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| << | < | > | >> |IndicePremessa all'edizione critica 7 INTRODUZIONE 9 di Raffaele Laudani I. PRIMA DEL SESSANTOTTO 39 Cuba e la politica estera americana (1961) 41 Sul Vietnam (1966) 47 Protesta e futilità (1967) 71 II. LA RIVOLTA GLOBALE 81 Impressioni sul maggio francese e il movimento tedesco (1968) 83 Oltre l'uomo a una dimensione (1968) 99 Rivoluzione dal disgusto. Intervista a Der Spiegel (1969) 113 Sul conflitto generazionale (1969) 125 La rivoluzione culturale (1971) 133 III. SCENARI DELLA CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA 181 Sul conflitto arabo-israeliano (1969-1971) 183 Il destino storico della democrazia borghese (1973) 191 Watergate: Quando legge e morale sono di troppo (1973) 219 La dottrina dell'imparzialità (1973) 223 IV. I MOVIMENTI NELL'ERA DELLA CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA 237 Su Angela Davis (1969-1972) 239 Il movimento in una nuova era di repressione: una valutazione (1971) 249 Una rivoluzione dei valori (1973) 265 V. IL SESSANTOTTO DIECI ANNI DOPO 273 L'omicidio non è un'arma politica (1977) 275 Il significato globale della protesta e le possibilità attuali del movimento (1977) 279 Pensare l'emancipazione. Conversazione con gli studenti della Sozialistische Hochschulinitiative (1979) 291 APPENDICE 305 Corrispondenza con Adorno sul movimento studentesco tedesco (1969) 307 Carteggio con Rudi Dutschke (1967-1979) 325 POSTFAZIONE. MARCUSE OGGI E IERI 367 di Antonio Negri |
| << | < | > | >> |Pagina 91. «Ci sono state le rivolte a Roma e Marcuse è sbucato fuori. Ci furono prima le rivolte a Parigi, quando il governo schierò le truppe e i carri armati per le strade, e Marcuse era lì. Quando ci furono le rivolte degli studenti a Berlino, Marcuse era ancora lì». Comincia così, con la dichiarazione stizzita di un rappresentate dell'American Legion, la più grande organizzazione americana di veterani di guerra, un bel documentario degli inizi degli anni Novanta che racconta il particolare connubio creatosi tra Marcuse e il movimento studentesco. Quel veterano si faceva portavoce della richiesta di licenziamento di Marcuse dall'Università di San Diego sostenuta dagli ambienti più conservatori della società americana, compreso l'allora governatore della California Ronald Reagan. Difficile era per loro capire come questo anziano professore tedesco, formatosi con Husserl e Heidegger nella Germania degli anni Venti, potesse essere diventato, ormai settantenne, il «padre» del movimento studentesco e alternasse le sue lezioni su Platone e Kant all'occupazione della Tesoreria dell'Università per sostenere la richiesta degli studenti afro-americani e chicanos di ottenere degli spazi autogestiti per il Lumumba-Zapata College (premurandosi poi – a dire il vero più da nonno che da padre – di coprire le spese per i danni prodotti dall'occupazione). Poche storie, comunque. Quel docente era dangerous, un «cattivo maestro» che sobillava i figli perbene dell'America operosa ed opulenta e che, per questo motivo, doveva essere allontanato. Quello che forse quel veterano non sapeva, e che avrebbe certamente rafforzato la sua idiosincrasia nei confronti di Marcuse, era che la sua attività politica e intellettuale affondava le sue radici proprio in un'esperienza di movimento: nella partecipazione, appena ventenne, alla rivoluzione tedesca dei Consigli. Un'esperienza che, coincidenza fra le coincidenze, nel novembre del 1919 lo vide in circostanze poco chiare contribuire come membro del consiglio dei soldati di Reinickendorf, un sobborgo operaio a nord di Berlino alla difesa armata di Alexanderplatz dagli attacchi dei Freikorps, in uno dei momenti più drammatici della rivoluzione a Berlino.
I saggi che qui si presentano per la prima volta al pubblico italiano, molti
dei quali provenienti dal
Nachlass
marcusiano, sono il risultato finale di questo rapporto di lungo periodo con le
istanze di liberazione dei movimenti soggettivi ed evidenziano la profondità e
la complessità di questo rapporto. Essi raccolgono i principali interventi
politici di Marcuse nel decennio che va dall'annunciarsi del Sessantotto fino
alla sua morte nel 1979. Solitamente considerata solo una glossa in margine ad
una prestazione scientifica già compiuta, la produzione di quegli anni ci
riconsegna invece un Marcuse nuovo, originale, in cui l'adesione politica alle
lotte e alle istanze dei movimenti di protesta si lega alla necessità «teorica»
di ripensare le strategie e gli spazi concreti per le istanze soggettive di
liberazione in un mondo in radicale trasformazione. Essi hanno così una duplice
valenza: da un lato di documentazione storica di una stagione di movimenti
sociali, dall'altro di analisi di un presente che in fondo è ancora il nostro.
