Autore Francesco Mari
CoautoreElisabetta Bertol
Titolo Veleni
SottotitoloIntrighi e delitti nei secoli
EdizioneLe Lettere, Firenze, 2003 [2001], Saggi 30 , pag. 280, cop.fle., dim. 145x215x17 mm , Isbn 978-88-7166-601-3
PrefazioneMaria Montagna
LettoreElisabetta Cavalli, 2003
Classe storia sociale , storia criminale , chimica









 

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Indice

Presentazione di Maria Montagna                            7
Introduzione                                              11

I.   L'arsenico: principe dei veleni, veleno dei principi 19
II.  La morte dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo
        (1313)                                            37
III. La morte contemporanea di Francesco I de' Medici e
        della sua sposa Bianca Cappello (1587)            49
IV.  L'«acqua» di Giulia Tofana (1640)                    67
V.   La morte di «Madame» (1670)                          83
VI.  La marchesa di Brinvilliers e la «poudre a succession»
        (1676)                                            95
VII. La «Chambre Ardente» ovvero il processo dei veleni
        (1679)                                           113
VIII.Giovanna Bonanno, «La vecchia di l'acitu» (1788)    127
IX.  Napoleone: morte naturale o veneficio? (1821)       143
X.   L'«affaire Lafarge» (1840)                          157
XI.  Madame Eufemia Lacoste (1844)                       169
XII. Hélène Jégado: ventisei avvelenamenti e otto tentativi
        (1851)                                           189
XIII.Girolamo Lo Verso: un Borgia da strapazzo? (1945)   205
XIV. Il processo Massai: la parola all' arsenico (1950)  231
XV.  Il caso Nigrisoli (1964)                            257


 

 

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Pagina 11

INTRODUZIONE



«L'avidità dell' oro, la giurata vendetta, la segreta rivalità, e molte altre consimili perverse passioni, sono le cause per se stesse potentissime, che indur possono talvolta l'uomo scellerato, e di malafede a premeditare, e quindi a dare effetto al distruggimento della vita altrui, mediante il mezzo di sostanze armate di somma potenza, colla speranza poi che occulto ed impunito resti mai sempre il di lui compiuto misfatto». Così scriveva del veneficio Pandolfini-Barbieri nel 1833.

In realtà l'impiego del veleno per uccidere un proprio simile è uno dei crimini più odiosi e condannato da sempre in tutte le civiltà e in tutte le epoche con il massimo della pena. Una legge romana, risalente all'imperatore Antonino Pio, lo dice in termini precisi: «Plus est hominem extinguere veneno, quam occidere gladio» (È più grave uccidere un uomo con il veleno che con la spada).

Il termine veleno si presta a varie dissertazioni; presso i Romani si faceva una distinzione tra venenum bonum, quello che serviva a curare e venenum malum quello che era letifero. La dualità semantica del vocabolo anglosassone «gift» che nella lingua tedesca designa il «veleno» e nella lingua inglese il «dono» è stata discussa ampiamente da etimologisti e sociologi. In altre lingue vi è questa medesima polisemia come ad esempio nel greco antico «dosis» che indica l'atto del donare ma anche la «dose» di una sostanza mortale.

Sempre a proposito del doppio ed opposto significato ce ne viene dato un esempio da un episodio della conquista romana dell'Africa, quando il re Massinissa offre il veleno alla sua sposa Sofonisba, offerta che costituisce l'estrema risorsa per evitarle la prigionia nelle mani dei Romani. Sofonisba accetta di buon grado il «dono» della coppa con il «veleno» che le permetterà, pur con la morte, di salvaguardare la propria libertà. Di fronte al destino, il dono che assicura la possibilità di mettere fine alla propria esistenza è uno degli ossimori più eloquenti che esistano.

È noto come presso gli antichi Greci veniva impiegato il veleno nelle condanne a morte: a Socrate fu data da bere una pozione di cicuta, potente veleno, per la sua esecuzione capitale. Anche nei tempi attuali, nei moderni Stati Uniti d'America, molte condanne a morte vengono eseguite tramite iniezione letale di una sostanza farmacologicamente attiva che per quantità volutamente eccessiva agisce come veleno.

