e violenta. Sotto il sole dei tropici il suadente potere di convinzione dei media e delle comodità domestiche, lasciava il campo a quello del napalm. Tanto stridenti apparivano quegli orrori con la buona coscienza della democrazia americana del dopoguerra, da metterla radicalmente in questione. E, per quanto potentemente potesse agire il sentimento anticomunista, avendo come interlocutore una classe politica corrotta e senza scrupoli, come quella dei Diem e dei Van Thieu, Washington non poteva certo mettere in scena l'«esportazione della democrazia». L'escalation del conflitto aveva portato con sé una crescita parallela della protesta e della rivolta etica contro le ragioni e le modalità di quella guerra nei campus universitari e nell'opinione pubblica liberal, sebbene Marcuse non si stancasse mai di ribadire che la maggioranza degli americani appoggiava la guerra e molti di quelli che la criticavano, se la prendevano esclusivamente con la sua conduzione sconsiderata e la crescita eccessiva dei suoi costi. Dallo sfruttamento del terzo mondo, garantito da un'alleanza con i ceti privilegiati tradizionali, o cresciuti durante l'occupazione coloniale, – così recitava l'analisi dell'opposizione radicale – il capitalismo occidentale traeva le risorse per corrompere e integrare l'avversario di classe, rendendolo così suo complice. Tuttavia l'intensità dello sfruttamento dei paesi poveri e la necessità di perpetuarlo con mezzi sempre più brutali avrebbe alla fine minato la base di consenso del sistema e reso evidenti i dispositivi di repressione e condizionamento della vita di tutti, celati dietro la facciata della democrazia. In questo senso l'opposizione radicale, in America così come in Germania, si poneva come alleato delle lotte di liberazione e interprete privilegiato di entrambi i lati dello sfruttamento capitalistico e dei nessi che li collegavano, quello oscuro dei colpi di stato e dei bombardamenti e quello luminoso dei consumi e del soddisfatto conformismo della maggioranza. Tuttavia questo rapporto con il terzo mondo, nel ragionamento di Marcuse e nelle domande degli studenti berlinesi, appare tutt'altro che ingenuo e trionfalistico. Ci si rendeva ben conto della difficoltà di conciliare le aspirazioni della lotta di liberazione vietnamita con i nuovi bisogni vitali delle metropoli, l'antiautoritarismo e il rifiuto dell'organizzazione di fabbrica in occidente con la disciplina industriale perseguita in Nordvietnam. Che le lotte di liberazione avrebbero potuto generare realtà sociali tutt'altro che idilliache non veniva affatto escluso dal novero delle possibilità. Nel clima della guerra fredda, gli Usa giustificavano il conflitto indocinese con il cosiddetto «effetto domino» e cioè con il rischio che, una volta caduta Saigon, tutti gli altri paesi del sudest asiatico finissero col cadere come birilli nelle grinfie del blocco comunista. L'argomento dell'espansione comunista aveva una sua forza, ma certo non poteva costituire una minaccia diretta allo stile di vita dei cittadini americani. Il bisogno di una protezione repressiva dai nemici della democrazia difficilmente avrebbe potuto varcare certi limiti. L'avanzata del comunismo asiatico, la renitenza alla leva e i movimenti di protesta interni non sarebbero stati sufficienti a far digerire quel drastico ridimensionamento dello stato di diritto che sarebbe invece seguito all'11 settembre, all'invasione dell'Afghanistan e dell'Irak. Concetti come quelli di guerra preventiva e permanente avrebbero faticato a farsi strada. E con l'irruzione del terrorismo internazionale sulla scena globale che i «bisogni repressivi» conoscono una nuova rigogliosa fioritura. Sebbene i guerriglieri talebani e la resistenza irakena appaiano assai meno mediabili con i «bisogni di libertà» nelle società avanzate dell'occidente, di quanto non lo fosse la lotta di liberazione vietnamita, ben si prestano, invece, a rinsaldare quell'ideologia occidentale che pretende di difendere la libertà restringendola e la tolleranza riducendola a zero. Lo stile di vita dell'occidente sviluppato si presenta oggi, nel rifiuto di ogni convinta proiezione verso il futuro, come una fortezza assediata da forze oscure, società insidiata da una minaccia ubiqua e indeterminata, che procede sulle gambe dell'immigrazione e degli indici demografici. E, per