Sebbene costruiti solo sui prodromi, senza ancora l'evento più che simbolico del
crollo del muro di Berlino, e quindi non esenti da ingenuità e prognosi poi
rivelatesi sbagliate, gli scenari che Marcuse descrive in queste pagine sono
infatti ciò che oggi siamo soliti chiamare «globalizzazione neoliberista». La
quale però, innervata e attraversata dalle istanze di quei movimenti, perde la
sua immagine monolitica ed economicistica e si congiunge idealmente con le nuove
istanze di movimento che stanno accompagnando i primi passi del XXI secolo.
2. Il richiamo al movimento dei Consigli non è tuttavia una mera nota biografica. Quella esperienza «fondativa» ci aiuta infatti a capire il senso profondo di quelle coincidenze richiamate in apertura, le ragioni politiche e teoriche di un'identificazione con le istanze dei movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta, così convinta da rimettere in discussione anche un sodalizio intellettuale e personale come quello con Adorno e Horkheimer, tra i più creativi e innovativi del Novecento. La partecipazione di Marcuse a quei movimenti non è stata infatti, come ripetuto spesso anche in ambiente marxista o di movimento, l'espressione di un tardo e magari patetico volontarismo politico; non è stata una variante engagée della crisi politica e teorica che attanagliava ormai la Scuola di Francoforte. Quelle barricate nel Quartiere Latino, a cui quasi casualmente Marcuse assistette nel maggio del 1968 mentre partecipava a un convegno organizzato dall'Unesco per i centocinquant'anni dalla nascita di Marx, erano per lui «il riaffermarsi di una tradizione» che «è stata latente in Europa fin dagli anni '20». In quelle azioni egli ha visto riapparire proprio quel «sogno di libertà» da lui sperimentato in Alexanderplatz e poi conservato per anni come «filosofia». | << | < | > | >> |Pagina 41Mi spiace, ho preparato degli appunti. Considerata la situazione, ritengo necessario attenermi strettamente ad essi. Non discuto il diritto degli Stati Uniti di combattere il comunismo nell'emisfero occidentale — sebbene si possa discutere sulla definizione di emisfero occidentale, visto che adesso include il Laos nel Sudest asiatico, e altri paesi. È un problema di definizioni, come quello — e qui ritorno serio — relativo al significato dell'affermazione «stiamo combattendo il comunismo». Cosa stiamo combattendo? Se solo riuscissimo per un momento ad aprirci un varco tra i colpi della propaganda e dell'indottrinamento, potremmo renderci conto che ciò che combattiamo è lo sforzo dei paesi arretrati di istituire una forma di società fondamentalmente differente dalla nostra. Questa forma di società include misure radicali come la riforma agraria, la nazionalizzazione delle principali industrie e del credito, e una completa redistribuzione della ricchezza e del potere, per raggiungere lo sviluppo dei cosiddetti paesi sottosviluppati, che considerano la struttura della nostra società inapplicabile ai loro paesi. Tutto ciò implica necessariamente un'aspra lotta contro gli interessi costituiti che si oppongono a queste riforme; il che vuol dire che questa società assume le forme della repressione dei diritti e delle libertà civili, le sembianze di una dittatura. Questa è la vera natura di una rivoluzione: se si combatte una dura e aperta guerra civile — e non solo una guerra civile, ma una strettamente connessa a una guerra verso l'esterno e contro gli interessi costituiti che si oppongono alle forze che vogliono costruire una nuova forma di società – non ci si può permettere diritti e libertà civili che potrebbero servire e anzi, come dimostra abbondantemente la storia, sono serviti a favorire un rapido ritorno degli interessi costituiti. Non conosco nessuna rivoluzione, compresa quella americana, che non sia cominciata e non sia continuata per molto tempo con la repressione dei diritti e delle libertà civili. Non sono uno storico americano ma non credo che durante la rivoluzione americana vi fossero diritti e libertà civili per i lealisti britannici. Nessuno, e di sicuro non io, ama la repressione dei diritti e delle libertà civili, ma odio e disprezzo quell'ipocrisia implicita nell'assunzione della repressione dei diritti e delle libertà civili operata da Castro come una delle ragioni principali della nostra lotta contro la rivoluzione cubana. Tanto più ipocrita quando contemporaneamente nessuno dei sostenitori dell'intervento a Cuba in nome della repressione castrista dei diritti e delle libertà civili, sosterrebbe e organizzerebbe un intervento militare o di altro tipo contro la Formosa di Chang Kai-shek, contro la Spagna di Franco, contro il Portogallo di Salazar, contro la Repubblica Dominicana, contro Haiti, contro il Guatemala, contro un'intera lista di altri Stati dell'America Latina in cui la repressione dei diritti e delle libertà civili è infinitamente più spietata e brutale di quella della Cuba di Castro. Mi pare, in altre parole, che siamo pronti a schierarci contro la repressione dei diritti e delle libertà civili solo nel caso in cui quest'ultima provenga da sinistra, ma certamente non se proviene da destra. Adesso la stessa costellazione