Copertina
Autore Claudio Marenco Mores
Titolo Da Fiorucci ai Guerrilla Stores
SottotitoloModa, architettura, marketing e comunicazione
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006 , pag. 176, ill., cop.fle., dim. 16x21x1,5 cm , Isbn 978-88-317-8977-6
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe moda , architettura , marketing , comunicazione
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Indice

  7 UNA NUOVA ONTOLOGIA DELL'ARCHITETTURA

 17 MODA, ARCHITETTURA, ARTE

 57 UP THE POP! FIORUCCI

 73 FASHIONING ARCHITECTURE

103 BRAND-SCAPING

141 POP UP!

159 CONCLUSIONI

168 BIBLIOGRAFIA

 

 

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Pagina 7

UNA NUOVA ONTOLOGIA DELL'ARCHITETTURA


L'architettura per sua costituzione è un testo ibrido in cui la possibilità di lettura a livelli molteplici e la caratteristica precipua di circondare del messaggio il fruitore, permettono una complessità di informazioni e di linguaggi non comune ad altra forma espressiva. Con l'avvento dell'economia capitalistica il progetto dello spazio si è sempre più allontanato dalla sua forma ontologica pura: quella di shelter, di riparo in senso lato, per entrare a far parte dei meccanismi della macchina commerciale.

Attraverso onde di espansione, ognuna più estensiva e pervasiva della precendente, lo shopping ha colonizzato uno spettro di territori sempre più ampio sino a diventare molto probabilmente «l'attività che maggiormente definisce la vita pubblica». Questa tendenza è sinonimo di un'accettazione senza compromessi dell'economia di mercato quale standard globale dominante. Riconoscere questa ibridazione fa riflettere sulla necessità di nuovi approcci strategici alla progettazione nonché sul ruolo dell'architetto stesso nella dinamica progettista-committente. Il fenomeno dei marchi o brand cambia (o arricchisce) ulteriormente la funzione del progetto.

In modi diversi e in combinazione con le nuove conoscenze psicologiche e con il supporto delle altre arti visuali l'architettura è diventata un utile strumento per definire e localizzare un marchio o un prodotto sul mercato, o meglio, nel gap tra la ragione e il condizionamento che è chiamato "immaginario collettivo" del consumatore medio.

Il brandscaping, la messinscena del marchio, si mescola al tentativo di proporre stili di vita complessi come esempi di una progettazione globale, o total living. L'accettazione inevitabile, seppur contro gran parte della critica, che l'architettura come fatto sociale non sia più — o non sia mai stata — esente dal sistema della moda, mai come in questi ultimi decenni così ubiquo, implica una ulteriore analisi sulla possibile, a volte auspicabile, obsolescenza rapida/programmata/inevitabile del progetto di architettura.

La moda è stata — e ancora è, per molti versi — comunicatore per eccellenza. Abile nel comprendere le tendenze ma anche capace di uscire dalla logica della sola parola per muoversi sul terreno della comunicazione articolata. Un terreno dove immagine, colore, trattamento del soggetto e narrazione — cioè tutto ciò che in molti settori pare dettaglio — assurge a protagonista.

Tra i primi a comprendere la portata sociale dell'ibridazione dei linguaggi è proprio Elio Fiorucci che sin dal maggio del 1967 con l'apertura del suo primo punto vendita a Milano, istituzionalizza il concetto di lifestyle, nelle sue parole «contro l'autorità e la noia».

Negli anni ottanta, la situazione è ancora eterogenea e ciò che vende è il marchio, la firma. Da un lato la nascita dello stilismo rendeva un vanto l'assicurare che ogni negozio di Giorgio Armani o di Louis Vuitton da New York a Helsinki sembrasse uguale, dall'altro brand allora famosi come Esprit commissionavano a designer e architetti del calibro di Norman Foster, Shiro Kuramata, Ettore Sottsass i progetti dei vari punti vendita all'insegna del divertimento e della creatività.

In seguito il binomio stilista + architetto come Calvin Klein e John Pawson introdurrà il trend minimalista, seguiti da Giorgio Armani e Claudio Silvestrin. Il negozio di moda diventa alla fine degli anni ottanta per default simile a una galleria d'arte: lo spazio quasi vuoto, monocromatico, monacale, è lo schermo neutro in cui la moda può assumere un connotato di importanza. Rendere legittima se stessa e il suo costo.

In questo panorama il Giappone costruisce un mondo di riferimenti a sé stante.