questo, insofferente verso qualsiasi forma di critica, nonché indirizzata verso quella stessa dimensione integralista che pretende di combattere. Le opposizioni che incontra, al suo interno, sono forse meno minoritarie di quelle degli anni '60, e tuttavia lo spazio che vien loro concesso appare addirittura più ristretto. Per i «bisogni di libertà» la partita si annuncia difficile. | << | < | > | >> |Pagina 21Iniziando con una verità ovvia, dirò che oggi qualunque forma nuova di vita sulla terra, qualunque trasformazione dell'ambiente tecnico e naturale è una possibilità reale, che ha il suo proprio luogo nel mondo storico. Noi possiamo fare del mondo un inferno, anzi come sapete siamo sulla strada. Ma possiamo anche farne l'opposto. Questa fine dell'utopia, e cioè il rifiuto delle idee e delle teorie che si sono ancora servite di utopie per individuare determinate possibilità storico-sociali, oggi possiamo anche concepirla in termini molto precisi come fine della storia; nel senso cioè (ed ecco appunto il tema su cui vi invito a discutere) che le nuove possibilità di una società umana e del suo ambiente non possono più essere immaginate come prolungamento delle vecchie né essere pensate nel medesimo continuum storico (col quale anzi presuppongono una rottura). Emerge ora in primo piano quella differenza qualitativa tra le società libere di domani e le società non ancora libere di oggi che (dopo Marx) ci induce a concepire tutto lo sviluppo storico svoltosi fino a questo momento come semplice preistoria dell'umanità. Ma io credo che anche Marx sia rimasto troppo attaccato al concetto di continuità del progresso, che anche la sua idea del socialismo non rappresenti ancora, o forse non rappresenti più, quella negazione determinata del capitalismo che dovrebbe in realtà rappresentare. Ciò significa che l'idea di una fine dell'utopia implica se non altro la necessità di porre in discussione una nuova definizione del socialismo e di chiedersi se la teoria marxiana del socialismo non appartenga ad uno stadio di sviluppo delle forze produttive ormai superato. Secondo me questa ipotesi risulta confermata nel modo più chiaro dalla famosa distinzione tra regno della libertà e regno della necessità. Il fatto che il regno della libertà possa essere pensato e possa sorgere solo al di là del regno della necessità significa che quest'ultimo è destinato a rimanere tale, estraniazione del lavoro compresa. Quindi, come dice Marx, qualunque cosa accada in questo regno, quale che sia il grado di razionalizzazione e la stessa riduzione del lavoro, quest'ultimo rimane sempre un'attività compiuta nel regno della necessità e per il regno della necessità, e dunque non libera. Io credo che una delle nuove possibilità in cui si esprime la differenza qualitativa tra una società libera e una società non libera consista precisamente nella ricerca del regno della libertà già all'interno del lavoro e non al di là di esso. Se proprio desiderate una formulazione assolutamente provocatoria di questo concetto speculativo, allora dirò: noi dobbiamo almeno perseguire l'idea di una via al socialismo che dalla scienza porti all'utopia e non, come ancora credeva Engels, di una via che dall'utopia porti alla scienza. Il concetto di utopia è un concetto storico e si riferisce a progetti di trasformazione sociale di cui si ritiene impossibile la realizzazione. Ma per quali ragioni questi progetti vengono considerati irrealizzabili? Generalmente, quando si discute sul concetto di utopia si parla di irrealizzabilità come impossibilità di tradurre in fatti concreti il progetto di una nuova società, in quanto i fattori soggettivi e oggettivi di una data situazione sociale si oppongono alla sua trasformazione. Si tratta della cosiddetta immaturità delle condizioni sociali che ostacola la realizzazione di un determinato fine. Esempio: i progetti comunisti durante la Rivoluzione francese; oppure, per riferirci ad un caso forse attuale: íl socialismo nei paesi capitalistici altamente sviluppati. Entrambi questi esempi riguardano forse una reale o supposta assenza dei fattori soggettivi e oggettivi che rendono possibile la realizzazione di un determinato progetto. Peraltro, il progetto di una trasformazione sociale può essere considerato irrealizzabile anche quando si trova in contraddizione con ben