Copertina
Autore Alessandro Mari
Titolo Troppo umana speranza
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2011, I Narratori , pag. 752, cop.fle., dim. 14x22x4,5 cm , Isbn 978-88-07-01830-5
LettoreRenato di Stefano, 2013
Classe narrativa italiana
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Indice


    11   Parte prima
         IN TRE PASSI

   181   Parte seconda
         IL BUONSENSO DELLA CARNE

   569   Parte terza
         L'ANIMA STANCA

   747   Nota dell'autore

   749   Ringraziamenti


 

 

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Pagina 13

I



Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato, certo, non si fa. Rischi invece se ne corrono, e di sovente. Si metta il caso di andare in un paio di zoccoli e senz'accorgersi di spataccare sotto la suola una chiazza venuta da chissà dove; si affondano le dita, tutto il calcagno, e patatràc: riccioli di viscidume risalgono il piede quasi fossero tentacoli di un essere di merda, e lo zoccolo è presto inghiottito. E il puzzo! Gelosamente custodito, allo schiudersi della chiazza si leverà come uno zampillo caldo di fontana... Insomma, la merda a maneggiarla c'ha i suoi contrattempi, ma a prestare l'attenzione necessaria si potrebbero goder le gioie di trafficarla, e nel far così vagolare per viottoli e stradicelle, orti e porcilaie, conoscere ogni braccio di terra e divenire pratici di tutte le cascine. S'apprenderà dove coglierne di fresca senza rimediare bastonate, la maniera di rimestarla e miscelarla, diluirla e custodirla fino alla benedizione e poi menarla per il borgo in ogni sua periferia, là dove la terra ingolla ogni pioggia senza lasciarne alle colture, cedendo alla propria anima di brughiera. E a menar merda ci s'intenderà coi fattori e le pie donne, s'arriverà a comprendere come distinguere bestia da bestia per qualità del defecare – "si è quel che si caga," ha detto una volta un tale, "ed è meglio tenerlo a mente, ché la merda non dà scampo. Un giorno o l'altro ce l'hai nel piatto o ci sprofondi". Con l'onesto lavorio e un po' di buona sorte, infine, al passare del carro e della sua odorosa mercanzia le genti leveranno le mani in segno di saluto, e con due dita vorranno ben turarsi il naso. "Ah! Θ arrivato il menamerda!"

Il tramonto non è lontano, l'aria marzolina eppure già di primavera. L'orizzonte è di pianura, largo, le Alpi lo serrano a settentrione e altrove c'è soltanto cielo. Spira un alito di vento, inclina i pennacchi che si levano numerosi dai campi e dalle corti, e dappertutto si ode risuonare secco il crepitio dei falò appena avviati. Era il dì di San Giuseppe, e il fumo saliva da fiamme che divoravano tutto ciò che i paesani davano loro in pasto, che fossero stoppie o fascine umide, finanche la manciata di polvere rimasta sul fondo di macine e frantoi. S'incenerivano vecchi stocchi di frumento e bucce di castagna, sterpaglie e ciocchi torti, perfino i rametti durati all'ultima sfogliatura dei gelsi. Certi ragazzetti col moccio sull'orlo del naso s'industriavano a rubare qualche chicco e nonostante la minaccia d'un manrovescio lo gettavano tra le fiamme, tappandosi le orecchie per via del fragoroso scoppiettio; vivaci, allora, le risate si fondevano coi rimbrotti e con le invocazioni ripetute allo sfinimento. Si purificava la terra col fuoco affinché s'avverasse una stagione buona, e a incrociare ogni compaesano si avvertiva il medesimo, speranzoso mugugno di preghiere: che i focolaí di colera si spegnessero prima che si ripiombasse nei giorni cupi; che la masnada di tognìtt austriaci e tedeschi – e croati, che i croati "son brutte bestie" – se ne tornasse a casa propria ad angariare qualche Asburgo anziché la gente del borgo; che la vecchia schiantasse sfuggendo a nuove pene; che la fulva s'arrendesse a im- boscarsi nel fienile; che là sotto il marito ormai svilito tornasse come un tempo; che ul Tempesta, fabbro da schiaffoni duri come grandine, non se ne avesse a male per quel carico guastato. E che san Giuseppe mandasse pioggia il giusto e un'estate da non soffocare nell'afa, e che Iddio garantisse il raccolto, mica che si morisse di fame come l'anno andato, che i pozzi erano asciutti e così le rogge, senz'acqua i prati e le spighe smilze, e i castagni, le viti, i gelsi, tutto sciupato, le bestie senz'alimento, coi muggiti famelici che squassavano le stalle, magri pure i bachi da seta...

Primaverile. Per il borgo spirava una brezza che odorava di rinascita e il soffio invogliava a fugare le paure, ché a pensarle si temeva si attuassero per colpa di una diavoleria. Non mancavano gli audaci, i quali s'arrischiavano a immaginare le sciagure più tremende, illusi di poterle esorcizzare a sola forza di pensiero, ma in ogni caso oggi nel petto di ciascuno avvampava un bisogno di speranza, e dunque, per devozione ma con economia – si raccomandasse pure la terra al santo, ma mica si sprecasse il poco che Domineddio aveva dato in dono –, ecco bruciare smilzi roghi da lasciare alla notte. Allo svaporare della bruma mattutina, una volta spenti i lucori delle ceneri ancora tiepide, sulla terra nera di campi, orticelli e semenzai si sarebbe versata qualche badilata di concime. Non quello delle rare bestie dei villani, povero, ammonticchiato nei letamai delle cascine ad alimentare mosche e scarabei. Alla terra si sarebbe offerto concime santo, quello che nel borgo di Sacconago consegnava a domicilio Colombino. Letame benedetto.

"Eugenio, corri! Eugenio, è arrivato il menamerda!"

Strascicante e ritorta dal gran filare, la sciura Emilia s'era decisa ad affacciarsi per una boccata d'aria, e rimboccatasi lo scialle sui capelli color topo aveva inspirato una e un'altra volta, le palpebre serrate, ché al telaio la luce era poca e benché il pomeriggio si spegnesse ormai nella sera, a contatto col giorno la polvere di bumbasina bruciava gli occhi. Un'improvvisa fitta al rene le aveva tirato il fiato e l'aveva costretta a poggiare il palmo allo stipite, ma il dolore era scemato presto, perciò la sciura Emilia aveva pensato bene di dedicare una preghiera a san Giuseppe. Sollevato lo sguardo – gli occhi ancora chiusi – si era figurata il cielo e il santo, e quello, barbuto, le aveva sorriso radiosamente: A te, beato san Giuseppe, stretti dalla tribolazione, ricorriamo e via dicendo, finché terminata la preghiera non era giunto il momento personale: San Giuseppe, tu capisci, tu perdoni, e io mica vorrei farti dispiacere finendo tra i derelitti di cui già ti prendi cura... guarda che bei fuochi t'abbiamo acceso! Mandaci una bella stagione. E avanti così, in una sequela di Ti prego finché l'Emiloa, persuasa della misericordia che il santo le avrebbe accordato, aveva finalmente aperto gli occhi e allargato le narici per inspirare a fondo. Era stato quello, l'attimo in cui aveva avvertito la mefite così penetrante d'asciugarle la saliva e rattrappirle le gengive come accadeva nel masticare una radice di cren. La donna aveva aguzzato la vista spuntata, e così aveva scorto il carro avvicinarsi col suo lento rotolar di ruote e il seguito di bombi, lucidi mosconi e moscerini turbinanti – che parevano vociare con riottosità: "Lontani, felloni, qui è tutta roba nostra!". A trainare il carro non c'era il solito mulo, ma quel somaro di Colombino.

"Eugenio, vieni, è arrivato ul menamerda!"

Emilia strillò ancora ed ecco sbatacchiare le porte dell'intero casolare e farsi sulle soglie gli abitanti; le donne al telaio fecero capolino, subito accorse lo stuolo di figli d'ogni età, i sopravvissuti, gli scalzi e quelli insandalati, i rincasati dai capanni della tessitura e quelli troppo giovani se non per dar manforte nelle faccende domestiche. Anche il marito dell'Emilia, il sciur fattore Eugenio, per via del gran chiamare arrivò dai campi dietro il casolare.

"Buonasera, sciur Eugenio," lo salutò Colombino.

"Ma che sciur e sciur! Se cerchi qualche signore è meglio che vai da un'altra parte," lo rimbrottò il fattore col solito piglio asperrimo. "Che se finisce come l'anno passato, qui si sloggia," aggiunse dando parole alla sfiducia, ma in tono beffardo, come fosse una mezza battuta, per non contaminare gli altri col malessere delle preoccupazioni.

"Scusate, mica volevo..." fece per giustificarsi Colombino mentre una goccia di sudore rotolava dall'ascella giù per le costole.

"Il mulo?" lo interruppe il sciur Eugenio, accigliato. Quel testone di Colombino era arrivato tirando il carro a mano! "Sarà mica malato?"

"Sì," ammise il ragazzo. Col braccio sinistro frattanto seguitava a reggere una delle due stanghe e con la mano destra, invece, cercava il ramo di robinia sagomato a mo' di forcella. Il sciur Eugenio non mancò di notare la legna che faceva bella mostra di sé accanto al grosso tino sul pianale, e capì che i ciocchi dovevano essere il guadagno dell'ultima consegna del menamerda.

"Creperà?" s'intromise allora uno dei contadini. Il sciur Eugenio annuì come se quello gli avesse rubato la domanda, ché a mandare avanti la cascina della Formaggiana, a far di conto tra il fitto, il raccolto, l'uva, la filatura, i bachi da seta e tutto ciò che si poteva produrre, il fattore ben sapeva che ogni bestia, pure se malridotta, era ricchezza rara.