Le sperimentazioni degli anni ottanta e novanta di Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto e Issey Miyake sono materiche, spaziali e comunicative. I designer giapponesi esprimono il concetto estetico di wabi-sabi: la bellezza imperfetta delle cose, temporanea e incompleta. I negozi possono essere gabbie di metallo traforato, i muri ricoperti di cocci di vetro, addirittura a volte non contenere i prodotti in vista. Il termine ma indica nell'estetica giapponese un'entità fra: un tempo fra due eventi, uno spazio fra cose, la relazione fra due persone, o anche fra due momenti diversi di uno stesso soggetto, nella vita quotidiana, nelle arti marziali, nell'arte e nel teatro.

I margini del ma tra moda e architettura negli esempi giapponesi del passato si avvicinano.

E continueranno a farlo fino a oggi.

In Occidente Esprit sperimentava il gioco della mutevolezza alla ricerca dell'essenza del brand attraverso il cambiamento. Prada oggi ricalca quest'esempio cercando affinità elettive con Rem Koolhaas, Jacques Herzog e Pierre de Meuron e Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa/SANAA con cui progetta i supercelebrati Epicenters.

Viene seguita a ruota da tutti i marchi globali che hanno compreso l'importanza di un adeguato teatro della loro estetica. Hermès, Tod's, Louis Vuitton, Dior e Chanel così come Miyake, Stella McCartney, Alexander McQueen e tutti gli altri pretendono spazi commerciali significativi. L'architettura dello store diventa "fashion statement", ideologia effimera.

Provocatoriamente Rei Kawakubo, la mente di Comme des Gallons, scommette invece che l'entusiasmo per le super architetture porterà a un vicolo cieco.

L'approccio radicale a moda e comunicazione che dimostra sin dal 1973 produce oggi quelli che lei chiama guerrilla stores. Spazi liberati. Temporanei. Grezzi. Difficilmente distinguibili da occupazioni squatter. Raccoglie in essi la sua moda ma anche le eclettiche ricerche di altri designer, compresi quelli locali. Diventa editor oltre che designer.

Per un anno solo però, comunque vadano le vendite. Poi i guerrilla stores chiudono, vengono abbandonati per riapparire in altri luoghi del mondo, sicuramente non nelle vie dello shopping, sicuramente e snobisticamente sottotono.

Una sorta di rave di lusso in cui contenitore e contenuto diventano evento e con lo stesso ritmo accelerato appaiono e scompaiono. In scala diversa Antonio Marras e la Maison Martin Margiela provano invece a esplorare la loro capacità di modellare gli spazi in cui si insediano con segni minimi. Intervengono con la loro poetica su luoghi trovati di cui esaltano la storia e le memorie. Le architetture sono già esistenti e loro ne diventano gli inquilini amorevoli. La personalizzazione è un altro tema in cui le strategie di brandscaping si avventurano. Meno architettura "di edifici" più architettura di interni e di poesia.

Le avventure con cui raccontare nello spazio un marchio di moda sono molteplici. Il principio dell'identità, per ricondurre tutti i messaggi a un'unica fonte — vedremo con Fiorucci —, è raggiungibile attraverso modalità eterogenee.

A volte l'eclettismo "volge al criminale" (come si disse delle provocazioni di Alexander McQueen) a volte il rigore degli spazi li rende talmente neutrali da poter essere scambiati di brand in brand senza quasi accorgersene. Altre volte ancora l'architettura diventa il perfetto palinsesto per una storia creativa di continuità in cui contenitore e contenuto resistono alle reciproche provocazioni e si esaltano vicendevolmente.

Come Deyan Sudjic osserva, forse Rei Kawakubo ha trovato il modo più d'avanguardia di legare moda e architettura: rendere l'una così invisibile da scomparire nell'altra.

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CONCLUSIONI


Sarebbe infine importante che all'interno degli studi di architettura, oltre alle tecnologie, ci fossero impegno civile, umiltà, professionalità, passione... Sembrano fattori scontati ma sarebbe altrettanto positivo si spegnesse un po' questo rincorrere la moda, lo show, la comunicazione in sé, l'idea di essere sempre "à la page".
Fare l'architetto significa esser calmi, tranquilli, lasciar passare il tempo, lavorare per la lunga durata...

(Vittorio Gregotti in un'intervista affissa nelle bacheche dell'università IUAV di Venezia, qualche anno fa).