conosciute leggi scientifiche, biologiche, fisiche e così via. Esempio: l'antichissima idea di una eterna giovinezza dell'uomo; oppure: l'idea di un ritorno ad una supposta età dell'oro. Io credo che si possa parlare di utopia solo in quest'ultimo caso, e precisamente quando un progetto di trasformazione sociale si trova in contraddizione con leggi scientifiche realmente determinate e determinabili. In senso stretto solo i progetti di questo genere sono utopistici, vale a dire extrastorici. I progetti del primo gruppo, per i quali non esistono i fattori soggettivi e oggettivi, possono essere definiti irrealizzabili tutt'al più in senso provvisorio. Per una definizione della loro irrealizzabilità i criteri di Karl Mannheim sono, ad esempio, insufficienti, per la semplicissima ragione che possono essere applicati sempre e soltanto a posteriori. In effetti non è affatto raro che si definisca irrealizzabile un progetto di trasformazione sociale solo perché non se ne conoscono precedenti realizzazioni storiche. In secondo luogo il criterio di irrealizzabilità, inteso in questo senso, è inadeguato perché può darsi benissimo che la realizzazione di un progetto rivoluzionario venga impedita da controtendenze e da movimenti contrastanti potenzialmente superabili e spesso di fatto superati nel corso stesso del processo rivoluzionario. Il criterio secondo cui l'assenza di determinati fattori soggettivi e oggettivi è una prova della impossibilità di realizzare una certa trasformazione, è quindi assai discutibile. In particolare, e questo è il problema di cui dobbiamo occuparci oggi, l'impossibilità di individuare una classe rivoluzionaria nei paesi capitalistici a più elevato sviluppo tecnologico non significa affatto una trasformazione del marxismo in utopia. I portatori sociali della trasformazione (e questo è marxismo ortodosso) si formano nel corso dello stesso processo di trasformazione e non si può mai contare sulla esistenza di forze rivoluzionarie per così dire ready-made, bell'e pronte, quando ha inizio il movimento rivoluzionario (situazione in fondo fortunata e non molto facile a verificarsi). Secondo me però un criterio valido c'è, e consiste nello stabilire se le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare la trasformazione siano tecnicamente presenti malgrado gli impedimenti frapposti ad una loro razionale utilizzazione dalla organizzazione delle forze produttive. Io credo anzi che sia questo il senso in cui oggi si può effettivamente parlare di una fine dell'utopia. Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare una società libera. Il fatto che non vengano utilizzate è da ascrivere esclusivamente ad una sorta di mobilitazione generale della società, che resiste con ogni mezzo alla eventualità di una propria liberazione. Ma questa circostanza non basta assolutamente a rendere utopistico il progetto della trasformazione. Possibile, nel senso indicato, è l'eliminazione della povertà e della miseria; possibile l'eliminazione del lavoro estraniato; possibile l'eliminazione di ciò che io ho chiamato surplus repression. Io credo che su questo giudizio possiamo considerarci relativamente d'accordo anche con i nostri avversari. Nessun economista borghese di una certa serietà è oggi in grado di contestare la effettiva possibilità di eliminare la fame e la miseria con le forze produttive materiali e intellettuali già tecnicamente esistenti, e di negare che quanto accade oggi è un risultato della organizzazione socio-politica del mondo. Tuttavia, pur essendo tutti d'accordo su questo punto, non abbiamo invece idee sufficientemente chiare (e anzi vorrei fare di questo problema il tema dell'attuale discussione) sulle implicazioni di tale eliminazione, ormai tecnicamente possibile, della povertà, della miseria e del lavoro, e più precisamente sulla necessità di pensare codeste possibilità storiche in termini di rottura piuttosto che di continuità con la storia passata, come un elemento di negazione più che di affermazione, come un salto netto anziché un progresso continuo. E ciò per mettere in risalto un aspetto decisivo: la liberazione di una dimensione della realtà e della vita umana situata al di qua della base materiale, l'attivizzazione della dimensione biologica della vita. Ciò che conta è l'idea di una nuova antropologia concepita non