"No, no. Giusto una colica, ma benigna!" lo rassicurò Colombino col sorriso al pensiero dello scampato pericolo, mentre ancora cercava con la mano libera la forcella da ficcare sotto la stanga, affinché il carro non s'inclinasse e rovesciasse oltre la sponda l'odoroso carico.

Il sciur Eugenio ne parve sollevato, e si voltò per rivolgere un cenno agli altri villani riuniti. Colombino intanto sentì la forcella sotto le dita, la afferrò e la mise in posizione. "Che bei fuochi avete fatto!"

"Che ci valgano una bella stagione," rispose il sciur Eugenio.

"Che piacciano a san Giuseppe," precisò l'Emilia segnandosi.

"Gli piaceranno di sicuro! Son come tante funi che si può salire su nel cielo. Son proprio belli," concluse Colombino; si concesse un istante per rimirare i fuochi e l'orizzonte che si tingeva di viola, l'immensa pianura che correva fin dove l'occhio sfocava. Dopodiché riportò lo sguardo alla cascina, e con un certo batticuore prese a perlustrare i visi e le soglie.

"Allora?" lo incalzò il fattore, "mica vorrai tirare sera?"

"No, no," sorrise Colombino, ma con disappunto; lui era di quella gente che i moti d'animo non sapeva trattenerli. Menar merda non era poi una mala occupazione, in fin dei conti, soprattutto se nel naso c'infilavi due rametti levigati a fare da tamponi, e se ad alleviare la fatica c'avevi una speranza.

"Colombino, vedi bene di non darci qualche male."

"Qui è tutta roba buona."

"Buona come il colera?" brontolò uno dei villani al ricordo dei mesi disgraziati che lo avevano lasciato senza un figlio. Che il nuovo contagio potesse spazzare via i due anni trascorsi pressoché indenni dava a tutti un gran tormento.

"Ringraziando Iddio è stato solo un focolaio, mica come il '37," lo tranquillò Colombino. Nel dire così si rese conto che l'anno, quel 30 più 7, anzi, come diceva e scriveva il curato, quel DiCiCiCi e poi X-X-X e Vi e doppia I, e avanti a tutto la M di mille, ossia MDCCCXXXVII, che la data insomma s'era impressa nella sua mente grazie alla straordinaria epidemia di due anni prima, e grazie pure all'ordinanza che l'Ufficiale Sanitario aveva consegnato a don Sante con stampigliata, ben leggibile accanto al bollo, la data. Colombino si assentò in quel momento di mirabile coscienza, ma si riebbe prestissimo. "Stasera con don Sante liberiamo pure l'oratorio."

"Ah."

Alla notizia il fattore e i contadini emisero uno sbuffo di sollievo. Se il lazzaretto chiudeva, il pericolo poteva dirsi scampato.

Finalmente Colombino afferrò il badile, sollevò una presa gocciolante e mostrò la mercanzia senza smettere di lanciare rapide occhiate agli usci della cascina. E fu mentre lasciava odorare il letame benedetto che accadde. Da una delle soglie, incespicando tra parenti e coabitanti lì raccolti, ecco emergere Vittorina. Pareva che lo sguardo di Colombino avesse saputo attirarla sull'aia, ma in verità le cose si erano svolte assai diversamente: la sciura Emilia, rientrata in casa, aveva infatti strappato la figlia al pedale del telaio, ché ogni madre sa quanto una bella figlia giovi agli affari.

"Buonasera, Vittorina," disse Colombino, raggiante nel vedere coronata la speranza che l'aveva animato e spronato a raggiungere la cascina più lontana malgrado la somma faticata di quel giorno.

"Buonasera, Colombino," disse Vittorina, che intanto poggiò lo sguardo sulle spalle larghe del ragazzo; nella frescura del pomeriggio fumavano, forse accaldate da tutto quel trainar da mulo.

"Buonasera, Vittorina," ripeté Colombino arrossendo. La ragazza, rossa a sua volta, agitò la mano.

"E allora?" fece il sciur Eugenio rompendo il sentimento.

"Scusate, sciur Eugenio."

"Ma che sciur e sciur! I signori stan con le mani in mano, e ti toccherà cercarli altrove! Noi, qui, sbrighiamoci."

Colombino allungò il badile fin sotto al naso del sciur Eugenio, poi di nuovo ai contadini attorno al carro. "Vedete, è roba fresca. Impastata e lasciata riposare. Strame, cacca e piscio... e stamattina la benedizione," dichiarò con una punta d'orgoglio.

"Se stavolta è santa quanto odora, caro Colombino, siamo a cavallo," disse il fattore inspirando e sfregandosi le mani. L'odore era così corposo che il letame benedetto quasi gli si materializzò sulla lingua e contro il palato.

Ne seguì un gran farfugliare, e mentre i contadini si accordavano su quantità e ripartizioni Colombino attese, lieto di farlo; cercò Vittorina più e più volte, le riservò occhiate molli che non sfuggirono né alla sciura Emilia, né a due dei fratelli della ragazza. Ignaro di tutto, Colombino si lasciò incantare dal volto che si faceva largo come un trastullo dentro i capelli bruni, sotto sopracciglia folte che quasi si toccavano, e gli occhi così neri e grandi che non si capiva dove guardassero, come se non avessero pupille, quasi fossero quelli di una mucca. S'immaginò con lei, correvano assieme tra i campi e nell'aria c'era odor di pelle infuligginita...

"Ormai s'è fatta sera!" protestò il sciur Eugenio.

A Colombino toccò riemergere con amarezza dalle intime visioni: "Bene, quanto?".

"E tu quante braccia di legna vuoi per un letame da secchiare l'orto e 'vanzarne un po' pei campi?" parlò allora l'Emilia, trascinando per il braccio la sorridente Vittorina.

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Pagina 18

"Siete audace."

"Direi sincero."

Senza muovere d'un nulla il busto irrigidito dal corpetto, donna Teresa scavallò e riaccavallò le gambe tra le sottogonne di garza e accennò un sorrisetto. La luce del tramonto, smorzata dai tendaggi verdi e dagli spessi vetri alle finestre, filtrava in larghe lame ammorbidendo l'atmosfera. Illanguidiva la stanza. Il corpetto strizzava i seni della donna fin quasi a farli traboccare.

"Ha ragione il caro pittore. Il mio ritratto ha bisogno di riservatezza. Lasciateci."

Bastiàn, entrato per le candele della sera, annuì e s'affrettò a rimbalzare da un torciere all'altro, e incendiati gli stoppini scivolò verso l'uscita, a occhi bassi. Dopo aver mosso un passo oltre la soglia, tuttavia, s'incagliò in Bini, di battesimo Albina e ormai di cinquant'anni, vedova d'un brav'uomo nonché fantesca che s'aggirava per il palazzo col titolo di Massaia e Governante. Donna massiccia, Bini, risoluta nei modi e nelle sembianze, di quelle che disdegnavano le cerimonie e l'andare troppo per il sottile. A piedi ben piantati la fantesca squadrò Bastiàn, che di rimando sospirò giacché odiava esser coinvolto, ché lui ci aveva impiegato sessant'anni per guadagnarsi l'onore di servire a palazzo al riparo dalla galaverna e dal vento che pasce il catarro. Biní scrollò la testa in segno di biasimo e scansato Bastiàn raggiunse il canapè cremisi e panna su cui posava imbellettata la signora. Lei l'aveva capito subito, da quando il maramaldo aveva varcato l'uscio: il pittorucolo avrebbe voluto darci dentro di buona lena e con durevolezza persino, ma non fosse mai che il signor Malesani, il sciur padrone, tornasse prima dell'ora solita, e odorato il puzzo di bruciato si mettesse a fare il diavolo a quattro! "Mia signora, è molto che posate e il bustino non vi lascia respirare. Forse si dovrebbe riprendere la seduta domani. D'altronde non è convenienza che si continui con così poca luce se c'è tutto un giorno avanti." E incurvandosi quasi a lambire l'orecchio della signora: "Non vorremmo che con la sera il pittore avvertisse il bisogno d'accendere anche la propria, di candela...".

Donna Teresa frenò una tosse incollerita e senza venir meno alla posa schiuse le labbra generose. "Sconveniente è la vostra impertinenza," sussurrò, "e non è certo colpa del caro pittore se la vostra stanza è buia ormai da anni. L'ultima candela che v'ha rischiarata è stato il cerone della veglia mortuaria, dico bene? C'avrete le ragnatele." Bini non s'era attesa un complimento, ma quella malignità la ferì. S'inchinò, doma e immalinconita al ricordo di suo marito, pace all'anima sua, dopodiché prese a indietreggiare; avrebbe voluto raddrizzare le spalle, stare fiera ed eretta, ma l'anchilosi degli anni glielo impedì, sicché spinse Bastiàn nell'anticamera e chiuse i battenti della porta del salone. Donna Teresa osservò compiaciuta la dipartita.

"Spero che l'interruzione non v'abbia recato impicci."

"Non è facile distogliermi dal soggetto."

Donna Teresa accennò un inchino col capo: "Sapete il fatto vostro, voi. A quanto mi dicono, all'Accademia avete preso lezioni dal maestro Sabatelli, della corte di Maria Luisa di Borbone, la duchessa di Luc-".

"Se posso permettermi, mia signora," la interruppe Lisander con piglio borioso, "nelle lezioni il Sabatelli è stato spesso sostituito dal maestro Hayez, dal quale, a onor del vero, non ho timore di confessare d'aver appreso una delicatezza che il Sabatelli non possiede. Il tocco di Hayez è leggero come una piuma ma intenso come fuoco. Avete mai veduto la sua Venere? Uno splendore."