di interessi che, attraverso una dolorosa guerra civile, costringe il regime di Castro a reprimere i diritti e le libertà civili – questa stessa costellazione spinge ad affiliarsi con potenze e influenze straniere che non lasciano molta scelta. Praticamente in tutto il mondo, gli interessi costituiti che si contrappongono ai movimenti che lottano per costruire una nuova forma di società sono alleati con gli Stati Uniti, mentre quelli che sostengono questi movimenti sono alleati con l'Unione Sovietica. Gli interessi costituiti con l'occidente: gli interessi rivoluzionari con l'Urss. Ciò rende molto semplice identificare in tutto il mondo i movimenti sociali rivoluzionari autoctoni come movimenti dipendenti, controllati e organizzati da una potenza straniera; in altre parole, usare il termine «comunismo» non solo come uno slogan che si riferisce a tutti questi movimenti che mirano ad un mutamento sociale radicale, ma anche per denunciarli come agenti del comunismo sovietico o cinese. Non c'è alcun dubbio che il regime di Castro sia alleato al blocco sovietico e forse ne dipende anche. Abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per spingerlo in questa direzione nel minor tempo possibile. Che cosa ci si può aspettare da un paese che lotta per la sua sopravvivenza di fronte a un embargo economico che potrebbe far morire di fame la maggior parte della sua popolazione? Se oggi Castro dipende dall'aiuto sovietico, tecnicamente e forse anche militarmente, è solo colpa nostra. | << | < | > | >> |Pagina 47LA LOGICA PROFONDA DELLA POLITICA AMERICANA IN VIETNAM La giustificazione ufficiale della politica americana in Vietnam è avvolta in un linguaggio orwelliano e, come tale, sfida la discussione razionale. «Stiamo lottando per la libertà» – questo significa in realtà che stiamo combattendo a sostegno di una dittatura militare che non resisterebbe ventiquattro ore senza le bombe americane. «Stiamo lottando per la libertà» proteggendo quei gruppi sociali e quegli interessi il cui potere si basa sullo sfruttamento e la schiavitù. «Stiamo lottando per la libertà», in breve, attraverso il sostegno a una giunta militare che lotta contro un mutamento economico e sociale che potrebbe creare le vere precondizioni della libertà. «Lottiamo contro l'aggressione» – di chi? I nordvietnamiti sono, dopo tutto, vietnamiti. I cinesi non hanno inviato il loro esercito al di là dei loro confini: non hanno costruito basi militari in tutto il mondo; non sono riusciti a promuovere il rovesciamento di governi in carica; hanno persino rinunciato al loro modesto sostegno economico alla Cuba socialista. «Vogliamo evitare un'altra Monaco». Anche qui il linguaggio è orwelliano, sebbene in ultima analisi l'analogia sia corretta. La questione però è: chi è oggi che porta la pace? Chi vanta la più potente macchina da guerra di tutti i tempi? E chi la usa oggi negli altri paesi? Si ricordi che lo stesso Hitler, talvolta, giustificò la presenza della Germania al di là dei confini tedeschi sulla base di un «invito». Perché la guerra nel Vietnam e, più in generale, la politica di intervento diretto o indiretto in territori stranieri viene giustificata come «interesse nazionale»? Per rispondere a questa domanda è necessario passare dalla propaganda alla realtà. Malgrado le eroiche affermazioni provenienti da Washington sulla difesa della libertà o sulla resistenza all'aggressione, la dottrina ufficiale sulla difesa dell'interesse nazionale insiste sulla necessità di combattere e contenere il comunismo ovunque esso faccia la sua comparsa. A dire il vero, però, la nostra politica estera elude questa dottrina in due modi: in primo luogo, non intraprendiamo una guerra contro l'Unione Sovietica e le potenze ad essa alleate; in secondo luogo, costruiamo un'argomentazione retorica circolare, definendo «comunismo» qualsiasi nostro nemico. Chi o che cosa, allora, realmente combattiamo? Lottiamo contro una forma specifica di comunismo nelle aree arretrate. Combattiamo una guerra contro le guerre di liberazione iniziate dai movimenti rivoluzionari nati in quei paesi. Questi movimenti tentano di istituire riforme agrarie radicali per abolire il sistema di sfruttamento delle classi dominanti tradizionali; tentano di sopprimere il potere del capitale straniero; e, naturalmente, attaccano i governi locali che dipendono da questo potere. Questi movimenti rappresentano un pericolo per noi per tre ragioni differenti. Prima di tutto, se dovessero avere successo, condurrebbero all'espropriazione degli investimenti stranieri e all'abolizione dei regimi corrotti, oppressivi e semifeudali tipici delle nazioni arretrate. Pertanto, trasformerebbero la periferia capitalista in un'area pericolosamente soffocante. Vorrei aggiungere che non credo che il concetto classico di imperialismo sia applicabile al Vietnam visto come fenomeno isolato. Ma è essenziale considerare il Vietnam all'interno del contesto globale nei termini familiari della «dottrina del domino»: il fallimento degli Stati Uniti in Vietnam sarebbe infatti il segnale in grado di attivare movimenti di liberazione in altre aree coloniali, più vicine a noi, forse anche