solo come teoria ma anche come modo di vita, il sorgere e lo svilupparsi di vitali bisogni di libertà, dei bisogni vitali di una libertà non più fondata sulla (né limitata dalla) scarsità dei mezzi e sulla necessità del lavoro estraniato, ma capace di esprimere lo sviluppo di bisogni umani qualitativamente nuovi e quindi le esigenze del fattore biologico (giacché si tratta di bisogni che vanno considerati in termini strettamente biologici). Il bisogno di libertà infatti non si configura (o non si configura più) come un bisogno vitale in gran parte della popolazione integrata dei paesi a capitalismo sviluppato. Nello spirito di questo bisogno vitale la nascita della nuova antropologia implica anche il sorgere di una nuova morale come eredità e negazione della morale giudaico-cristiana che finora ha determinato, in misura preponderante, la storia della civiltà occidentale. La società repressiva continua incessantemente a riprodurre nei suoi membri i bisogni che essa stessa stimola e soddisfa, sicché a loro volta gli individui continuano a riprodurla nei loro bisogni, e persino attraverso e oltre la rivoluzione. Questa continuità dei bisogni repressivi è dunque l'ostacolo che finora ha impedito il salto dalla quantità alla qualità di una società libera. Un giudizio di questo genere parte naturalmente dalla premessa che i bisogni umani rivestano un carattere storico; che, oltrepassato il livello animale, tutti i bisogni umani incluso quello sessuale siano storicamente determinati e storicamente trasformabili; e che la rottura della continuità dei bisogni in cui è racchiuso il principio repressivo (il salto nella differenza qualitativa) non sia un fatto speculativo, ma un evento implicito nello stesso sviluppo delle forze produttive. In effetti quest'ultimo ha ormai raggiunto un livello che può impedire ogni nostro adeguamento alle condizioni della libertà se non nascono nuovi bisogni vitali. Da che cosa è caratterizzato questo stadio di sviluppo delle forze produttive che rende possibile il salto dalla quantità nella qualità? Soprattutto dalla struttura tecnologica del potere che scalza le fondamenta del potere stesso, dalla progressiva riduzione della forza-lavoro fisiologica all'interno del processo produttivo (del processo produttivo materiale) e dalla sua graduale sostituzione con un lavoro fondato sull'erogazione di energie mentali e nervose, nonché dalla progressiva concentrazione del lavoro socialmente necessario nella classe dei tecnici, degli scienziati, degli ingegneri, ecc. Si tratta chiaramente solo di tendenze, di tendenze incipienti, che tuttavia a mio parere non si limitano a sorgere ma continuano a svilupparsi, direi per intima necessità, proprio perché esprimono l'aspirazione a sopravvivere della stessa società capitalistica. Se il capitalismo non riuscirà ad utilizzare queste nuove possibilità delle forze produttive e della loro organizzazione, non potrà reggere nel tempo lungo alla concorrenza delle società in cui lo sviluppo in tal senso e soprattutto nel senso dell'automazione non è ostacolato da esigenze di profitto e da altri condizionamenti. Dobbiamo tuttavia aggiungere subito che il confine estremo del capitalismo si trova anche al lato opposto di questa problematica, e cioè nella compiuta utilizzazione dell'automazione. Come Marx ha giustamente osservato nel Capitale, un'automazione completa del lavoro socialmente necessario è inconciliabile con la conservazione del capitalismo. Riferito a questa tendenza, il termine «automazione» non è che una formula abbreviata. L'automazione comporta una progressiva estromissione del lavoro fisico socialmente necessario (lavoro estraniato) dal processo produttivo materiale, e ci impone (arrivo così al problema delle possibilità «utopiche» con cui ci dobbiamo misurare per capire cosa è in gioco) un esperimento totale a livello e nel quadro della società. Con l'eliminazione della miseria, questa tendenza ci spinge a confrontarci con le potenzialità della natura umana e extraumana in quanto contenuto del lavoro sociale, stimolando così la nascita di un fecondo potere di immaginazione come forza produttiva scientificamente determinata, di una fertile facoltà fantastica destinata a progettare e a delineare liberamente i possibili sviluppi delle forze produttive. Perché queste potenzialità della tecnica