"L'ho veduta, altroché. Ma più ancora mi lascia stupefatta lo scoprirvi poeta, oltreché pittore e galantuomo! Se vi capita di risalire Corsia dei Giardini, fate una deviazione e andate a bussare al palazzo di messer Manzoni. Magari vi riesce d'averne una lezione che possa ancora migliorarvi."

Che lagna, pensò Lisander, in ogni salotto il medesimo frasario. Del resto, "dimora che conosci, trombone che ritrovi" era uno dei motti di Gegé lo Schiocco, detto così per via del modo in cui faceva schioccare la lingua quando sputava e per la sferzosità dei commenti; Gegé era uno della cerchia del ritrattista, i cosiddetti Romantici di Sbieco. Nascosto dietro la tela inforcata sul cavalletto, Lisander si apprestò a precisare con quel po' di burbanza che – sperava lui – avrebbe colto nel segno: "Ve ne prego, a ognuno la sua arte: ciò che è la penna per lui, è per me il pennello".

Donna Teresa sospirò, Lisander vide il petto gonfiarsi provocante e tacque. La signora doveva ancora crogiolare, si disse, quindi ritoccò svogliatamente i capelli bruni e ammorbidì la linea del naso, troppo pronunciata nella realtà; il dipinto avrebbe mancato di verosimiglianza, ma non era questo ciò che chiedeva il gran mondo di Milano? Da appendere in cornice non serviva l'immagine veduta dall'occhio fisico, ma quella intuita dall'occhio della mente. La bravura d'un pittore, coi signori di società, fossero borghesi o notabili o patrizi, stava tutta nell'indovinare quale raffigurazione avesse di sé l'individuo da ritrarre. Lisander lo vedeva come un gioco di prestigio: la persona posava, lui frugava nell'animo del Soggetto con dita invisibili e sulla tela appiccicava l'immagine che egli o ella smaniava, le fattezze con cui avrebbe voluto dare mostra di sé; era così che Lisander s'era guadagnato la fama di "ritrattista insuperabile" tra molti palazzi cittadini. Non che la fama gli garantisse un gruzzolo adeguato, dacché il Narducci, il principale alla bottega, non scuciva mai i lacci della borsa, ma le cose sarebbero cambiate, meditava Lisander, e proprio grazie alla sua capacità di entrare in sintonia col Soggetto, in particolare quello che aveva dinanzi; si sarebbe ingraziato donna Teresa racchiudendone nella fissità della tela la carica erotica che lei sapeva di possedere, nobilitandola però. E qualora l'esito avesse contentato lei, Lisander avrebbe alzato la posta, da poter gettare solide fondamenta per il futuro e concedersi qualcosa di più di una stanzetta in contrada San Simone. Era questa la cagione dell'inquietudine sottile che il pittore avvertiva quest'oggi: pregustare l'attimo assai imminente in cui gli sarebbe riuscito d'apporre sigillo al corteggiamento in certa misura lo spaventava.

A onor del vero, matrona da una parte e ritrattista dall'altra, dalla tanta fatica di sfazzolettate e strizzatine d'occhio, spudorate allusioni e fruscii d'organza, si sarebbe detto che tutto fosse già stato consumato, ma i due abbisognavano ancora che le rispettive, intime mire avessero da rincorrersi un poco prima di prender corpo, in particolare ora che s'erano sloggiati la cameriera e i servitori. E seppur frustrante, il rituale d'attesa, quell'avvicinamento, servì a vincere ogni renitenza e persuadere entrambi della bontà dei rispettivi propositi: Lisander convinto che uno squattrinato che si balocca con l'arte dovesse trovar rifugio in una ricca signora; donna Teresa ferma nell'intento di introdurre quel giovanotto in una più amabile società, facendolo passare per la soglia delle sue gambe – senza lasciarlo ignorante d'amore, ché a lei piaceva immaginarlo così pur sapendo quanto vana fosse l'illusione.

"Quanti anni avete?"

Lisander ricacciò la testa riccioluta dietro alla tela e stese una punta di giallo per stemperare l'eccesso castano; la stanza si chetò, ma subito eccola invasa dal parlottio di Milano, che là fuori si preparava a rincasare a giornata conclusa oppure a mettersi in strada nell'oscurità che s'appressava.

"Che importanza hanno gli anni. Breve è la vita, e lunga è l'arte, non disse il poeta?" esagerò Lisander, la voce calda, diminuita, per citare un sonetto che un suo compare Romantico di Sbieco, Igino il Lungo, non si stancava mai di citare e di chiosare con profusione di aggettivi.

"Siete sfrontato."

"Lo sono."

La donna sorrise.

Lisander spennellò.

La donna ansimò.

Lisander sospirò, consapevole di aver lasciato un segno.

"Avvicinatevi."

"Ai vostri ordini."

"Manca molto a che il mio ritratto sia terminato?"

"L'ho giusto cominciato."

"Non trovate l'ispirazione."

"Vi confesso, mia signora, che ne ho sin troppa."

"E dunque?"

"Θ come se non riuscissi ad avere una visione d'insieme. Godo troppo dei particolari, se così posso dire."

"Ad affezionarsi a certi lati, si rischia di non conoscere mai una persona per intero."

Lisander tacque.

"A che pensate?"

"Vorrei riuscire a cogliervi tutta, e il pensiero non mi dà pace."

"Magari la posa non è appropriata."

"Non so, certe volte non si può esser sicuri finché non si osserva il risultato."

"Preferite cambiar soggetto? Cos'amavate alle lezioni a Brera?"

"Direi il nudo."

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Pagina 25

Presto la sera avrebbe ricoperto le vie, e i lumi a olio avrebbero sfilacciato il manto tenebroso della notte. Gli ultimi barbagli di sole scintillavano dietro le alte guglie della cattedrale incendiando d'oro la Signora sulla guglia più alta, e i lampedée s'affrettavano, la cassetta insudiciata degli attrezzi sottobraccio e la scala in spalla, diretti ai fanali da rabboccare e attizzare a uno a uno. Rintoccarono le sei postmeridiane, e l'eco delle campane si propagò per la città, oltre la cerchia delle mura, abbracciando la costellazione di cascine e borghi a ridosso dei bastioni e penetrando nei Corpi Santi.

Lisander si rese conto d'aver tardato. Doveva sbrigarsi. Era giovedì, e di giovedì lo speziale della Farmacia di Brera aveva l'abitudine di rincasare col guadagno di giornata un poco prima della chiusura, lasciando l'onere di serrare la bottega al garzone, Floro, che non amava far gli straordinari.

Per strada c'era il trambusto di chi torna e di chi si mette in marcia per professione, gigioneria o peggiori intenzioni. Percorrendo la Corsia del Giardino il pittore sfilò accanto alla Scala, dove il parlottio degli inservienti si mescolava alle risate acute delle signore e al pestio degli zoccoli dei cavalli. Le carrozze sostavano sotto i portici in fila affinché le dame acconciate alla moda non sciupassero le calzature – il giorno precedente aveva fatto acqua e il fondo stradale era un paciugo. La servitù d'alti borghesi e nobili brulicava dentro e fuori dall'edificio, spariva nei suoi antri e riemergeva un attimo più tardi muovendo ceste, sporte e tegami: molti spettatori s'erano decisi a cenare a teatro prima dello spettacolo a sera alta, e così servette e servitori avrebbero dovuto far sul posto, nelle cucine dietro a ogni ordine di palchi, e spostare sgabelli e panche, apparecchiare. Sarebbe andato in scena Il bravo di Saverio Mercadante e gli appassionati, quelli capaci d'isolarsi dal chiacchiericcio diplomatico e mondano quel po' che bastava, sostenevano che l'opera fosse bella, storia salda e stile spiccatamente drammatico, elaborata, intonata ad arte dal tenore Donzelli – anche se qualcuno faceva notare con perfidia che il cinquantenne era ormai "alla frutta". Tra gli interpreti c'era l'incantevole Sophie Schoberlechner, che Lisander aveva visto passeggiare di fronte al Caffè Cova giorni prima. Che pelle candida! Il successo della prima in quel marzo lì alla Scala era stato – come avevano detto? – "universale", e alcuni membri dei Romantici di Sbieco, in particolare Carlo detto Charles (alla francese) e Igino il Lungo (per via del suo argomentare oltremisura ogni questione, tanto da sfinire gli ascoltatori) avevano sottolineato l'estrosa Libertà Patetica del compositore e non avevano mancato di evidenziare con trasporto l'Erotismo Sopranile – appunto insuperabile – della bella Sophie (a trovare efficaci e laconiche descrizioni era sempre Peppo Gran Vocabolino, altro membro della cricca degli RdS); Gegé lo Schiocco aveva invece contestato gli elogi punto per punto, arrivando a sentenziare: "Tale spettacolo è un'immane porcheria". Lisander salutò dei conoscenti – notabili e damerini con lo stifelius ben abbottonato, il bastone da passeggio alcuni, la pipa di radica altri – ma non scorse nessuno dei Romantici di Sbieco, i quali, con ogni probabilità, erano ancora indaffarati ciascuno nella propria professione.

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Certi giorni l'affanno s'impadroniva di lei come un sospetto, e a nulla valeva la compagnia delle cinciallegre, né la convinzione che il suo amato sarebbe venuto a salvarla. Assalita da un tremore difficile da nascondere alle altre recluse e alle Sorelle, Leda combatteva l'ammorbante sensazione di somigliare a un maiale.