all'interno degli stessi Stati Uniti. La stabilità degli interessi costituiti in queste aree è vitale per l'economia della metropoli. Vista in questa prospettiva, la nostra politica vietnamita è solo un aspetto di una politica che si estende dalla Germania dell'Est all'Indonesia, dalla Turchia al Giappone – una politica che, forse, si riflette nel Mississippi e nell'Alabama. In secondo luogo, l'esistenza di un gigantesco apparato militare è un fattore di stimolo essenziale per l'economia statunitense. Si tratta di un aspetto che è operante fin dal collasso del New Deal nella metà degli anni '30. L'economia americana potrebbe non esigere un apparato di guerra, ma qualsiasi conversione necessiterebbe a questo punto di un mutamento politico ed economico radicale. In terzo luogo, la società opulenta ha bisogno di un Nemico contro cui tenere la popolazione in uno stato costante di mobilitazione psico-sociale. | << | < | > | >> |Pagina 71[...] Non è ogni pensiero critico e radicale, ogni azione di protesta che non abbia un solido e adeguato fondamento nella realtà, in tutte le sue manifestazioni, ridicolmente debole contro la santificazione tangibile e intangibile del sistema? Non è assolutamente futile – e non solo per la sua debolezza, il suo isolamento, la sua mancanza di organizzazione, ma per il fatto che non combatte tiranni, demoni e neanche «signori della guerra», ma autorità democraticamente elette, rappresentanti del popolo, manager efficienti e tecnocrati che producono beni e servizi? Una società prospera ed efficiente? Contro questa spaventosa razionalità, le forme di protesta sembrano così spaventosamente irrazionali ed «emotive»: manifestate, vi fermate e tornate a manifestare; fate sit-in, organizzate dibattiti e raduni, e tornate a manifestare: cantate e ballate, vi vestite e vi denudate in segno di protesta... Tutto questo rifiuto di conformarsi non ha principalmente la funzione di sfogo, di un'effimera terapia individuale...? Certo, ci sono casi di vero eroismo che finiscono in prigione, e nel silenzio, nell'ostilità e nell'indifferenza di tutti. E ci sono, a sostegno della protesta emozionale, spontanea, istintiva, progetti educativi ben ragionati, biblioteche intere di analisi sociologiche e psicologiche: (neo-capitalismo e neo-colonialismo; critica della cultura di massa, del linguaggio, ecc.). Raramente una società è stata oggetto di una critica così radicale, e in modo così diffuso e pubblico, con un così alto livello di libertà e legittimità, e mai prima d'ora una critica radicale è stata così facilmente assorbita, spuntata, comprata, venduta e consumata: futilità nella libertà! Le ragioni di questa futilità sono radicate nella stessa struttura della «società opulenta» che opera non solo dietro un velo ideologico, ma anche dietro un fitto velo materiale, il velo della sua opulenza, reale e tuttavia ipocrita, falsa, soffocante. Reale abbastanza da estendere i suoi benefici a una parte crescente della popolazione, e pertanto in grado di reprimere il bisogno vitale del cambiamento; reale abbastanza nel potere onnipresente di legittimare la violenza; ipocrita abbastanza da usare questi benefici (e questi poteri) per finanziare, organizzare, e proteggere lo sfruttamento, la repressione e la guerra all'estero; ipocrita abbastanza da praticare sistematicamente lo spreco e la distruzione delle risorse proprio in mezzo alla povertà e alla miseria. E questo feticismo delle merci opulente annebbia la coscienza della popolazione amministrata: sono pronti a comprare prodotti e il sistema glieli produce, pagano il prezzo in moneta mentre il prezzo in vite umane è pagato da altri, in paesi lontani. Questo è, accademicamente parlando, il topos sociologico e psicologico della guerra in Vietnam: è l'obiettivo principale della protesta, anche là dove sembra non costituirne esplicitamente l'obiettivo. Non ci interessa discutere in questa sede se questa guerra sia in senso marxista una guerra «imperialista», ma capire come questo singolo fatto influenzi l'intera società, la vita di ognuno di noi. Il fatto che la più produttiva, efficiente e finanziata macchina di distruzione viene scatenata contro uno dei popoli più poveri e deboli della terra, senza riuscire a metterlo in ginocchio, questo fatto richiede, per essere giustificato e rafforzato, la mobilitazione metodica e scientifica della mente e del corpo, della coscienza e dell'inconscio, a sostegno del massacro. [...] Per concludere, torniamo al Vietnam: all'origine e al contesto della protesta. Qui le forze contendenti si scontrano in aperta battaglia, e non solo le forze militari. Un incidente rivela quali altre forze sono mobilitate, quali altri obiettivi sono in gioco. Dalla storia dell'invasione del delta del Mekong, il New York Times del 9 Gennaio riporta che «due VC che stavano cecchinando presso le posizioni dei Marine» sono stati uccisi, ma si aggiunge «che quando i corpi sono stati esaminati, sembravano essere quelli di un giovane uomo e una giovane donna inermi». La storia vera si trova nel rapporto dell'UPI sul Washington Daily News del 7 Gennaio: lo sbarco non ha trovato resistenze e i primi americani a toccare