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Pagina 67

IV
L'«ACQUA» DI GIULIA TOFANA
(1640)



L'«acqua Toffana», «acqua di Napoli», «acquetta», il «poison à la mode» era, secondo Garelli, medico di Carlo VI d'Austria, una soluzione di anidride arseniosa in acqua distillata aromatica, addizionata con alcoolato di cantaridi.

Ma chi era questa Toffana o meglio Tofana? Giulia Tofana era una cortigiana, peraltro anche fattucchiera, che visse nella Palermo dei primi del '600. Con ogni probabilità Giulia era imparentata, se non ne era addirittura la figlia, con tale Thofania d'Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633 per aver fatto morire «cum veneno propinato» suo marito Francesco ed altre persone. In realtà in quell'anno, durante il viceregno di Afan de Rivera, duca di Alcalà, che governò la Sicilia dal 1632 al 1634, erano stati scoperti ed assicurati alla giustizia altri due avvelenatori. La prima, una donna, a nome Francesca la Sarda o Rapisardi, venne giustiziata in quanto «fabbricatrice d'un veleno diabolico in acqua, della quale dandone una stilla in qualsivoglia cosa, faceva perdere il calore naturale, e fra tre giorni al più ne morivano le persone che la bevevano, così in Palermo come nel regno». Con sentenza della Regia Corte Capitanale la donna fu condannata ad essere decapitata il 17 febbraio del 1633. Poco tempo dopo, il 21 giugno dello stesso anno, per sentenza della Gran Corte Criminale, venne giustiziato Placido di Marco, anche lui accusato di «aver composto acqua velenosa per ammazzare diverse persone». Il di Marco venne «garrottato» secondo il costume spagnolo sulla pubblica piazza ed il cadavere squartato sottoponendolo alla trazione di quattro galere. Questa spettacolare modalità di esecuzione fu messa in atto dalle autorità probabilmente per incutere terrore in chi avesse avuto in mente di imitare l'attività di questo avvelenatore. Il di Marco, prima di essere giustiziato, fu naturalmente sottoposto a tortura e confessò che Thofania d'Adamo era la mente diabolica che provvedeva alla fabbricazione dell'acqua velenosa, mentra la Rapisardi, detta la Sarda, era semplicemente colei che dispensava il veleno.

Se la Tofana era davvero imparentata con la d'Adamo non vi è dubbio che da lei aveva appreso i primi rudimenti dell'«arte». Di Giulia Tofana si racconta che fosse una donna estremamente attraente, dotata di particolare intelligenza e molto portata per gli affari. Di più non è dato sapere perché tutto è limitato agli scarni riferimenti giudiziari del tempo. Ci piace però ricordare questa donna con quanto ha scritto Adriana Assini in un romanzo che liberamente ricostruisce la storia dell'inventrice dell'«acqua Tofana»:

Venere plebea scolpita in marmo pario, la giovane Tofana non si curò da quel momento in poi che della sua pagana bellezza ammantata di civetteria. [...] Si rimirò nella specchiera grande e chiese all'amica se la trovasse bella. [...] Giulia indugiò ancora qualche istante di fronte alla sua immagine riflessa per aggiustarsi la veste di taffettà aperta sul davanti, dalla quale si intravedeva una sottana ben rigonfia, che le metteva in evidenza i fianchi pieni e larghi. Imbrigliò i lunghi capelli sbionditi in una rete argentata e ravvivò le soppraciglia scure con l'inchiostro di china. Poi mise un vezzo di corallo attorno al collo.

La conoscenza e la frequentazione d'un farmacista le dettero la possibilità di disporre di alcuni dei più famosi veleni usati a quei tempi.

La Tofana, empiricamente, aveva scoperto che, facendo bollire in acqua in una pentola sigillata, una miscela di anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio, era possibile ottenere una soluzione limpida e trasparente, priva di particolari odori e sapori. Evidentemente con questa tecnica l'anidride arseniosa, creando in acqua un ambiente acido, favoriva parzialmente la dissoluzione sia del piombo che, trattandosi di limatura, si trovava sotto forma di ossido in superficie, sia dell'antimonio. Dopo filtrazione quindi si otteneva una soluzione priva di particolari odori o sapori, contenente un sale di arsenico, sostanza dotata di altissima tossicità come è già stato riferito nel capitolo dedicato a questo veleno, insieme a sali di piombo e di antimonio anch'essi altamente tossici. Era stato quindi scoperto il veleno ideale che poteva essere facilmente aggiunto alle bevande o ai cibi senza che nessuno potesse accorgersene.