La bestia, nella sua realtà di sangue, l'aveva conosciuta a dodici anni, in una tiepida giornata d'inverno, presso dei massari ai quali lo zio paterno aveva affidato dei fondi di sua proprietà, e più avanti Leda si sarebbe convinta che l'uomo l'avesse fatto apposta, a capitare lì, nella masseria. Il maiale al macello. Dapprima i lamenti del digiuno che durava da due giorni, giacché un maiale a digiuno risparmia il lavoro alle budella, e poi le strida seguite a qualche grugnito di disappunto, quando le mani dei massari avevano legato il muso e le zampe e poi issato la bestia smarrita su un panchetto. E mentre una lama tosava le setole affinché il pungolo infilasse l'arteria che avrebbe dissanguato il corpo, le strida si erano tramutate in un verso trascinato e lento, privo di speranza: nella sua ottusa voracità, persino il maiale era riuscito ad odorare lo scopo umano. Infine l'urlo dell'animale morente si era spento in un ostinato gorgoglio che non aveva saputo esprimere ciò che invece avevano detto gli occhi: il biasimo di una creatura che aveva inteso il tradimento di quelli che aveva creduto suoi amici; le stesse mani che l'avevano sfamato, gli stessi figuri che l'avevano allevato, ora lo uccidevano. A Leda bastava chiudere gli occhi. Ritrovava dietro le palpebre la polla di sangue che si raccoglieva dentro un bigoncio sotto la gola ferita, e le gocce che cadendo s'allargavano sullo sterrato. Il tremore del corpo e gli occhi vitrei. Poteva richiamare quel giorno con facilità inusuale e rivivere ogni emozione, la morsa allo stomaco e il calore delle lacrime, la pietà e l'avidità dello sguardo. E tanto vivido era quel ricordo, quanto sbiadito era quello del giorno seguente, quando di ritorno dal breve viaggio con lo zio Leda aveva trovato suo padre morto. Da allora erano trascorsi sette soli anni, ma il dolore era ancora miserabile. Dopo le esequie lo zio, fratello minore di suo padre, era divenuto legalmente il suo patrigno ed era stato allora che Leda, intontita dal dolore, aveva conosciuto il digiuno del porco; la privazione iniqua, senza ragioni apparenti, di ogni sostentamento abituale. Quindi erano venuti gli altri gradi di sventura. A Napoli, nel monastero di Santa Chiara, dove lo zio l'aveva confinata acché la educassero, Leda aveva imparato la rabbia della disperazione. Un sentimento che mai aveva saputo e che invece, scoprendosi condannata a una vita non sua, aveva avvertito espandersi fino a divorare come un morbo altri, più graditi sentimenti. Rabbia, e pure l'orgoglio ferito dalla violenza, anche fisica, subita. Aveva strillato il proprio rifiuto e l'afflizione rompendo la voce, azzuffandosi con le clarisse e coi confessori che si riparavano dietro la grata in cima alla lunga scalinata del chiostro di Santa Chiara, infine aveva appreso il silenzio, e con esso la rassegnazione. Dunque erano venute le debolezze di mente, il corpo prevalso dal dubbio d'essere lei quella sbagliata anziché il patrigno, d'essere lei in qualche modo a meritarsi una colpa così profonda da trovarsene svuotata e riempita insieme. S'era fermata ad osservarsi specchiata nei lavabi e nei pozzi del monastero, e nei propri occhi aveva riconosciuto quelli sgomenti e traditi del porco. Anche lei fiutava che non era previsto un ritorno, che non sarebbe più stata la stessa bambina non ancora signorina di prima del monastero, perciò era giunta a dirsi pronta all'ultimo gorgoglio: si sarebbe raccomandata a quel Dio malvagio che non s'accorgeva di ciò che capitava a lei, o peggio ancora che chiudeva gli occhi. Era decisa a porre fine all'afflizione: un'uccisione plateale, durante il pranzo. Solo a questa morte riusciva a pensare. Sgozzarsi come un maiale. Ma il destino, allora magnanimo e oggi beffardo, le aveva fatto incontrare Lorenzo che, furbo, era riuscita a riportarla all'esterno.

Dove sei?

Dopo la morte di suo padre, al cospetto della freddezza di un uomo, suo zio, che la comandava da genitore, Leda aveva avvertito il cuore dapprima gridare, poi indurirsi tradito, e infine tornare a battere. Era stato Lorenzo, ad averla salvata. Risorta.

Dove sei? Non soffrire, ti prego...

Non si era trattato d'affetto, della melense confidenza di due anime affini. Θ che lui aveva saputo redimerla con la sola vicinanza; figurarsi l'amore. Lorenzo, pensò Leda, incapace di ricacciare le lacrime in gola. Era bloccata lì, con troppo poco spazio per muoversi e troppi abissi in cui vagolare, reclusa in un mondo incastonato nella città Eterna, e non poteva far altro che assecondare i vaneggiamenti di un cervello in azione perpetua, come un orologio dalla meccanica infallibile, tic, tac, tic, tac: che succedeva fuori dalle mura del Buon Pastore? Come poteva, Roma, ignorare la sua sventura? Dov'era Lorenzo? Dove lo avevano rinchiuso dopo l'arresto? Era vivo? Prigioniero? L'amava ancora?

Le cinciallegre avevano deposto le uova, che si erano schiuse con alti pigolii nelle buie cavità tra i mattoni e negli alberi. Di ritorno dal giardino Leda strascicò il passo lungo il corridoio. I muri erano freschi; il sole arroventava la terra, ma ciononostante i muri pieni del Buon Pastore rimanevano freschi. Ogni giorno, nelle ore più calde, Leda spingeva un braccio nel vano della feritoia della cella claustrale, e nella sola lunghezza di quel braccio riusciva a percepire l'impensabile differenza tra la frescura silenziosa dell'interno e la cappa che avvolgeva la città, che là fuori sperimentava la vita. Da settimane sentiva il fiato mancare, ma non si trattava dell'afa, né della reclusione, e neppure del ricordo vivo del porco destinato allo sgozzamento. Stavolta non era ancora arrivata ad odorare la fine. Perché un motivo, un'illusione l'aveva ancora. Ed era tale illusione ad affliggerla.

Leda temeva che la polizia pontificia avesse torturato Lorenzo, ma non a morte. Da ciò che lui le aveva raccontato, infatti, i tonacati di Roma erano aguzzini spietati e gli alti prelati con incarichi informativi non si facevano scrupoli nel ricorrere ai peggiori sgherri, e giacché Lorenzo possedeva conoscenze, informazioni e incartamenti coi quali non avrebbe dovuto avere nulla a che fare, Leda trovava il proprio timore assai ragionevole. La polizia avrebbe voluto strappare di bocca le parole che Lorenzo custodiva, e per averle forse avrebbe cominciato con lo strappargli i denti.

Dacché il volto è specchio dell'anima e il tormento di queste nefaste congetture non le dava pace, Leda si trovava a dover fronteggiare di nuovo l'insistenza delle Sorelle, in particolare di suor Arcangela, che notato il pallore della sua carnagione olivastra si avvicinava sempre più spesso, le sussurrava, la lusingava con promesse di pace, con letture consolanti. E Leda, dapprima così resistente, adesso cominciava a vacillare. Era certa che la religiosa avesse scorto una crepa da lavorare con pazienza per far breccia nel silenzio, e benché sapesse come difendersi, non sapeva quanto a lungo avrebbe durato. Però non doveva far altro che aspettare un altro po', poiché Lorenzo sarebbe venuto anche questa volta. Era questione di giorni. Qualcuno si sarebbe fatto vivo. Erano passati solo otto mesi. Già nove mesi. L'estate si sgranava troppo lentamente ma lei non sarebbe rimasta lì dentro a lungo. E neppure si sarebbe pungolata l'arteria per dissanguarsi. Verrai? Vero che verrai?

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VII



"Quando ci rivedremo?"

"Ancor prima di quanto immaginiate, mia cara." Lisander ne aveva abbastanza del vezzo di darsi ancora del voi malgrado l'intimità. Le sconcerie. Si dissero addio, e il pittore lasciò il palazzo.

Quando riemerse nel tardo pomeriggio autunnale si chiese se non fosse il caso di procurarsi una cosuccia alla Farmacia. Si sentiva stanco. Il chiodo della nuova impresa e l'attività d'alcova, oltre alla nascente relazione con Chiarella, lo stavano smagrendo, e come se non bastasse alla bottega del Narducci non gli davano tregua dacché s'erano accorti che "c'aveva la smania di mettersi in proprio". Per fortuna al bettolino di prett Lisander aveva sentito decantare le proprietà tonificanti del sedano e aveva assistito allo smercio di tinture madri che passavano di mano in mano tra frequentatori di puttane, e pure nei palazzi dei signori ne aveva riconosciute alcune boccette – le signore ne davano spesso ai consorti, a loro insaputa, rinvigorendo il brodo. La tintura di sedano veniva distillata spremendo dalla pianta il succo da miscelare con soluzioni alcoliche, e Lisander l'aveva sperimentato ritrovandosi forzuto come un magùtt, con in petto un fiato persino eccessivo per amoreggiare; magari se l'avesse chiesto a Floro quel poco di buono gliene avrebbe procurata. Non avrebbe dovuto far perdere temperatura a donna Teresa.

La liaison era andata radicandosi centimetro dopo centimetro tra le gambe della signora Malesani finché a metà luglio lei non s'era allontanata dalla città per villeggiare sulle sponde del secondo ramo di quel lago assurto ad improvvisa fama tra le signorie di Milano giacché ne scriveva messer Manzoni – nei salotti si vociferava che una nuova, ennesima edizione degli Sposi promessi fosse pronta per la stampa della tipografia di Guglielmini e Radaelli. Il marito di donna Teresa, il sciur Malesani, conosceva i tipografi personalmente, mentre la signora si vantava di conoscere Gonin, il pittore che, se lusingato a dovere, confessava di lavorare all'illustrazione dei volumi. Donna Teresa aveva leggiucchiato il romanzo anni prima, e in tutta franchezza trovava la storia noiosa, la scrittura faticosa e troppo "lombarda", però l'amore è sempre qualcosa di cui vale la pena leggere.