non diventino potenzialità repressive e perché possano assolvere alla loro funzione liberatoria e pacificatrice, esse devono essere sostenute e ottenute da bisogni di liberazione e di pacificazione. Là dove non esiste il bisogno vitale di eliminare il lavoro ed esiste invece il bisogno di conservarlo anche se non è più socialmente necessario; là dove non esiste il bisogno vitale del godimento, della gioia in buona coscienza, ma esiste piuttosto la necessità di guadagnarsi ogni cosa nella più miserabile delle vite possibili; insomma là dove questi bisogni vitali non insorgono o vengono soffocati da quelli repressivi, ci si può aspettare soltanto una riconversione delle nuove potenzialità tecniche in potenzialità repressive. Oggi sappiamo già quale contributo possano offrire la cibernetica e i computer all'istaurazione di un controllo totale sulla vita umana. I nuovi bisogni, che sono in realtà la negazione determinata dei bisogni esistenti, possono forse sommarsi fino a comporre la negazione dei bisogni su cui si sostiene l'attuale sistema di potere e dei valori che ne stanno alla base. Ad esempio, possono diventare la negazione del bisogno di lottare per l'esistenza (che oggi è ancora una necessità, tanto che tutte le idee e le fantasie sulla possibilità di eliminare questa lotta si scontrano con i fattori naturali e sociali da cui è condizionata la vita umana); oppure la negazione del bisogno di guadagnarsi la vita, della battaglia per il pane quotidiano, del principio produttivistico, della concorrenza; o ancora la negazione del bisogno – oggi immensamente forte – di conformismo, del bisogno di non dare nell'occhio, di non diventare degli outsiders, del bisogno di una produttività fondata sullo spreco e sulla distruzione (e quindi da questi indissociabile), nonché di una menzognera soppressione degli istinti. Tutti questi bisogni trovano la loro negazione nel bisogno di pace (che oggi, come purtroppo voi sapete anche troppo bene, non è un bisogno della maggioranza), nei bisogni di calma, di solitudine, di privacy (che, come ci dicono i biologi, sono bisogni indispensabili all'organismo), nel bisogno di tranquillità e di gioia, intesi tutti non come bisogni individuali ma come forze produttive della società, come bisogni sociali in grado di esercitare un'influenza determinante sull'organizzazione e sulla direzione delle forze produttive. Questi nuovi bisogni vitali rendono possibile, in quanto forze produttive sociali, una totale trasformazione tecnica del mondo della vita, e io credo che nuovi rapporti umani, nuovi legami tra gli uomini possano realizzarsi solo in un mondo così trasformato. Trasformazione tecnica, ho detto; anche qui intendo riferirmi ai paesi capitalistici ad alto sviluppo tecnologico, nei quali una tale trasformazione significa eliminazione degli orrori della industrializzazione e della commercializzazione capitalistica, totale ricostruzione delle città e restaurazione della natura. Spero non sia necessario precisare che, parlando della eliminazione degli orrori della industrializzazione capitalistica, non intendo spezzare una lancia in favore di una romantica regressione al di qua della tecnica; al contrario io credo che i benefici della tecnica e dell'industrializzazione possano risultare evidenti e reali solo rimuovendo l'industrializzazione e la tecnica di tipo capitalistico. A mio parere, il dibattito sul concetto di socialismo non ha ancora convenientemente posto in luce le nuove qualità cui ho accennato. Anche da noi il concetto di socialismo è stato inteso prevalentemente come un concetto riguardante lo sviluppo delle forze produttive e l'incremento della produttività del lavoro, secondo una tendenza più che legittima rispetto al livello produttivo in cui venne elaborata l'idea del socialismo scientifico, ma oggi per lo meno contestabile. Il nostro compito attuale è di discutere e definire, senza alcuna inibizione e a costo di apparire brutali, la differenza qualitativa che intercorre tra la società socialista come società libera e le società esistenti. Ed è precisamente a questo punto che, nella ricerca di formule in grado di sintetizzare le qualità nuove della società socialista, ci si imbatte quasi naturalmente (a me, almeno, è successo così) nelle qualità erotico-estetiche. Il fatto che la differenza qualitativa della