terra sono stati tredici cronisti. Comunque, due giovani vietnamiti sono stati uccisi. «Il ragazzo e la ragazza camminavano, tenendosi per mano, in una postazione dei Marines. Le sentinelle li hanno visti avvicinarsi e, non sapendo chi fossero, li hanno stesi con una raffica di colpi. Sono morti insieme, con le mani ancora strette». Così, le nostre prime vittime sono state una coppia di innamorati a passeggio, aggiunge Stone.... Un incidente deplorevole, ma che svela il terrore del tutto: Morte contro Vita; Morte nella sua forma più efficiente ed efficace; Vita, come Eros, nella sua forma più dolce, più tenera. Questo è l'aspetto nascosto, il tabù della battaglia; questo è quello che ci troviamo di fronte. La vostra protesta, la nostra protesta, deve essere per il rovesciamento dei ruoli: la Vita contro la Morte. | << | < | > | >> |Pagina 99[...] I ribelli sono consapevoli del fatto che questo obiettivo trascende tutta la ragionevolezza e la razionalità dell'Establishment. Oltre la legge della Ragione (questa Ragione) c'è quella dell'immaginazione. Uno degli slogan apparsi sui muri della Sorbona nel maggio dello scorso anno recita: «tutto il potere all'immaginazione». È stato detto (e io condivido questa affermazione) che il quarto volume del Capitale di Marx sia stato scritto sui muri della Sorbona; potremmo aggiungere che anche la quarta Critica di Kant è stata scritta sugli stessi muri, ovvero la critica dell'immaginazione produttiva. L'idea di ragione, la razionalità che permea l'universo costituito del discorso e del comportamento, non può più servire come guida, non è più adatta a definire gli obiettivi e le possibilità della ricerca umana, della moralità umana, della scienza umana, dell'organizzazione sociale, dell'azione politica. I concetti tradizionali si sono sviluppati e sono stati definiti in un universo di dominio e di scarsità e, dove hanno superato questi limiti storici, come nella filosofia dell'illuminismo radicale, sono rimasti per lo più astratti o separati dalla pratica storica. Una domanda sorge però spontanea: non c'è nulla oltre la razionalità costituita, nient'altro che la mera fantasia, l'invenzione, la speculazione utopica? Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricorrere alla vecchia distinzione filosofica tra immaginazione e fantasia. L'immaginazione (produttiva) è, secondo Kant, la più importante facoltà cognitiva della mente; è il terreno di incontro tra sensibilità e intelletto, percezione e concetto, corpo e mente. Come facoltà cognitiva, l'immaginazione si pone a guida del progetto scientifico e della sperimentazione delle possibilità e capacità della materia; è giocosa, libera e, tuttavia, limitata dalla sua materia, e radicata nel continuum storico. Come facoltà cognitiva, l'immaginazione crea le opere artistiche, letterarie, musicali; e con esse crea una realtà propria, ma reale: ovvero più reale della realtà data. Parole, immagini, suoni, gesti che negano la pretesa della realtà data di rappresentare ogni realtà e la realtà in generale. Negano questa pretesa nel nome delle possibilità represse delle relazioni umane, dell'uomo e della natura, della libertà. Dovrebbe adesso essere più chiaro il significato politico dello slogan «tutto il potere all'immaginazione». Lo slogan esprime la coscienza militante delle possibilità represse e della loro capacità di rendere obsolete non solo le tradizionali teorie e strategie di mutamento, ma anche i suoi obiettivi tradizionali. Il passaggio dalla razionalità della scarsità e del dominio al regno della libertà richiede il superamento concreto di questa razionalità, esige nuovi modi di vedere, ascoltare, percepire, toccare le cose, un nuovo modo di provare a soddisfare le esigenze di uomini e donne che possono e devono lottare per una società libera. La situazione storica, quindi, trasforma l'immaginazione in un potere meta-politico e coniuga i giocosi, creativi, sensuali bisogni estetici con le severe esigenze politiche. L'aspetto più singolare di questa strana alleanza è riscontrabile nel fatto che i due nomi più frequentemente apparsi sui muri dell'Università di Parigi sono quelli di Karl Marx, il fondatore del socialismo, e di André Breton, il fondatore del surrealismo. E durante la lunga notte parigina, la notte delle barricate, c'era un pianoforte proprio tra le barricate e un giovane pianista che suonava del jazz. | << | < | > | >> |Pagina 183SOLTANTO UN MONDO ARABO LIBERO PUÒ COESISTERE CON UNO STATO DI ISRAELE LIBERO Sono lieto di presentare, in poche righe, l'edizione ebraica di L'uomo a una dimensione e del Saggio sulla liberazione. Credo che potrebbero avere qualcosa da dire ai loro lettori israeliani, sebbene affrontino in larga misura circostanze e movimenti statunitensi, e so che in Israele i problemi da risolvere sono di natura diversa. Si tratta quasi sempre di problemi legati alla sopravvivenza e non posso contribuire in alcun modo alla loro risoluzione. È vero, il Saggio sulla liberazione parla dei compiti e delle prospettive comuni ad ogni società, e oggi tutte le società hanno bisogno della liberazione. Ma per voi, quanto manca a questa «fine», e quanto è