Ad ogni modo, in giugno donna Teresa aveva cominciato a usufruire della tenuta nei pressi di Malgrate, uno stabile più fresco del palazzo milanese; lì la signora Malesani si divertiva a offrire feste danzanti e ricevimenti, e amava struggersi per l'impossibilità di condividere con Lisander quegli ambienti meravigliosi, quelle delizie di giardini, i fiori profumosi, le lucciole che coloravano le nottate. La signora aveva preso l'abitudine di tornare settimanalmente a Milano, giusto un paio di giorni, e riuscendo a evadere la compagnia del marito Alfio, sempre indaffarato con la Profumi, Saponi e Zolfo Malesani, pretendeva che Lisander le dimostrasse gradimento in incontri rapidi, d'arruffamenti. Tanto più che il pittore aveva cominciato a lasciarle intendere certi desideri: un continuo blaterare di fotogenici disegni e immagini automatiche e camere obscure e altre scientifiche assurdità, e tutto quel blaterare aveva minacciato di svilire gli ardori della madama, anche se il sussurrio sconcio del pittore aveva saputo ravvivare la fiamma ogni volta, alimentando il peccato. Il giorno di un incontro di letto assai più brutale di altri, Lisander le aveva addirittura accennato a certi denari di cui abbisognava per un progetto che l'avrebbe affrancato dal tedioso lavoro di bottega affinché "si abbia più tempo e più energia per noi", e se ci fosse stato da sottrarre soldi alla rendita personale per darne al pittore, eventualità che donna Teresa aveva preso in considerazione, allora lei voleva esser certa che l'esborso valesse la candela.

Per tutto agosto la signora Malesani dovette trattenersi sul lago in compagnia del consorte, perciò Lisander, a eccezione di un fugace rendez-vous – lei venne coi servitori al seguito per controllare le cose al palazzo cittadino, questa la motivazione ufficiale – godette di un periodo di relativo riposo, un intermezzo che si sarebbe protratto fino alla metà di settembre, allorché la donna avrebbe fatto ritorno dalla vacanza sul Lario con la pelle ancora odorosa d'abbronzatura.

Grazie a Floro, che seguitava a procurargli le sostanze, il pittore poté dunque esercitarsi nelle stampe. Non era ancora riuscito a ottenere un'immagine nitida della qualità delle vedute che circolavano su iniziativa del Sandro Duroni, ma si era ripromesso altri sperimenti e un viaggio a Torino, per incontrare un tizio che, a quanto aveva saputo, era stato in grado di ritrarre alla perfezione il tempio della Gran Madre di Dio; si diceva inoltre che il Torinese – come ormai il pittore lo chiamava fra sé e sé – fosse in grado di costruire strumenti eccellenti, e Lisander avrebbe voluto saperne di più su ottiche e obiettivi, magari assicurarsi un'attrezzatura.

Nella quiete agostana il pittore decise poi di dedicarsi con rinnovato entusiasmo alle amicizie, e la frequentazione assidua degli RdS gli risollevò il morale, lo ringalluzzì quanto bastava affinché, seppur assediato dall'afa cittadina, si desse a tormentare d'amore e gelosia Chiarella.

Lei ricambiava anima e corpo la passione del ragazzaccio ma continuava a fare la vita, e Lisander non se ne dava pace. Perché Chiarella era bella, pareva una ragazzina, perciò chiunque avrebbe provato il desiderio di sottrargliela, e per di più se avesse continuato a fare la vita sarebbe invecchiata anzitempo, finendo per non lavarsi il collo e i capelli, e il seno dal capezzolo stretto e rosa sarebbe appassito; Chiarella si sarebbe tramutata in una sgualdrina consunta, l'avrebbero infettata mille malattie, e compiuti ventitré anni ne avrebbe mostrati cinquanta, e un giorno, dopo aver annaffiato il vaso di fiori che teneva al davanzale della stanza in affitto, magari avrebbe deciso di suicidarsi, lasciando a Lisander il rimorso d'averglielo permesso. Il pittore s'era prefigurato tutto, una visione tagliente e rossa, simile a un'immolazione, perciò non gli bastava che Chiarella finisse di operare al casino alla mezzanotte e assieme potessero godere della notte e di parte della mattina, quando la ragazza tornava a fare la guantaia in bottega. Lisander voleva di più, ne reclamava il possesso.

Chiarella, tuttavia, pareva non averne intenzione. Lui la voleva per sé, ma lei si sarebbe riscattata dal casino solo se avesse avuto certezze, oltre a promesse, e il caldo di Milano, in questa estate, era di quelli che facevano subito correre il sangue al cervello e ribollire gli animi, tanto che Lisander giunse più d'una volta alle mani all'uscita dell'osteria a causa di certe allusioni sulla sua Chiarella – intimidì perfino Carlo detto Charles alla francese, colpevole d'un commento di spirito a un aneddoto del pittore, e l'episodio suscitò lo sdegno della maggioranza dei Romantici di Sbieco. Quando la ragazza commise poi l'errore di raccontargli d'un cliente che l'aveva quasi strangolata, accadde il peggio. Per dirimere la questione lontano dal gergo dei gentiluomini, cosa che "il bastardo strozzatore" a suo avviso non era, Lisander diede appuntamento al fido Maramàn e così, in un buio di stelle cadenti, i due pedinarono il bruto, un uomo grasso di quasi cinquant'anni che si ritrovò con un coltello nel fianco.

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Il vociare al bettolino di prett era quello della tarda sera. In via delle Ore, sotto il lumino malinconico che rischiarava l'uscio al riparo dell'Arcivescovado, si trascinavano già avventori ciucchi, che sbandavano sull'acciottolato. All'interno, l'aria viziata era rischiarata da lanterne che proiettavano mobili ombre sulle volte e sulle pareti dello stanzone. Si discuteva ai tavoli, nei cantucci si protestava con la vita, e s'approfittava della prossimità dell'Arcivescovado per indirizzare le proprie recriminazioni alla religione e ai preti: "A me la Bibbia mi piace, davvero, c'arrotolo le sigarette con le pagine, e mi ci pulisco il culo". Si mescevano bevande senza interruzioni, in un tintinnare di centesimi di rame gettati sul bancone e un gorgogliare giù da brocche e colli di bottiglia. I Romantici di Sbieco sfogliavano alcune riviste tra cui "Il Corriere delle Dame" – "s'ha da conoscer l'eterna amica fellona amante e nemica" – con un inserto dedicato ai figurini di moda e un numero del fascicolo cittadino dell'anno, il "Politecnico", rinomato osservatorio altrimenti detto "Repertorio mensile di Studj applicati alla prosperità e alla coltura sociale". Igino il Lungo aveva fatto l'orecchia a una pagina, corrispondeva a un articolo dal titolo prolisso – e per questo gradito al Lungo: Descrizione d'un nuovo rettile fossile della famiglia dei Paleosauri e di due pesci fossili trovati sopra Varenna. Igino dissertava, sventolando la raffigurazione del bacino di chissà quale antichissima creatura sotto il naso degli amici stravaccati sulle panche e sulle seggiole, i gomiti poggiati al tavolo o alla spalla del vicino. Fu persino interpellato uno sconosciuto avventore, che non seppe che altro dire, se non: "Ma andate a dar via i ciapp, va'".

"Trovo quest'arrembante tecnicismo un decadimento. Se le Scienze soverchiano le Humanitates, s'annunciano tempi bui."

"Già, 'sta società di genieri c'ha rotto i maroni. Le idee, servono, le idee," disse Gegé lo Schiocco, esibendosi in una declamazione che seppe guadagnarsi gli applausi degli RdS. La discussione che ne seguì approfondì la necessità della tecnica e ponderò la bontà della scienza finanche nelle sue più industriose applicazioni, ma soprattutto decretò l'indiscutibile utilità dell'arte in ogni sua forma, come bene ultimo da raggiungere per elevare le civiltà, pena un imbarbarimento di costumi che avrebbe portato allo sfruttamento dell'uomo come "Utensile del grande Macchinario Scientifico" – a proporre le definizioni era il solito Peppo Gran Vocabolino. Lisander era più interessato alla conversazione alle sue spalle.

"L'hai mai conosciuto te, l'Ernesto?"

"Chi?"

"Il macellaio al Verziere, quello alto un metro e un braccio."

"Quello piccolo, brutto e cattivo."

"Gli è morta la quarta moglie."

"Come?"

"Gliele suonava giorno e notte."

"Davvero?"

"Fuori una, dentro l'altra, e non s'è mai stancato. Giù botte a tutte, ogni santo giorno."

"Miseria..."

"Però son passati tre giorni dall'ultimo funerale e oggi l'han trovato matto. Non sapeva più chi era."

"Mica l'aveva mai saputo!"

"Ah-ah!"

"Lo portano alla Senavra."

"Di gente ce n'è d'ogni qualità, bisogna stare attenti..."

Dopodiché Lisander avvistò Floro. L'amico garzone richiuse l'uscio dell'osteria e gli fece un cenno. Aveva un occhio pesto. S'accomodò tra gli RdS anche se non aveva ancora meritato l'appartenenza alla congrega, soprattutto poiché era apparentemente privo di interessi umanistici, ed era invece rappresentante della cosiddetta Orda Scientifica. Aveva tuttavia saputo ispirare la simpatia di molti, non da ultimo grazie agli intrugli che contrabbandava a poco prezzo, e gli RdS s'eran ripromessi di "purificarlo"; Igino il Lungo e Carlo detto Charles alla francese l'avevano interpretata come una prova. Il proselitismo era la regola di sopravvivenza di ogni congrega.

"Ma che t'è successo?"

"Il padrón m'ha cacciato dalla Farmacia."

"Cosa?"

"Ha fatto i conti, tra libro mastro e giacenze e tutte le ricevute e gli incartamenti, e m'ha denunciato ai questurini. M'ha accusato di ruberia," disse oltraggiato Floro.