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Pagina 113

VII
LA «CHAMBRE ARDENTE» OVVERO
IL PROCESSO DEI VELENI
(1679)
Non si era ancora spenta l'eco del processo Brinvilliers, che aveva suscitato un grossissimo interesse e soprattutto un grande raccapriccio in tutta la Francia, quando, poco tempo dopo, a Parigi scoppiò un altro caso che, come si vedrà, verrà ad ingrandirsi sempre più coinvolgendo non solo grandi nomi della borghesia e della nobiltà parigina, ma anche l'autorità costituita e cioè il re Luigi XIV.

[...]

I fatti che emersero dalle indagini furono di una gravità inaudita, come si appurerà poi durante il processo, e il re Luigi XIV istituì appositamente una commissione inquirente detta «La Chambre ardente», che si istallò il 10 aprile 1679 nel palazzo dell'Arsenale, ed a presiedere questa commissione fu nominato proprio La Reynie, con funzioni di procuratore generale e relatore. La «Chambre ardente» era così chiamata, secondo alcuni, perché l'aula dove si svolgevano le inchieste e gli interrogatori, e che era tutta tappezzata di tende nere, era illuminata giorno e notte da grandi torce ardenti; secondo altri il nome derivava invece dal fatto che gli accusati, se riconosciuti colpevoli, erano destinati a finire sul rogo.

Questa istituzione, chiamata anche «Chambre des poisons», lavorò fino al 21 luglio 1682, a parte una sospensione, come si vedrà più avanti, dal 1° ottobre 1680 al 19 maggio 1681, interrogando 442 accusati, di questi ben 367 furono arrestati, in 218 casi fu confermato l'arresto con varie pene detentive, 37 soggetti furono condannati a morte e la condanna fu eseguita dopo che i rei ebbero subito la tortura ordinaria e straordinaria; 2 dei condannati morirono in carcere di morte naturale, 5 furono condannati al remo nelle galere reali, 23 furono banditi dalla Francia, ma alcuni dei principali colpevoli riuscirono a sfuggire al castigo, grazie all'intervento di protezioni altolocate o con la complicità di grossi nomi dell'aristocazia contro i quali non si ebbe il coraggio di procedere. Alcuni accusati si suicidarono in prigione, come la Dodée, una fattucchiera di 35 anni ancora piacente, che era stata arrestata insieme alla Trianon e che si impiccò nella torre di Vincennes.

Dalle inchieste condotte emerse che in quel tempo a Parigi si erano sviluppate due associazioni: una, con indirizzo prevalentemente satanico, con tanto di streghe, stregoni e fattucchiere che eseguivano esorcismi, malefici e messe nere, l'altra, ad indirizzo alchemico, con maghi che lavoravano tra storte ed alambicchi alla ricerca, tra l'altro, della famosa pietra filosofale che si riteneva potesse trasformare in oro i metalli vili. Tra i due gruppi intercorrevano frequenti rapporti, dato che erano soliti scambiarsi i risultati delle loro «sperimentazioni» nelle quali i veleni svolgevano un ruolo non indifferente. Era l'arsenico, tra gli altri, il principale veleno usato: a parte la famosa «camicia all'italiana», cioè imbevuta di arsenico, che portava ad intossicare chiunque l'indossasse venendo il veleno assorbito per via dermica quando soprattutto il malcapitato sudava, l'arsenico veniva messo nei clisteri, nell'acqua per i gargarismi, nel vino, nel brodo, nelle tisane; si mescolava ai cibi, si introduceva nelle pastiglie per la tosse, nei dolci e nei cioccolatini.

Un altro sistema, in effetti assai complicato, per ottenere un veleno estremamente efficace, secondo quanto detto da un certo François Belot giustiziato nel 1679, era quello di avvelenare un rospo come già riportato nel capitolo V. Dopo essere stata arrestata la Voisin venne interrogata da La Reynie sui motivi che spingevano da lei donne di ogni rango; essa così rispose:

Alcune mi chiedevano se sarebbero potute diventare vedove quanto prima per poter sposare qualcun altro e queste erano la maggior parte delle mie clienti. Chi veniva a farsi leggere la mano dopo varie domande arrivava sempre allo stesso punto chiedendo cioé se la sorte prevedesse che potessero restare vedove e quando rispondevo che ciò era nelle mani del Signore mi accusavano di non essere una buona indovina.