urgente la priorità della sopravvivenza prima di quella liberazione «finale»! Tuttavia, in una delle tesi proposte nei miei libri, affermo che gli obiettivi della liberazione devono esistere precedentemente ad essa, devono essere presenti nel comportamento, nelle azioni e nei valori degli uomini e delle donne che combattono per la liberazione. Non devono subire l'influenza delle necessità repressive e aggressive di una società basata sullo sfruttamento e sul dominio. Credo che la liberazione cominci dal socialismo, non nel senso delle società socialiste attuali, ma nel modo in cui veniva inteso da Marx: una società in cui uomini e donne liberi decidono collettivamente e democraticamente cosa e quanto produrre. Secondo questa prospettiva, il regno della libertà emergerebbe non soltanto al di là e al di fuori del mondo del lavoro, ma anche all'interno di esso, nel sistema del lavoro. Certo, queste istituzioni e questi rapporti socialisti possono essere stabiliti soltanto nella costruzione della nuova società, e non prima. Tuttavia, i nuovi valori, i nuovi obiettivi e il nuovo tipo d'uomo in grado di costruire tale società, possono e devono «preesistere» nella vecchia società. Inoltre, questi uomini e queste donne possono ben essere in grado di organizzare e verificare, su scala ridotta, la cooperazione e la solidarietà del futuro. Possono sostenerle nel caso in cui esse esistano, rifiutare ostinatamente di abbandonarle alla politica del potere: anche questa è una forma di lotta per la sopravvivenza. E la definitiva sopravvivenza della nazione, dello Stato, potrebbe dipendere da quella di questo movimento. Questa è l'esperienza dell'era contemporanea: una società libera non può durare se confinata all'interno dell'interesse di uno Stato-nazione che assoggetta altre nazioni, che sfrutta altri popoli. Questo è il caso degli Stati Uniti. La libertà è quella di tutti gli uomini, di tutte le razze, di tutte le civiltà, altrimenti è essa stessa repressiva, rovinata dalla schiavitù degli altri. La diffusione della libertà è il contrario dell'imperialismo. Non è l'espansione di una nazione e di un interesse nazionale, ma la liberazione, con i propri sforzi, di tutti i popoli assoggettati ad un regime oppressivo, che sia il loro stesso governo o una potenza straniera. I regimi militari e i partiti totalitari non assicurano la libertà e l'indipendenza, non importa se si definiscano o meno socialisti, non importa se abbracciano il nazionalismo bianco, nero, giallo, arabo o ebreo. Soltanto un mondo arabo libero può coesistere pacificamente con una Israele libera. Sono pienamente consapevole del fatto che tutto questo è un sogno per il futuro. Il presente è innanzitutto costituito dalla lotta per la sopravvivenza, dal conflitto armato e dalla sua costante minaccia. Il mio contributo, se in qualche modo esiste, persegue il sogno. Sarei felice se servisse a dare un contributo agli sforzi intrapresi per trasformare il sogno in realtà iniettando nella lotta per la sicurezza della nazione la lotta per la libertà di tutti. | << | < | > | >> |Pagina 265Voglio innanzitutto definire brevemente cosa intendo per valori in questo contesto. Per valori intendo norme e aspirazioni che motivano il comportamento dei gruppi sociali nel processo di soddisfazione e di definizione dei loro bisogni, materiali e culturali. In questo senso, i valori non sono una questione di preferenze personali: esprimono le esigenze dei rapporti di produzione e dei modelli di consumo esistenti. Tuttavia, e questo è decisivo, i valori esprimono, allo stesso tempo, possibilità insite ma represse dalla produttività della società costituita. Consentitemi di fornire alcuni esempi molto familiari di questo duplice carattere dei valori: da un lato, quello di essere legati e confinati al sistema sociale esistente; dall'altro lato, quello di trascenderlo aspirando a possibilità ancora negate dal sistema. Per esempio, il valore dell'onore nella società feudale esprime in primo luogo un'esigenza di base del feudalesimo: la necessità di una gerarchia di dominio e di dipendenza fondata sul rapporto diretto e personale garantito non solo dalla forza ma anche dalla sacralità dei contratti. Il valore della lealtà, proclamato in una società di oppressione e disuguaglianza, veniva idealizzato, sublimato, nell'epica, nei romanzi, nel cerimoniale di corte dell'epoca, ma sarebbe un nonsenso affermare che eroi come Tristano, Parsifal, e altri fossero solo cavalieri e vassalli feudali, che i loro ideali, avventure e conflitti non trascendessero la società feudale; tutt'altro. All'interno e al di sotto del quadro feudale, possiamo ritrovare possibilità umane, promesse, sofferenze e gioie universali. Similmente, i valori di libertà e uguaglianza esprimono prima di tutto le esigenze del modo di produzione capitalista, in particolare la libera competizione tra relativamente eguali, il lavoro salariato libero, lo scambio di equivalenti a prescindere da razza, status, e così via. Ma, allo stesso tempo, gli stessi valori si indirizzano verso forme migliori di associazione umana, possibilità non ancora realizzate. La stessa ambivalenza la riscontriamo in un