"Be', rubare, gl'hai rubato."

"Già, ma quel bastardo poteva trattarmi con un po' di riguardo, dico io, con gli anni che ho lavorato per lui."

"E l'occhio?"

"Son tornato per dargli una ripassata ma quello è un dritto. M'aspettava con due compari, e son dovuto scappare fino a stracciarmi i polmoni."

Grida di giubilo, festeggiamenti. Gli RdS gli offrirono da bere coi pochi, restanti quattrini, e si rallegrarono per ciò che fu prontamente battezzato la Purificazione Spontanea del Soggetto Scientifico. Lisander trattenne a fatica una smorfia di affranta incredulità, ché il licenziamento di Floro assestava un duro colpo al reperimento di medicinali e altre sostanze. La serata si trascinò per un'altra ora, e il pittore si rabbuiò a poco a poco. Quando salutò i compari all'uscita dell'osteria, però, non mosse neppure dieci passi che alle sue spalle, intonata su un tempo in 2/4, ecco risuonare la canzone della congrega: Num semm nassùu de sbiess, semm fradej di maramàn, che sann pèrdes in de la voeuja de poesia e menàss l'usell, num semm i Romantic de Sbiess. Lisander rise, accennò un saluto senza voltarsi e balzellò un passo di danza. Nati di sbieco, fratelli dei malnati che san perdersi nella voglia di poesia e menarsi l'uccello. I Romantici di Sbieco.

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Allora benvenuta sregolatezza, se mescoli luci e oscurità, confondi il senso più immediato e d'ogni cosa sveli altra sostanza, e chissà che non sia questo, in fondo, il trucco ultimo della realtà. Si metta infatti il caso di conoscere una storia in virtù di una ripetizione minuziosa, tartassante e liturgica, una storia udita da più voci e ritrovata in altrui gesti, e dunque appresa in modo condiviso, grossomodo in quello solamente, prestabilito. Si consideri poi l'eventualità remota ma di certo plausibile che tale storia, forse, non la si sia intesa sempre con avvedutezza, malgrado l'opinione diffusa, come dire che non la si è vista sempre coi propri occhi. Dopodiché ecco la casualità avverare un'occasione di sregolatezza; il racconto allora va in panne, ci si ritrova a parole ferme, scritte ma scompaginate: parole tanto immobili e spersonalizzate che uno potrebbe dirle come gli pare, a rovescio persino. Infine si ammetta l'evenienza che sotto una nuova luce tali parole comincino ad apparire differenti, e che nella sregolatezza mediante cui le si divora si possa incontrare un sapore nuovo, tanto che a leggervi vicende così solite che pure il diavolo ormai si volterebbe di schiena per quanto trita è la solfa, ecco, a leggervi la solita storia se ne avrà stupefazione. Disorientamento. Sofferenza magari. Poiché quali insospettate differenze vi si potranno individuare. Soprattutto se si subirà la prospera sventura di dover non soltanto mangiare le parole cogli occhi, ma di farlo in senso letterale, ossia di leggerle a preludio dell'ingozzamento vero e proprio, nell'inusitato tentativo di lenire il morso della fame: "Mica male".

Colombino un pomeriggio s'era fatto il segno della croce con decisione, a scacciare il dubbio, poi, appallottolata una pagina, col cuore affranto, l'aveva masticata; se ne fosse stato capace l'avrebbe pure ruminata, per gustarla più a lungo, tanto era il languore. "No, mica male. Ne vuoi, Astolfo?" Il mulo aveva declinato l'offerta, preferiva perlustrare con pazienza le rocce per addentare i rari groppi d'erbe, sradicare gli steli di fiori appena sbocciati, e col rischio di una colica sperimentare una nuova dieta. Colombino invece, una volta goduti i doni succulenti di coloro che aveva incontrato, e svaniti chissà come altri paesi a cui arrivare, aveva dovuto inventarsi una maniera di sgominare la fame che le prelibatezze di salami e formaggi avevano aizzato. Ma la natura dattorno non bastava, perciò aveva imparato che certe pagine racchiudevano un sapore da farlo lacrimare di colpevolezza, mentre altre gli risultavano indigeste. A fatica lo avrebbe confessato, credente com'era, ma a vederle scritte alcune pagine di Bibbia si rivelavano inaspettatamente malvagie, e fu proprio da quelle, dalle più indigeste che cominciò, nel disperato tentativo di preservare le buone, non avendo escogitato altro principio dal quale lasciarsi guidare se non quello della preferenza, della simpatia.

Nella bisaccia legata al dorso di Astolfo, Colombino conservava i fasci di una Bibbia in più volumi, la Bibbia che la sciura Adele aveva caricato sul carro a dispetto del precetto che i libri ispirati venissero debitamente commentati per l'ignorante, in qualunque maniera si volesse presentarglieli e far conoscere, a mezzo d'orecchi o d'occhi, oppure, caso sregolato, di bocca. La povera Adele, nell'ingenuità, doveva essere giudicata innocente, però: Colombino partiva in fretta e furia, sconsiderato, e lei si era solo premurata che non gli mancasse di che nutrire lo spirito. Si trattava dei volumi di una delle Bibbie di don Sante, e il ragazzo li aveva rinvenuti dopo l'evasione dal grotto, quando aveva riconquistato la superficie; ispezionava lo sfracello al quale si era ridotto il carro e li aveva adocchiati. Sparpagliati, coi dorsi spezzati. Colombino aveva radunato i preziosi fogli e aveva cercato di riordinarli, e adesso che andava per monti aspri dove i sentieri erano infidi e i villaggi mancanti, dove la provvidenza non induceva più i viandanti a vedere nelle sue sembianze un santo da accattivarsi, ecco che il ragazzo aveva deciso di cibarsene di tanto in tanto. Dapprima si era battuto contro l'idea scellerata, ma infine vi si era arreso. Erano tutto ciò che gli rimaneva, e siccome le forze erano poche, Colombino si era detto che fosse meglio preservarle per la marcia anziché disperderle nella caccia o nella raccolta di tuberi, bacche e ghiande. Avrebbe chiesto perdono a Sua Santità Santissima spiegandogli come fosse arrivato a quell'atto, e per giunta, checché ne dicesse la fisica o la scienza medica, al primo ingerimento di carta Colombino si sentì subito rinvigorito; forse si trattò di suggestione, ché si sa che la mente sa irretirci e farci contenti, ma insomma un beneficio da quei fogli lo aveva ricavato fin dal principio. Il viaggio forse l'aveva reso un po' scriteriato sul serio, come se il significato di quel peregrinare fosse di far aderire il corpo lercio col gran barbone alla fama di folle che lo procedeva, eppure, se nutrirsi di carta non era certo stata una decisione usuale, ciononostante era da stimarsi ragionevole, soprattutto considerate le circostanze – si sa che la solitudine è condizione che sa graffiare l'anima con solchi profondi.

"No, no, questa non posso mica. Θ troppo bella."

Colombino sceglieva di sottoporre la pagina allo strappo degli incisivi, all'affondo dei canini e alla triturazione di molari e premolari solo dopo averla pescata dalla bisaccia ed esaminata, una valutazione da esprimere a cuore libero. Ad esempio, malgrado fosse uscito già due volte, non aveva osato avvicinare alle labbra il foglio sul quale era stampato il brano Avete udito, che fu detto: Amerai il prossimo tuo, e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici: fate del bene a coloro che vi odiano. A ogni lettura gli appariva così bello, limpido da offuscare la fame e debellare i capogiri che gli scuotevano la vista a causa della fatica e della malnutrizione. Mica c'era bisogno di omelie e dotte esegesi: bastava leggere, tutto lì, chiaro come il sole a mezzogiorno, un senso largo quanto il cielo. A lui quelle parole facevano salire una voglia di carezza, e a beneficiarne era Astolfo. Quando Colombino ripescava il passo pensava alle sassate ricevute nel tiro allo scemo a Sacconago, mentre dormiva dinanzi alla finestrella; già allora, si era domandato: perché? Così semplice, non farsi del male, e se qualcuno avesse avvertito l'istinto della violenza sarebbe bastato sfogarlo in solitudine, contro un masso, anziché nuocere a un'altra creatura: no? La sciura Emilia, per esempio, perché aveva voluto parlargli così crudelmente, e il sciur Eugenio e i figli perché lo avevano picchiato? Colombino non possedeva la strafottenza né la superbia di proclamare sé saggio e gli altri stolti, dunque ammetteva che l'Emilia avesse le sue sacrosante motivazioni nel vederlo di cattivo occhio, e pur se non le condivideva, lui era disposto ad accettare che esistessero. Ma ciò non significava che il giusto che la sciura Emilia credeva e pretendeva dovesse ritorcersi contro di lui, porca merda e miseriaccia. Anzi, il fatto stesso che qualcuno, nel dirsi giusto, si comportasse con disinvoltura pure da violento, ché violente erano le azioni che reputava necessarie a conseguire la giustizia che sentiva in corpo, ecco, quello era un pensiero che lo tribolava. L'idea di un male dalla giustizia giustificato. Si doveva essere buoni e giusti, mica giusti senza essere buoni. No?