Qualche anno fa, ai tempi della mostra alla Fondazione Prada di Milano, Vittorio Gregotti attaccò violentemente sulle pagine del «Corriere» i lavori di Rem Koolhaas e Herzog & de Meuron per il grande progetto degli Epicenters.

Allora egli disse dell'operazione che probabilmente si trattava

solo (e non è poco) del tentativo di annullamento del significato, della fusione nella pura immagine multimediale (come si dice oggi) di discipline un tempo diversamente fondate, della frammentazione degli elementi ridotti a pezzi di materie staccate, della separazione rigorosa delle forme e del loro uso.

Le sue affermazioni suscitarono un violento dibattito.

Si discusse a lungo su quale fosse il valore di architetture tanto legate alla moda o in generale ai fenomeni effimeri del mercato.

Da un lato c'era Gregotti che le definiva semplicemente delle scenografie che coincidono semplicemente con il gusto oscillante della maggioranza.

Dall'altro, primo fra tutti, Rem Koolhaas che, di contro, affermava recisamente il nuovo status ontologico dell'architettura. Il richiamo alla semplicità del pensiero e all'uso strumentale delle nuove tecnologie e forme di comunicazione di Gregotti si scontrava con la nuova figura di architetto proposta da Koolhaas, capace di ibridarsi con le altre discipline delle arti visuali (scenografia cinematografica e televisiva, videoclip, spettacoli rock e soprattutto moda, insieme a tutto il loro contorno di mezzi di comunicazione di massa) in cui spesso e fortemente il progetto comunica identità precise.

Così come Gregotti, larga parte del mondo accademico si oppone alle nuove modalità sia espressive che di comunicazione dell'architettura contemporanea, tacciandole di superficialità.

L'architettura si carica di altre funzioni (prima fra tutte il commercio) e, secondo molti, perde il suo ruolo principe di arte sopra le altre perché — anche — funzione dell'abitare.

È un fatto storico che la connotazione che viene attribuita al termine alla moda sia totalmente negativa, da Adolf Loos a Le Corbusier sino ai giorni nostri.

Una così rigida definizione forse non è più accettabile.

Mai come adesso la professione è nella necessità di ri-definirsi.

Il concetto di architettura come riparo non basta più, e forse a un'attenta analisi non è mai stato sufficiente. L'architetto si trova imprescindibilmente a dover includere nel suo progetto una nuova serie di questioni che fino ad oggi aveva snobisticamente tralasciato o finto di non considerare.

L'architetto moderno è per definizione regista di competenze molteplici. Il suo ruolo è la ricerca dell'eccellenza delle parti: la buona architettura ha quale compito preciso quello di sollecitare i gusti della maggioranza per rispondere alla sua necessità di autorappresentazione con gli standard più elevati.

E per questo di usare ogni possibile forma di espressione.

La ricerca sull'uso delle opere architettoniche per la definizione di brand identities, identità aziendali di marchio, si è dimostrata insufficiente a definire la complessa rete di implicazioni culturali incluse in queste tipologie di progetti.

Come si è visto, l'architettura come strumento del marketing non è un fatto nuovo.

Il racconto che abbiamo fatto sui marchi della moda e sul loro display è significativo per indagare quale sia il massimo carico di messaggi/funzioni ascrivibili a un singolo manufatto architettonico.

La quantità di architettura con cui la moda, da sempre considerata ai margini, tenta di legittimarsi nel mondo culturale, è significativa in primo luogo.

Il proliferare di opening di nuovi spazi di progetto d'immagine coordinata fa sentire sempre più pressante la necessità di autorappresentazione dei brand sino alle estreme periferie del mercato.

In alcuni casi la differenza nei tempi così accelerati della moda e del gusto e la permanenza almeno supposta dell'architettura sono di stimolo alla ricerca di forme compatibili.

La committenza che vuole rendere esperibile tramite l'architettura l'identità del suo progetto aziendale è, in un certo senso, vicina all'idea di committente rinascimentale.

Il meccanismo di rappresentazione del potere, che è un codice effimero e intangibile, viene reso fisico dall'architettura.

La caratteristica che più affascina nella ricerca è la volontà fortissima di dare legittimazione a un'idea (principalmente commerciale) attraverso forme e spazi tangibili.

La "mission aziendale" che si manifesta.

Stores e corners all'interno di spazi commerciali vasti, piuttosto che veri e propri edifici complessi, fabbriche, headquarters, centri direzionali e flagship stores, diventano a volte più importanti del bene/prodotto stesso. Rappresentativi di una filosofia profonda del marchio e costitutivi di un'entità a cavallo tra i tangible e intangible assets dell'azienda.