società libera consista proprio in questo accoppiamento di concetti (nel quale il concetto di estetico è preso in senso originario e cioè come sviluppo della sensibilità, come modo di esistere) suggerisce a sua volta una tendenziale convergenza tra tecnica e arte e tra lavoro e gioco. Non è sicuramente un caso se oggi tra gli intellettuali d'avanguardia della sinistra stia ritornando d'attualità Fourier, e che una nuova edizione dell' opera omnia di questo autore sia apparsa recentemente a Parigi presso la casa editrice Anthropos. Come gli stessi Marx e Engels riconobbero, fu appunto Fourier a mettere in evidenza, per la prima e unica volta, questa differenza qualitativa tra una società libera e una società non libera, senza tirarsi indietro spaventato (cosa che fece invece Marx, almeno in parte) di fronte alla necessità di ipotizzare una società in cui il lavoro diventi gioco, in cui persino il lavoro socialmente necessario possa venire organizzato in armonia con i bisogni istintuali e con le inclinazioni degli uomini. Permettetemi di concludere con una osservazione. Ho già accennato alla necessità che la teoria critica che ancora oggi mi ostino a chiamare marxismo accolga in sé le possibilità estreme della libertà, lo scandalo di quel salto qualitativo cui ho sommariamente accennato sopra, onde evitare di limitarsi al problema della correzione delle magagne esistenti. Il marxismo deve avere il coraggio di elaborare una definizione del concetto di libertà che possa far sentire e riconoscere quest'ultima come un bene non ancora mai goduto dagli uomini. E proprio perché le cosiddette possibilità utopistiche non sono affatto utopiche, ma rappresentano invece una determinata negazione storico-sociale dell'esistente, la loro coscienzalizzazione, e l'individuazione consapevole delle forze che ne impediscono la realizzazione e che le negano, richiedono da parte nostra una opposizione molto realistica e molto pragmatica, una opposizione libera da tutte le illusioni ma anche da ogni disfattismo, una opposizione che con la sua semplice esistenza sappia rendere manifeste le possibilità della libertà nell'ambito stesso della società esistente. | << | < | > | >> |Pagina 108MARCUSE — Non ho nessuna intenzione di chiedermi se ciò di cui stiamo discutendo sia romanticismo o metafisica perché le etichette non mi interessano. Se è romanticismo o metafisica, allora devo dire di essere favorevole al romanticismo e alla metafisica. Vorrei dire invece qualcosa a proposito di una frase che ho sentito ripetere più volte. È stato detto e ripetuto che il radicalismo mette in forse la realizzazione delle riforme possibili. Io credo invece che oggi ci si debba chiedere se non sia vero anche il contrario, e cioè se le riforme oggettive che si è riusciti alla fine a introdurre e a imporre al sistema non debbano ascriversi in gran parte allo sviluppo di un grande movimento radicale. A me pare che la storia dimostri appunto questo.DUTSCHKE — Mi sembra un vero peccato che i professori Marcuse e Löwenthal si siano serviti, pur in senso notevolmente diverso, del concetto di totalitarismo come concetto sussuntivo e valido per definire sistemi differenti. Utilizzando questo concetto si perde la concreta dimensione storica da cui è partito il processo, d'altronde reale e storico, dell'emancipazione. Ricordiamoci che il 1917 ha segnato l'inizio di questo processo, ricordiamoci della dittatura del proletariato che operava, sotto forma dei soviet, in tutti i settori della vita sociale. Servendoci del concetto di totalitarismo perdiamo appunto la dimensione storica dell'avvio della rivoluzione e del processo che questa ha seguito, per tenere conto soltanto dell'esito oggi costatabile. In tal modo sistemi diversi, sviluppatisi da diversi punti di partenza, vengono sussunti sotto lo schema rigido del concetto di totalitarismo senza distinzione alcuna, senza alcuna attenzione al processo che ha portato alla loro nascita, alla loro genesi e alla loro trasformazione. Questa è la prima cosa che volevo dire. La seconda è che abbandonando il concetto di totalitarismo e ritornando al concetto di dittatura del proletariato nella forma democratica dei soviet creeremmo il presupposto per capire in che modo una rivoluzione possa andare in malora, in che modo dalla dittatura dal basso, da una dittatura