Margot, la serva della Voisin, disse che i clienti arrivavano da ogni parte ed ancora: «La Voisin aveva sempre un gran seguito dietro di lei, c'era un gran stuolo di persone di tutti i ceti e di tutte le condizioni».

I guadagni della Voisin erano elevatissimi: Brouardel calcola che la donna arrivava a guadagnare annualmente una cifra che, rapportata alla moneta dell'epoca in cui scriveva (1900) era valutabile dai 50.000 ai 100.000 franchi. Queste somme così elevate erano principalmente usate per accontentare i suoi amanti, che erano numerosissimi, e si dice che tra gli altri vi fosse addirittura André Guillame, boia della città di Parigi.

Al momento dell'esecuzione la Voisin volle fare spontaneamente una dichiarazione: «Mi sento obbligata a dire, a scarico della mia coscienza, che moltissima gente di ogni estrazione sociale si è rivolta a me per fare morire numerosissime persone; è stata la dissolutezza il primum movens di tutti questi crimini». La donna aveva ascoltato le cose più segrete di chi si rivolgeva a lei, come i giovani che le chiedevano di «ammorbidire» il cuore delle loro amanti o di piegare la resistenza di un genitore che si opponeva a questi amori; dice poi Funck-Brentano che «...fu l'amore carnale e tenace di donne ormai mature che si attaccavano all'amante che invece le lasciava per fanciulle più piacenti. Furono gli amori per l'ambizione, i desideri di titoli onorifici e di denaro che portarono agli orrori della messa nera».

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Pagina 143

IX
NAPOLEONE: MORTE NATURALE O VENEFICIO?
(1821)



Come è a tutti noto il 5 maggio 1821 Napoleone Bonaparte, già imperatore dei francesi, moriva a Sant'Elena, minuscola isola di origine vulcanica, larga 11 km e lunga 17, situata nell'Oceano Atlantico a 1.750 miglia dal Sudafrica, a 1.800 miglia dal Sudamerica, a 4.000 miglia dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

In quest'isola, lontanissima dall'Europa, Napoleone era stato mandato in esilio dopo la sconfitta subita a Waterloo ad opera del duca di Wellington. La partenza dall'Inghilterra avvenne il 7 agosto 1815, a bordo della nave Northumberland comandata dall'ammiraglio Cockburn.

L'imperatore arrivò a Sant'Elena lunedì 16 ottobre 1815, con un piccolo seguito di fedeli che avevano deciso di dividere con lui l'esilio in un posto così lontano dal mondo civile. A parte alcuni servitori, lo accompagnavano il generale Bertrand, già gran maresciallo di Palazzo, l'aiutante di campo, conte de Montholon, il generale Gourgaud ed un civile, il conte de Las Cases. A sorvegliare l'augusto prigioniero sull'isola era stata inviata una guarnigione britannica composta da 3.000 uomini, comandata dal governatore Hudson Lowe, che nel 1816 sostituirà l'ammiraglio Cockburn.

Inizialmente Napoleone dovette alloggiare in una piccola abitazione chiamata «The Briars» («I Rovi»), così descritta dal de Las Cases:

L'imperatore Napoleone, che era una volta tanto potente e reggeva tanti regni, si trovò ridotto in un tugurio di minime dimensioni, privo di tende, di imposte, di arredamento. In quel piccolo luogo doveva dormire, vestirsi, mangiare e, per lavarsi, doveva uscire all'aperto.

Dopo che Napoleone ebbe inviato in Inghilterra numerose proteste sull'infame modo di trattare un prigioniero di guerra, nel dicembre gli fu messa a disposizione una fattoria denominata «Longwood», decisamente più grande ed accogliente della precedente, dove la piccola corte si trasferì insieme al medico di bordo della Northumberland, Bary O'Meara, che aveva ottenuto l'autorizzazione ad assistere l'imperatore, stante l'assenza di medici nell'isola.

In questo esilio Napoleone passava le sue giornate parlando dei tempi andati, dettando le sue memorie, leggendo, coltivando un piccolo giardino, cavalcando nei ristretti spazi consentitigli e, soprattutto, imparando la lingua inglese che leggeva fluentemente, ma che malamente parlava.