Le letture che precedevano ogni pasto gli permisero così di meditare a lungo sulla possibilità che alcuni serbassero un fondo di cattiveria, anziché un istinto incondizionato d'amore, e quel dubbio, nato con le prepotenze subite a Sacconago, trovò più di una conferma su carta. Spesso capitava che Colombino, con sbigottimento, stringesse fra le dita i fogli di Bibbia e vi ritrovasse infatti un male in nome di Dio, una brutalità sacra, una vendetta agognata, una misericordia da riconoscersi soltanto a una manciata di eletti. Nel libro di Giosuè scoprì con qualche patema l'assedio che il popolo del Signore aveva portato all'esotica città di Gerico, che chissà dov'era, forse proprio a meridione, vicino a Roma: Le mura caddero subitamente: e ciascheduno vi entrò per la parte che gli stava davanti; e presero la città. E uccisero tutti que' che incontrarono, uomini, e donne, fanciulli, e vecchi. E misero a morte anche i bovi, e le pecore, e gli asini. "Secondo me se la sono presa pure coi muli," aveva sussurrato foscamente Colombino ad Astolfo, il quale aveva occhieggiato astioso; il ragazzo aveva strappato la pagina, e spalancate le arcate dentarie aveva masticato con forza. Quella volta pure Astolfo aveva gradito un assaggio caduto a terra.

E le scoperte che le Scritture attribuissero un fondo di male all'uomo si ripeterono. In uno dei Vangeli trovò scritto: Imperocché dal di dentro, dal cuore degli uomini procedono i cattivi pensieri, gli adulteri, le fornicazioni, gli omicidi, e quando arrivò un pomeriggio di pioggia grossa, da infradiciare perfino gli organi, con quale foga Colombino si avventò su un'altra deliziosa pagina, prima che il passo di Ezechiele discolorasse il furore che si abbatteva sul figlio Israele: Chi è lontano, morrà di peste, e chi è vicino, cadrà sotto la spada... E conoscerete che io sono il Signore, quando i vostri saranno uccisi. Di foglio in foglio, increduli gli occhi, incerta la convinzione che quello fosse il medesimo Libro col quale don Sante lo aveva catechizzato. Tanto lesse, Colombino, che il suo cranio si tramutò in un calderone dove sobbollivano stupri, violenze fratricide, ripicche, ori e metalli preziosi, incesti forzati e fiamme a inghiottire sacrifici di capri e mille bestie, altari sbagliati e altri errori, stridori di denti e città rase al suolo, piaghe di grandine, mosconi e rane, cavallette e ulcere e pidocchi, la mano armata di un padre che accettava di sacrificare un figlio per fede: un incubo vivido, che di passo in passo andò a riposare in fondo allo stomaco di Colombino, giù nei metri degli intestini, bocconi di Deuteronomio e lacerti dei Numeri assieme ai pochi vegetali raccolti per via.

Altrove, invece, Colombino scopriva teneri dubbi che lo inducevano a esitare, a rificcare il foglio nella bisaccia nella speranza di cavarne uno di maggiore evidenza. Le parole di Isaia lo scombussolavano, e il profeta era tra coloro che le dita incontravano più di frequente: dispregiato, e l'infimo degli uomini, uomo di dolori, e che conosce il patire. Colombino si commuoveva, e digiunava più a lungo pur di non azzannare la carta. Egli è stato piagato a motivo delle nostre iniquità, è stato spezzato per le nostre scelleratezze. Il castigo cagione di nostra pace cade sopra di lui, e per le lividure di lui siam noi risanati. Lacrimava, Colombino, e carezzava Astolfo. Θ stato offerto, perché egli ha voluto, e non ha aperta la sua bocca: come pecorella sarà condotto a essere ucciso. Si doveva costringere una creatura ad essere così troppo umana da accettare di immolarsi e ripudiare ogni ritorsione, da amare chi lo torturava? Per quale ragione un innocente doveva sanare il torto di altri? Colombino si interrogava. Don Sante gli aveva insegnato che "quel che combini, poi lo aggiusti tu, mica lo aggiustano gli altri", e dunque, benché l'idea di un uomo capace di soffrire per gli altri fosse trascinante ed esemplare, Colombino non era disposto ad accettare che quell'uomo morisse per lui. Lui non desiderava la colpa di un'uccisione: "La mangio prima che a forza di pensare mi venga pure il mal di stomaco, oltreché il sangue dal naso".

Quando gli capitò fra le mani la cena degli apostoli non dormì due notti, e sospirò dolcemente per il racconto della lavanda che Gesù offriva ai suoi discepoli. Ma Giuda. Colombino lo immaginava con una barba fulva, una tunica color latte, additato e maledetto anche se predestinato al tradimento. Iddio l'avrebbe proclamato innocente, nell'ultimo giudizio? Quanto doveva aver sofferto, Giuda, prima d'appendersi all'albero coi trenta denari in saccoccia: forse aveva provato la stessa sofferenza del Cristo svenduto, o magari una peggiore, perché lui c'aveva pure la colpa e nessuno con cui spartire la morte, l'ultimo grido, manco due ladroni. "Io Giuda non lo mangio." Chissà l'angoscia dell'apostolo più ingiuriato: avvertire una pazzia irresistibile che diceva d'agire, il libero arbitrio addormentato per amore di Dio. "Povero Giuda." Colombino si dispiaceva sinceramente, e una simile compartecipazione gli prese il cuore per il ritorno del figlio prodigo. L'altro fratello, che si lagnava col padre perché si era macellato il vitello grasso per celebrare il ritorno dello scialacquatore: Colombino gioiva sia per la clemenza del padre, sia per il pargolo ritrovato, ma non poteva sopprimere una più forte simpatia per il fratello ligio alla vita, che si ritrovava in disparte malgrado l'onestà di cui aveva dato sempre prova. "Questa la metto da parte, finché la capisco bene." Astolfo annuiva, non sapendo che altro fare. "Speriamo di arrivare presto."

Tutto il suo perverso sragionare ebbe come risultato di tenerlo sveglio, vigile, segno che il Signore non lo biasimava a tal punto da ucciderlo. E benché il lavoro del cervello consumasse larga parte delle poche energie che la carta donava al corpo, Colombino trovava sempre nuovi brani di crudeltà dichiarata da ingurgitare senza troppi tergiversi, sequele di condanne a morte e anatemi, massacri di sacerdoti sui monti e vendette di sette volte maggiori e più tremende. Una tarda mattina, però, per sua fortuna adocchiò un fagiano morto, perciò accese un falò con l'acciarino e lo arrostì. Si godette il pasto, e col desiderio di concluderlo degnamente eccolo esaminare un foglio con la lucidità dello stomaco satollo. Lo sorprese di bellezza, gli sembrò un canto: Sulle rive de' fiumi di Babilonia ivi sedemmo, e piangemmo in ricordandoci di te, o Sionne. Sionne gli rammentava – anche per una minima assonanza – Sacconago, gli infondeva la forza della struggente malinconia di casa. Decise subito che avrebbe salvato la pagina, a eccezione degli ultimi versetti, da prendere a mo' di dessert: Ricordati, o Signore, de' figliuoli di Edom, i quali nel giorno di Gerusalemme dicevano: "Distruggete, distruggete fino a' suoi fondamenti. Figliuola infelice di Babilonia: beato colui, che farà a te quello, che tu hai fatto a noi. Beato colui, che prenderà, e infrangerà sulle pietre i tuoi figliuolini". Spaccare sulle pietre i figli di Babilonia, la testa contro i sassi per schiantare il cranio e far sbavare all'esterno il cervello? "No, no!"

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Anni prima, nel solcare le acque della baia di Guanabara, nonostante lo scoramento per l'esilio al quale era costretto, dom José ricordava d'aver provato un irraggiamento di speranza, quella fame di futuro ch'è religione della gioventù, quantomeno finché non arriva il giorno, presto o tardi, di rimpiangere i tempi andati. Allora, nell'arrivare in porto a bordo del Nautonnier, mai si sarebbe atteso una tale meraviglia ad accoglierlo: una roccia immensa, conica, quasi che la terra, in un impeto di sprezzo e pazza di vitalità, volesse farsi cielo. Pγo de Aηúcar. Dolce ed esplosivo, il suono, come aveva dovuto esserlo la forza che aveva sollevato quel monolite di graniti e quarziti, oppure sprofondato tutte le altre rocce attorno, ché giganti lo si è al cospetto degli altri, che possono essere a loro volta nella norma, oppure nani. Dom José aveva battuto da marinaio le coste d'Asia e Nordafrica, e già altre volte la natura l'aveva soverchiato dando sfoggio della propria maestosità, ma mai si era sentito così umano. Dom José a quel tempo giungeva in Brasile con un nome d'invenzione adatto alla fuga, Giuseppe Pane, nato a Livorno, e fungeva da nostromo, e quando il brigantino aveva gettato l'ancora nella rada del porto il giovane marinaio aveva accolto nel petto l'agognata sensazione che, finalmente, qualcosa avrebbe dato un giro agli eventi. Sul pan di zucchero, quel giorno, se avesse estratto e puntato il binocolo, avrebbe forse scorto lo scintillare di occhi neri come perle.

Ora che da un basso colle boscoso dominava i dintorni, la meraviglia che dom José provò fu differente, ma proprio come al suo arrivo in terra sudamericana ebbe l'impressione che quel momento racchiudesse scoramento per una contingenza sfavorevole e al contempo fiducia che le cose avessero in serbo una sorpresa. La lotta per l'indipendenza del Rio Grande do Sul viveva attimi cruciali e il morale dei farrapos era lontano dall'afflato vigoroso della libertà e dalla brama di benessere che avevano animato la rivolta. Ma ciò, secondo José, non doveva significare inesorabilmente la perdita di tutto.

L'autunno australe irrobustiva le nubi, lunghe cordigliere di trucioli soffici che schiacciavano il cielo fino a ridurlo a un'esile striscia, e una nebbia corposa s'addensava dappertutto, capace di divorare ogni sguardo come un'adunanza di sordidi spettri. Nelle luci dell'alba il vapore aveva però cominciato a sfaldarsi, e fu come se, così facendo, materializzasse seimila uomini. Il sipario si apriva: la forza dei rivoluzionari del Rio Grande tutta spiegata, reggimenti ai quali dava rinforzo ogni riserva, e liberti di pelle scura armati di lance. La visione fu d'eccezione. Dom José comandava il battaglione dei suoi fanti marinai.