delle masse, possa uscire una dittatura del partito, poi una dittatura dell'apparato statale e infine, forse, una dittatura della tecnocrazia. Semmai, solo quest'ultimo tipo di dittatura potrebbe essere interpretato in base al concetto di totalitarismo, senza però dimenticare che anche in tal caso si terrebbe conto unicamente dell'esito e non della genesi né del processo di trasformazione. Ecco perché, a mio avviso, è assolutamente necessario abbandonare il concetto di totalitarismo come concetto teorico, e parlare invece del punto di partenza della rivoluzione sovietica, per seguire lo sviluppo che ha portato alla dittatura del partito e infine alla dittatura personale in un complesso partitico e burocratico. Arriviamo così finalmente ai manoscritti economico-filosofici di Marx e al punto in cui vengono descritti i due tipi di comunismo. Marx parla del comunismo democratico e del comunismo dispotico. Lo sviluppo della dittatura del proletariato dal febbraio 1917 alla dittatura personale di Stalin degli anni '40 e alla dittatura della burocrazia autonomizzata degli anni '60, è un fenomeno che occorre studiare e capire, e non semplicemente incasellare nel concetto di totalitarismo. Del resto anche la componente espansionistica dello stalinismo degli anni '40 e '50, così come l'abbiamo sperimentata qui a Berlino, deve essere compresa alla luce di questa dimensione storica e non approssimativamente sussunta nel concetto generale di espansionismo con il quale siamo soliti alludere ai sistemi fascisti o a tutti i sistemi antidemocratici. In quest'ultimo caso infatti si torna a ragionare sulla base della coppia concettuale rosso-nero, in cui va completamente perduta la dimensione storica reale, nonché il punto di partenza e il fine possibile. Ma c'è anche un'altra cosa. Io non riesco a capire come si faccia ancora a credere nella possibilità di risolvere pacificamente il problema coloniale. Da decenni, e specialmente dopo la seconda guerra mondiale, stiamo osservando gli sviluppi del problema coloniale, e sappiamo bene in che modo l'imperialismo inglese abbia condotto in Africa la cosiddetta decolonizzazione. Sappiamo anche che alla fine degli anni '50 sono sorte in tutte le parti del mondo grandi speranze in una decolonizzazione pacifica e forse anche in un ininterrotto processo di industrializzazione dei paesi coloniali, con conseguente eliminazione della miseria. Oggi invece, giunti ormai alla metà degli anni '60, incominciamo ad accorgerci di una realtà che i marxisti come Karl Korsch avevano visto già alla fine degli anni '40, e cioè che l'imperialismo attuale è caratterizzato dalla tendenza ad allearsi con gli strati più corrotti delle oligarchie e che l'eliminazione del colonialismo diretto in seguito alla conquista dell'indipendenza altro non è che la riproduzione della totale dipendenza economica sotto un paravento legalitario. Oggi non è possibile ignorare questo fatto. L'unica eccezione alla regola su cui si può ancora discutere è il tentativo di Frey in Cile. Io spero che qualcuno tra i nostri amici cileni prenda la parola nel corso del dibattito per dirci quale significato si possa attribuire al successo di una legge agraria presentata ad un parlamento borghese e quali possibilità abbia questa legge di essere realizzata. Noi sappiamo ciò che è successo alla legge agraria presentata in Vietnam al tempo di Diem, e mi farebbe piacere se uno dei nostri amici cileni ci informasse sulla situazione del suo paese, non fosse altro che per togliere una buona volta di mezzo quest'unico e strombazzato esempio occidentale.
L'ultima cosa su cui intendo parlare è il problema dell'opposizione totale
dei singoli alla società, atteggiamento che il professor
Löwenthal ha recisamente respinto. A mio avviso su questo problema c'è da dire
questo: chi di noi ha capito che cosa si celi nella
nostra società, quali universali possibilità essa ci offra, quali conquiste essa
potrebbe permetterci, deve capire anche che essa nega, nei
termini più radicali, un mondo veramente nuovo, e che l'individuo
deve pertanto condurre un'opposizione totale contro il sistema; e
non in nome di una classe ma in nome del genere umano minacciato di distruzione,
per garantirne la sopravvivenza e realizzare la sua
ormai possibile emancipazione.
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