altro dei valori fondamentali caratteristici dell'epoca moderna, e precisamente nel concetto di lavoro come chiamata e vocazione. Il lavoro è una necessità per tutta la vita adulta, e nella maggior parte dei casi una necessità non piacevole; tuttavia, o proprio per questo motivo, il lavoro viene definito come la vocazione dell'uomo sancita dalla religione. Ora, per la maggior parte della popolazione il lavoro è sempre stato disumanizzante, faticoso, alienante, ovvero un'attività in cui un essere umano non può sviluppare e soddisfare le proprie facoltà e capacità. Allo stesso tempo, questo concetto di lavoro come chiamata e vocazione si proietta verso una attitudine e una posizione molto differente del lavoro nella vita; precisamente, l'autorealizzazione dell'essere umano nel lavoro creativo. Dopo queste preliminari e molto schematiche definizioni, vorrei approfondire due degli aspetti principali del mio argomento, ovvero il ruolo dei valori nel mutamento sociale e la rivoluzione contemporanea dei valori come trasformazione senza precedenti. Comincerò da come si realizza una trasformazione dei valori secondo la teoria marxiana. Nuovi valori socialmente effettivi sostituiscono quelli costituiti se e quando esprimono gli interessi di una classe emergente, in ascesa, in lotta contro la classe dominante esistente. Ma i nuovi valori articolano questi interessi di classe particolari in forma generale, pretendendo che l'interesse di classe sia allo stesso tempo l'interesse universale e, quindi, che i valori di classe assumano la forma di una verità universale. Questo è il carattere ideologico dei valori. I valori sono ideologici in quanto astraggono dalla loro limitazione o negazione nella realtà. Nella società capitalista, libertà e uguaglianza rimangono astratte, libertà e uguaglianza parziali, un privilegio. Ma la stessa ideologia diventa una forza materiale nel processo di cambiamento allorché spinge all'azione politica di massa con l'obiettivo di dare piena realizzazione a quei valori distorti e negati. Ora, è importante sottolineare che la concezione marxiana non implica semplicemente una sequenza cronologica, ovvero prima un mutamento strutturale nei rapporti di classe, poi una rivoluzione dei valori. Affermare che i nuovi valori del socialismo possano essere solo frutto di nuove istituzioni economiche e sociali è materialismo volgare, non dialettico. Piuttosto, l'articolazione di nuovi valori sociali precede quasi sempre l'istituzionalizzazione di nuovi rapporti di classe e di un nuovo modo di produzione. Gli esempi abbondano nella storia. Ne citerò solo due: l'Illuminismo prima della Rivoluzione Francese, e la stessa teoria socialista. Questa situazione illumina il ruolo dell'intellighenzia nel processo di mutamento sociale, di cui parlerò tra breve. La trasformazione dei valori non è solo il riflesso ideologico della struttura sociale. Una trasformazione radicale, invece, articola possibilità storiche radicalmente nuove, forze non ancora incorporate nel processo di mutamento sociale. Una rivoluzione «culturale», intellettuale, precede la rivoluzione sociale, la progetta e ne è il catalizzatore. | << | < | > | >> |Pagina 279Nessun discorso davanti a un pubblico di studenti in questo anno accademico può fare a meno di rievocare gli eventi degli anni Sessanta di cui ora cade il decimo anniversario. Non bastano le facili domande come: Che cosa è accaduto al movimento? È stato un fallimento? Era un movimento marxista? Aveva una base popolare (di massa)? La domanda principale è: qual è il significato del movimento nel contesto globale del capitalismo e del socialismo? (mettendo tra parentesi la questione del fallimento o successo o trasformazione).
Il tentativo di risposta deve
focalizzarsi sulle trasformazioni più estreme,
spettacolari ed effimere, perché è in esse, nelle loro realizzazioni di pensiero
e di azione più oltraggiose, che si rivela l'impatto politico, sociale,
«esistenziale» e «storico-mondiale» del movimento.
GRAFFITI SUI MURI DI PARIGI Vietato vietare. La libertà comincia con un divieto: l'interferenza nella libertà degli altri. Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te. La Rivoluzione deve realizzarsi prima negli esseri umani poi nelle cose. I muri hanno orecchie. Le tue orecchie hanno muri. L'atto istituisce la coscienza. È bello desiderare la realtà! Realizzare i propri desideri è meglio. Il pensiero del godimento di domani non mi conforterà mai dalla noia dell'oggi. Un solo weekend non rivoluzionario è infinitamente più sanguinoso di un mese di rivoluzione permanente. Sotto il selciato c'è la spiaggia. Siamo tutti ebrei tedeschi. Siate salati, non zuccherati. Non sono al servizio di nessuno, il popolo si servirà da solo. La barricata blocca la strada ma apre la via. Chi parla della rivoluzione e della lotta di classe senza far riferimento alla vita quotidiana parla con un cadavere in bocca. L'arte è morta, liberiamo la nostra vita quotidiana. La vita è altrove. La poesia è nelle strade. I limiti posti al piacere suscitano il piacere di vivere senza limiti.
Piu faccio l'amore, piu ho voglia di fare la Rivoluzione,
L'immaginazione al potere!