Dirimpetto ai riograndensi, nello snebbiarsi della terra, emerse pure l'esercito di settemila imperiali. Compatto, armato, pesante. La battaglia campale incombeva. I minuti sarebbero corsi lenti, lentissimi, e così fecero, finché gli imperiali non presero l'iniziativa; quando il primo contatto parve prossimo dom José si tese, ma poi le ore s'avvicendarono, venne mezzogiorno, e il sole illuminò una scena immobile. Gli eserciti esitavano, l'uno di fronte all'altro. Si doveva attaccare, era il momento della resa dei conti, strepitava José, che calpestava a passi nervosi i fili d'erba sotto gli stivaloni, ma il comandante in capo delle forze armate, Bento Gonηalves, aveva invece deciso per il temporeggiamento. D'un tratto giunse anche voce che Rodriguez, vecchio generale delle truppe imperiali, volesse ritirarsi, il che infiammò José ancora di più. Ma Bento esitava, temeva la sproporzione delle forze. Lo sprezzo originario si era dissolto, e qualcosa nella rivoluzione farroupilha si era inceppato. O forse il vizio c'era sempre stato. Un peccato d'origine di fronte al quale dom José aveva voluto dimostrarsi cieco.

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Lisander e donna Teresa non si sarebbero rivisti per un mese, e il disgiungimento ingenerò una ricaduta preoccupante sulle finanze, esigue, del fu pittore ora callotipista; la situazione arrivò a farsi così sfavorevole che Lisander, pur di non venire dichiarato insolvente dai creditori, mise a tacere le ugge d'orgoglio e si rivolse ai Romantici di Sbieco. Non chiese soccorso apertamente, né elemosine volgari, già così l'umiliazione gli pareva insopportabile; provò una manovra di fino. Li introdusse nel mondo a suo dire "rivoluzionario" della callotipia per coinvolgerli, fiducioso che loro, i suoi cosiddetti amici, che tra le vanterie che sciorinavano nel professarsi "di Sbieco" adducevano anche di non essere "schizzinosi verso coloro sine nobilitate: mica siamo una feccia qualunque di snob", pubblicizzassero l'attività all'esercito di contabili, copisti e statistici, ragionieri e impiegati per la registrazione degli affari di stato, avvocati e supervisori e ingegneri per la vita edilizia e urbana, insomma, che gli RdS introducessero l'amico all'intera marmaglia di baldanzosi sfornati dall'università e di buona famiglia, tutti interessati alla "cultura" e ad avere una vita "di benessere". Loro, per Lisander, rappresentavano una frontiera di conquiste, e a tutta prima la strategia del callotipista parve fruttuosa, soprattutto grazie alla mediazione di un nuovo membro della cricca, Carlino detto "il Ruga" per via del solco che gli s'apriva al centro della fronte quando, al cospetto di un interlocutore, dimostrava insofferenza o, peggio ancora, stizza. Il Ruga lavorava all'Intendenza Generale delle Finanze, annoverava conoscenze e non aveva mai rivolto a Lisander la sua Ruga d'Intolleranza, perciò il callotipista poté sperimentare non solo coi famigli di Carlino, i quali vollero un ritratto nel salone di casa, sotto la pendola, ma pure con più d'un conoscente. E tutti lo pagarono in contanti senza tergiversi, permettendogli di allontanare la tagliola di chi veniva a rinfacciare il debito sotto casa. A infrangere le speranze, però, fu l'insorgere – dilettoso – delle prime questioni d'estetica filosofica. Lisander aveva agito nel mero intento che gli RdS s'impegnassero a far circolare qualche ritratto, le prime vedute del Castello e di Porta Tosa che, complice il chiarore più deciso e duraturo della stagione, andava sperimentando. Con rammarico del giovane callotipista, l'aver schiuso agli RdS l'universo della chimica e della fisica ottica applicate all'arte del ritratto produsse invece discussioni interminabili. Le solite, inguaribili chiacchiere, a dire il vero, che però rivoltate contro di lui gli risultarono indigeste. Al bettolìn di prett si era allestito l'agone e per quante serate l'estetica tenzone contrappose pittura e callotipía, artisticità e ingegno, soggettività o meccanica mimesis! "C'è da chiedersi se si tratti di Kalos o di cacòs," si interrogò cogitabondo – sguardo in alto, palmo sotto il mento e braccio a L, viso contratto incapace di sorriso – Igino il Lungo, che in quell'incipit aveva dimostrato un inusuale esprit di brevità, ma fuorviante; era infatti preludio all'estenuante argomentazione. "Ca-che?" infatti domandò Floro sciaguratamente, e così Igino colse l'occasione di menarla lunga quasi legittimato: "Caro Floro, spiegherò a beneficio della tua ignoranza di Scientifico: c'è da vedere se è una cosa buona e bella, kalos kai agathos, o soltanto una portentosa cagata!". A seguire un fiorire di sghignazzate, e al primo decrescere d'ilarità ecco Igino proseguire mentre Lisander si mangiava le mani davanti al boccale di birra verde che aveva scroccato a Gegé lo Schiocco. Carlino il Ruga tentò di prendere le parti del callotipista, ma la polemica si fece snervante. Gli RdS non avevano compreso quale fosse la posta in palio: qui non si discorreva di concetti, ma di grana. Non che Lisander avesse inviato segnali chiari e sufficienti per dare a intendere la gravità della situazione in cui versava, semmai pareva lo stesso di sempre, soltanto d'umore un po' peggiore. Il dibattimento, a ogni modo, si avvicinò all'erroneo fulcro del contendere: l'eterna disputa tra antico e moderno, classico e romantico, freddo e caldo. Così ecco pronunciati anatemi contro lo spirito classico di un'arte dispotica le cui radici affondavano nei duemila anni antecedenti, lo stesso che aveva dileggiato l'urbanissimo Carlo Porta e coloro che a partire dall'ispirazione quasi s'illudevano di emanciparsi – "Hurrà! Ben detto," esclamò la tavolata di RdS a quella prima stoccata, a opera di Gegé lo Schiocco. A beneficio della sceneggiata Carlo detto Charles alla francese si assunse allora la responsabilità di far da leguleio difensore dell'innocenza del fronte classicista, e contrattaccò: armonia figlia dell'ordine naturale, riflesso del Divino, mimesis che nobilita la natura e con essa Dio, il suo celeste gesto. I Romantici? Ragazzini che nulla intendevano della superiorità dell'arte sulle umane, più barbare pulsioni. Imitatori freddi e senz'anima, accusavano di contro i Romantici di Sbieco, pur attratti dall'equilibrio, e allora ecco Carlo detto Charles alla francese ribattere che loro s'ingrassavano di fantasie individuali e leggende da tempi di mezzo. E via tra boccali, orinate e pucciate alla piscina di Diana, che quell'anno aveva aperto i battenti con sfarzi d'inaugurazione, e della quale gli RdS godevano nelle ore tarde della notte, di nascosto, grazie ai sotterfugi del randagio Maramàn. L'argomento della callotipia tenne banco per settimane: "Che vadano tutti a farsi fottere. Qui tra un po' mi tocca di rubare".

Per Lisander vennero notti insonni, bile di recriminazioni, e un saluto mattutino a Chiarella, il bacio candido di lei, rassicurante: "Sei troppo stanco, devi riposare". Infine, con sforzo d'intelletto assai provante, Lisander intuì che avrebbe dovuto fingere; non gli restava che partecipare alla messinscena.

Allora chiese aiuto a Gerolamo il Grammatico, detto così perché era impossibile coglierlo impreparato a proposito di qualsivoglia dubbio di lingue, e ne conosceva ben cinque, e tale disarmante preparazione si rifletteva nell'attitudine con cui affrontava le vicende e le cose quotidiane. Ecco, nel chiedere l'intervento di Gerolamo, Lisander riuscì quantomeno a imprimere all'ondivagare del dibattito sulla callotipia una traiettoria. La Decretazione Grammatica di Gerolamo fu la seguente: il disegno a mezzo di camera ottica pareva in primis tecnica più consona a uno spirito classico. Tutto qui, nient'altro. Dunque da una parte la manualità virtuosa, talento d'artista che plasmava la materia secondo i propri istinti investendo l'opera con un affiato di vita, e dall'altra l'ostinata ricerca di una proporzionata fedeltà riproduttiva, l'esaltazione del gesto artigianale che inseriva il foglio salato nella camera ottica, che dosava ioduro d'argento per autorizzare il prodigio mediante la sensibilizzazione. A Lisander non fregava un accidente, così distanti le chiacchierate dalla malaparata d'ogni giorno, però volle dar fondo alla pazienza, e una sera arrivò a sgolarsi nel tentativo di spiegare – macché spiegare, in realtà ragionava così per la prima volta – che non si trattava di un'attività impietosa, ma che di pietas il gesto callotipico ne conservava; tanto più che ultimamente Lisander aveva cominciato a correggere a pennello certe imperfezioni dei ritratti, e tali correzioni non solo costituivano una prova di ribellione alle costrizioni e alle mancanze della tecnica, ma aggiungevano un quid che testimoniava appunto che nulla dell'artisticità dell'Osservatore andava perduto.

Il dibattito di quelle settimane calde si tramutò in uno dei più intensi che gli RdS avessero mai affrontato, e l'argomento col quale Lisander sbaragliò le offensive degli amici fu il seguente: il costo di un ritratto a mezzo di camera ottica si riduceva di molto rispetto a quello di un ritratto usuale, sicché tutti coloro che mai si sarebbero potuti permettere i servigi di un pittore avrebbero invece potuto, con esborso assai più modesto, regalarsi un'immagine per compiacersene coi propri familiari.

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