Jean Baudrillard, in La société de consommation dice: «La società medioevale era bilanciata tra Dio e il Diavolo, la nostra, è in equilibrio tra il consumo e la sua denuncia».

Quella che forse più si avvicina all'ammissione della rottura dello statuto temporale dell'architettura, non più manufatto destinato all'eternità, ma mutevole, in costante fluire nel tempo (e quindi più vicina alla moda), è la "teoria dromologica" di Paul Virilio.

Virilio sostiene la velocità crescente come alla base della logica dell'organizzazione del mondo contemporaneo.

Già nel gruppo Architetture Principe, da lui fondato nel 1963, insieme a Claude Parent si diceva che il fallimento del Movimento Moderno fosse da attribuirsi proprio al suo proclama di assoluta legittimità; Parent rilevava come il fallimento dell'ideale moderno, o meglio la sua non completa realizzazione, portasse a chiedersi se esistesse veramente una forma che rappresentasse un'estetica assoluta data la sua impraticabile — e impraticata — applicazione universale. Virilio e Parent proponevano quindi la «funzione dell'obliquo» come unica possibilità di includere nel progetto il dubbio, l'incertezza e la mutabilità.

La teoria dromologica, dalla parola greca dromos, è per Virilio la scienza del viaggio, del percorso e dell'accelerazione: nella nuova società, le successive ondate di accelerazione (dovute principalmente alle nuove tecnologie) hanno implicato sia la scomparsa dello spazio fisico geografico, sia l'applicazione di una nuova politica del tempo. Questo porta a quella che Virilio chiama «estetica della sparizione». Per estetica della sparizione Virilio intende ciò che è causato dagli effetti cinematici caratteristici delle arti contemporanee che derivano dal cinema, dalla televisione ecc.

In questa fase del processo produttivo delle immagini estetiche, la persistenza perde la necessità di un supporto: è una esistenza cognitiva; che sta nell'occhio dell'osservatore.

Le cose per Virilio devono la loro esistenza al fatto che esse scompaiono (come un'immagine sullo schermo). L'accelerazione dei fenomeni porta a una maggiore difficoltà nel costruire qualità per il vantaggio, d'altro canto, della velocità.

Dice:

Perdendo il ritmo lento della rivelazione delle cose abbiamo perso un senso in favore di un altro [...] Un esempio: nel momento in cui abbiamo introdotto l'ascensore abbiamo "perso" le scale. Sono diventate le scale di emergenza o di servizio e non si aveva più il grande scalone del passato. Ma abbiamo guadagnato in velocità — come sempre accade. Quando furono inventati i voli transoceanici, è avvenuta la perdita delle compagnie transatlantiche.


La necessità di creare nuovi codici — ed essenzialmente, come conseguenza, un sistema di parametri di critica — è quindi impellente, cambiando i presupposti del fenomeno architettonico.

La questione non viene di nuovo posta in termini di moda o di fenomeni sociali, ma come strettamente legata allo sviluppo tecnologico in prima istanza.

Oggi lo spazio critico è per Virilio lo spazio architettonico sul punto di diventare spazio virtuale (negli anni sessanta con Parent era, in nuce, lo spazio obliquo).

La dimensione temporale è critica in questa fase dello sviluppo dell'architettura. E dell'architettura legata alla moda. Poiché essa, in senso lato, costituisce il fenomeno più pervasivo della società contemporanea e sicuramente il motore primo del gusto globale.

Lo «spazio antico» o convenzionale, come lo definisce in Lost Dimension, è quello architettonico, inconciliabile con le mode perché temporalmente tendente alla permanenza.

È quello che in termini più materiali dichiarano anche il gruppo di Archigram, fondato da Peter Cook negli anni sessanta, e più recentemente Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio (Diller+Scofidio), nelle cui opere i media si incrociano senza soluzione di continuità e si indaga il modo in cui tecnologia e tempo entrano a influire sulla nostra vita.

La questione della permanenza dell'architettura e i suoi valori di giudizio crollano nelle iperpossibilità in cui declinare lo spazio fisico interconnesso.

Le dimensioni classiche del progetto non esistono più. Ed è questa la realtà che affronta l'architetto moderno.

La moda viaggia in una dimensione temporale che tutto fagocita e l'architettura inevitabilmente scompare. Una sorta di black hole che utilizza sino al loro annullamento gli strumenti e i mezzi di cui si serve.

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