Questi slogan, facilmente liquidati come espressione di infantilismo «romantico» o peggio, costituiscono, dal mio punto di vista, la risposta al fatto che, oggi, le tradizionali politiche e le rivendicazioni della sinistra (economiche, politiche, organizzative) non esprimono più in modo adeguato le reali possibilità di mutamento sociale, e si lasciano sfuggire un'intera nuova dimensione della liberazione, cioè l'emancipazione dell' essere umano nella sua esistenza pratico-sensibile. Questa radicalizzazione del mutamento sociale è stata determinata e suggerita dallo sviluppo del capitalismo: esso ha raggiunto lo stadio in cui il contrasto tra l'enorme ricchezza sociale e il suo uso repressivo e distruttivo è sfociato nella visione della fine di una vita vissuta per il lavoro e il divertimento alienati, di una trasformazione radicale dei bisogni e dei valori, di progresso qualitativo e non quantitativo, di rottura con il continuum del dominio. Questo è lo spettro che si aggira per il mondo capitalista, anche oggi! È nella politica e nelle teorie degli anni Sessanta che è apparso questo spettro: nell'azione militante degli studenti qui e in Europa; nel movimento per i diritti civili e nel free speech movement; nella lotta contro il sessismo e il razzismo, contro la guerra del Vietnam e successivamente nel Movimento di Liberazione delle Donne; nella lotta contro l'avvelenamento dell'ambiente in cui viviamo... Questi movimenti andavano oltre la lunga lotta per la realizzazione delle libertà civili e politiche. In questa lotta, l'immagine di una società governata da un nuovo Principio della Realtà è apparsa come una riconciliazione tra la libertà e la felicità, tra il lavoro come mezzo per vivere e il lavoro come appagamento e miglioramento della vita. Questi obiettivi «utopici» sono rapidamente divenuti definibili come imperativi razionali ed emozionali, biologici ed ecologici, generati e resi possibili dal livello raggiunto dalle forze produttive, dalla ricchezza sociale disponibile. Nelle parole di uno dei principali protagonisti del movimento, eliminare la fame, la guerra e il dominio era diventato materialmente possibile (Rudi Dutschke, 1967). [...]
Terzo esempio: il
movimento di liberazione delle donne
perché ha in sé il
potenziale
di quella trasformazione dei valori necessaria per la costruzione di una società
qualitativamente
differente. In che modo? Il processo di civilizzazione è stato dominato dal
maschio, patriarcale, il che ha determinato lo sviluppo delle donne non soltanto
(come nel caso degli uomini!) in base alle esigenze della società schiavistica,
feudale e capitalistica, ma anche in base ai bisogni degli uomini in quanto
maschi:
maschio-femmina
è diventato
maschile-femminile. Mentre, come oggetti di sfruttamento, come personificazione
di una astratta forza-lavoro, le donne venivano sempre più impiegate nel
processo della produzione materiale (eguaglianza diseguale dello sfruttamento!),
esse hanno finito anche per impersonare le qualità di sensualità, tenerezza,
cura
che non possono essere dispiegate nel mondo capitalistico
senza minare i suoi fondamenti repressivi. Il regno e l'«aura» della femminilità
sono stati
separati
dal processo di produzione e relegati alla
famiglia –
rifugio della cura domestica, della gratificazione domestica. Ma anche questo
«settore privato» è rimasto parte della gerarchia patriarcale, nel lavoro e nel
tempo libero:
sfruttamento.
Questa divisione e distribuzione delle qualità umane è diventata rigidamente
istituzionalizzata
e si è riprodotta di generazione in generazione. Il risultato è stato che
condizioni
sociali
antagonistiche hanno assunto la forma di
relazioni di opposti
«naturali», intrinseche
qualità antitetiche;
e anche la forma di una
gerarchia
naturale:
Maschio Femmina ------- ------- Produttività versus ricettività Aggressività versus nonviolenza Spirito competitivo versus gratificazione Razionalità versus sensibilità Nel contesto della società dominante, la lotta contro l'imposizione del ruolo sociale della donna assume necessariamente la forma dell' antitesi del dominio maschile. La lotta per la liberazione delle donne qui e ora assume in primo luogo le caratteristiche della lotta per l'uguaglianza a tutti i livelli della cultura materiale e intellettuale. Questa lotta mantiene ancora le qualità della competizione, dell'efficienza e del comando; in altre parole, ha luogo sotto il principio di prestazione. Il sistema dominante muterà solo se l'antitesi femminile all'aggressività del dominio maschile diventerà effettiva, e «generalizzata» nella base della società: nella riorganizzazione e nel riorientamento del processo di produzione; nell'eliminazione delle qualità distruttive della produttività capitalistica nel lavoro e nel tempo libero degli uomini e delle donne. Allora la liberazione delle donne sarebbe anche la liberazione degli uomini, di cui sono anch'essi bisognosi!
Questo progetto estremo può servire come esempio di cosa potrebbe
determinare un mutamento sociale in questo periodo storico! L'ho detto e lo
ripeto: in questo paese il socialismo non è oggi in agenda. Ma ciò che è
veramente in agenda è la creazione delle
precondizioni
materiali e intellettuali per il mutamento sociale. E questo significa: la
protesta organizzata contro le forze sempre più distruttive e disumane della
società. Contro il facile disfattismo: certo, oggi la lotta non è quella delle
masse
che devono vivere con questa distruttività, ma le masse sono fatte di individui,
uomini e donne attorno a noi e in noi, ognuno dei quali, se lo vogliamo, può
diventare soggetto del mutamento, continuando a fare il proprio lavoro:
rendendoci consapevoli di ciò che sta accadendo e aiutando gli altri a
raggiungere questa consapevolezza e coscienza, a vedere che esiste
un'alternativa (che non è quella dell'URSS) e mostrando loro quale azione è
ancora possibile.
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