Nel 1821 l'imperatore si ammalò e nel marzo fu costretto a letto. In aprile dettò le sue ultime volontà: «È mio desiderio che le mie spoglie siano collocate sulle rive della Senna vicino al popolo francese che ho tanto amato». Ed aggiunse: «Muoio prima del tempo, assassinato dall'oligarchia britannica e dal suo assassino mercenario».

La mattina del 5 maggio, all'età di 52 anni, Napoleone Bonaparte moriva.

L'autopsia fu eseguita il giorno dopo: il corpo dell'imperatore fu sdraiato sul tavolo da biliardo a Longwood e i medici dello staff militare britannico, composto da Thomas Shortt, Arcibald Arnott, Charles Mitchell, Francis Burton e Matthew Livingston, riscontrarono una estesa lesione ulcerosa nello stomaco ed un notevole ingrossamento del fegato; più precisamente fu rilevata abbondante quantità di sangue scuro nello stomaco, la mucosa gastrica si presentava notevolmente corrosa, il fegato era ingrossato ed indurito, la milza aumentata di peso, vi era abbondante effusione di liquido nella pleura, i linfonodi bronchiali e mediastinici erano notevolmente degenerati. Questo quadro anatomopatologico portò alla conclusione che si trattasse di un cancro; d'altra parte non fu rilevata nessuna lesione dovuta a violenza fisica e nello stomaco non fu riscontrata, almeno allo stadio delle conoscenze dell'epoca, presenza di veleno.

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Pagina 257

XV
IL CASO NIGRISOLI
(1964)



Nella notte di giovedì 14 marzo 1963 Ombretta Galeffi, moglie di uno stimato medico bolognese Carlo Nigrisoli, poco dopo essersi coricata veniva colta da improvviso malore. Secondo le dichiarazioni del marito egli era stato svegliato di soprassalto dal respiro rantolante della moglie e, una volta sveglio, si era reso conto che la donna era sotto l'azione di una dose tossica di barbiturici avendo rinvenuto tre involucri vuoti, da 10 capsule ciascuno, di Amytal sodico, involucri che successivamente dichiarò di aver eliminato.

Il dottor Nigrisoli, nella convinzione che la moglie avesse assunto a scopo suicidiario il farmaco, dichiarò di aver immediatamente provveduto a praticarle una iniezione di un cardiotonico (Micoren), in una delle vene della piega del gomito destro.

Poiché, nonostante l'intervento terapeutico posto in essere dal Nigrisoli, le condizioni della donna peggioravano, il medico, essendo la sua abitazione in comunicazione con l'omonima Casa di cura in comproprietà con il padre ed il fratello, chiamò una lettiga per fare trasferire la moglie al pronto soccorso. Ombretta Galeffi fu trattata con cardiotonici, costituiti da una fiala di Sympatol associata ad una di Spartocanfora, mediante iniezione nei muscoli glutei di sinistra. La donna morì poco dopo il trasporto in pronto soccorso.

I medici subito accorsi non poterono che constatarne la morte, che considerarono di origine asfittica e, poiché tempo prima avevano già avuto occasione di soccorrere la donna a seguito di un altro malore improvviso, del tutto analogo a quello che ora l'aveva portata a morte, malore sopraggiunto dopo una iniezione endovenosa praticatale dal marito, si rifiutarono di redigere un certificato di morte per acuta insufficienza di cuore, come aveva proposto Carlo Nigrisoli, ma stesero referto per cause di morte da determinare.

Il giorno dopo si presentava al Procuratore della Repubblica di Bologna Paolo Nigrisoli, fratello di Carlo, anche lui medico che, producendo un certificato di morte firmato dal dotto Corrado Giampiccolo, denunziava che la sera precedente, verso le ore 23, sua cognata, Ombretta Galeffi, era morta improvvisamente per causa non determinabile e che quindi era necessario procedere ad accertamenti medico-legali al fine di stabilire quale fosse stata la causa della morte.

Paolo Nigrisoli fece presente che suo fratello Carlo aveva minacciato di suicidarsi con una pistola, della quale era in possesso, qualora fossero stati compiuti accertamenti in tal senso.

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