Autore Javier Marías
Titolo Berta Isla
EdizioneEinaudi, Torino, 2018, Supercoralli , pag. 482, cop.rig.sov., dim. 14x22,2x3 cm , Isbn 978-88-06-23743-1
OriginaleBerta Isla [2017]
TraduttoreMaria Nicola
LettoreGiorgio Crepe, 2019
Classe narrativa spagnola












 

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Pagina 5

Per molto tempo non avrebbe saputo dire se suo marito era suo marito, in modo simile a come non saprebbe dire, nel dormiveglia, se sta pensando o sognando, se ha ancora il controllo della propria mente o se lo ha già perduto per lo sfinimento. A volte pensava di sí, altre volte di no, e a volte decideva di non pensare e di continuare a vivere la sua vita con lui, o con quell'uomo che assomigliava a lui, piú vecchio di lui. Anche lei del resto era invecchiata, per conto suo, in sua assenza, era molto giovane quando lo aveva sposato.

Questi erano i periodi migliori, i piú tranquilli e soddisfacenti, quelli che scorrevano piú lisci ma che non duravano, non è facile dimenticare una cosa cosí grande, un dubbio di quella portata. Riusciva a lasciarlo da parte per qualche settimana, a immergersi nell'impremeditata quotidianità di cui godono senza problemi quasi tutti gli abitanti della terra, che si limitano a veder cominciare le giornate, a vederle tracciare un arco e poi concludersi. Allora immaginano un termine, una pausa, uno stacco o una frontiera, segnato dal momento in cui ci si addormenta, che in realtà non c'è: il tempo continua ad avanzare e ad agire, non solo sul nostro corpo, anche sulla nostra coscienza, a lui non importa se dormiamo profondamente oppure siamo svegli e all'erta, se soffriamo d'insonnia o ci si chiudono gli occhi nostro malgrado come sentinelle alle prime armi in quelle guardie notturne che in Spagna, chissà perché, vengono dette imaginarias, forse perché il giorno dopo sembra non siano mai esistite, a chi è rimasto in piedi mentre il mondo dormiva, ammesso che sia riuscito a rimanere sveglio e a non farsi arrestare, o passare per le armi in tempo di guerra. Un solo colpo di sonno invincibile e ci si può ritrovare morti, o addormentati per sempre. Che grande rischio nella piú piccola cosa.

Quando si convinceva che suo marito era suo marito, non era altrettanto calma e non si alzava dal letto piena di voglia di cominciare la giornata, si sentiva prigioniera di ciò che tanto a lungo aveva atteso e ora era avvenuto, chi si abitua a vivere nell'attesa non ne accetta mai del tutto la fine, è come se gli togliessero metà dell'aria. E quando si convinceva che non era suo marito passava la notte in preda all'agitazione e al senso di colpa, avrebbe voluto non svegliarsi mai, per non dover affrontare la diffidenza verso colui che amava né i rimproveri con cui si puniva. Non le piaceva vedersi indurita come una miserabile. Nei periodi in cui decideva o riusciva a non convincersi di nulla, sentiva invece il solletico del dubbio latente, dell'incertezza cacciata via che prima o poi era destinata a tornare. Aveva scoperto che vivere nella certezza assoluta è noioso e condanna a un'esistenza sola, a un'esistenza reale che coincide con quella immaginaria, e nessuno sfugge interamente a quest'ultima. Ma anche il sospetto perenne è intollerabile, diventa estenuante osservare di continuo se stessi e l'altro, soprattutto l'altro, il piú vicino, e metterlo a confronto con i ricordi, che non sono mai attendibili. Nessuno vede con nitidezza ciò che non ha piú davanti, anche se è appena accaduto o aleggiano ancora nella stanza l'aroma o lo scontento di chi si è allontanato. Basta che uno esca da una porta e sparisca perché la sua immagine cominci a sfumare, basta smettere di vedere per non vedere piú chiaramente, o non vedere nulla; e con l'udito è la stessa cosa, per non parlare del tatto. Come si fa, allora, a ricordare con precisione e nel giusto ordine quello che è successo tanto tempo fa? Come può lei raffigurarsi con fedeltà il marito di quindici o vent'anni prima, quello che veniva a letto quando lei dormiva da un pezzo, quello che col membro la penetrava? Anche questo svanisce e si confonde, come le imaginarias dei soldati. Forse è ciò che svanisce più in fretta.

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Non era sempre stato posseduto dallo scontento, quel suo marito insieme spagnolo e inglese, di nome Tom o Tomás Nevinson. Non sempre aveva emanato una sorta di senso di fastidio pervasivo, un disgusto di fondo che portava con sé in tutta la casa e che finiva per diventare anche di superficie. Arrivava con lui come un'emanazione, nel salone, in camera da letto, in cucina, o come un temporale in sospeso sulla sua testa che lo seguiva dappertutto e raramente si allontanava. Questo lo portava a essere laconico e a rispondere a poche domande, certo non a quelle compromettenti ma nemmeno a quelle inoffensive. Per le prime aveva pronto l'argomento che non era autorizzato a rivelare nulla, e ne approfittava per ricordare a sua moglie, Berta Isla, che non lo sarebbe mai stato: quando anche fossero passati decenni e fosse stato in punto di morte, mai avrebbe potuto raccontarle quali erano le sue occupazioni presenti, o i suoi compiti, o le sue missioni, la vita che faceva quando non era con lei. Berta doveva accettarlo e lo accettava: c'era una zona o una dimensione di suo marito che sarebbe rimasta sempre nell'ombra, sempre fuori dal suo campo visivo e dalla portata del suo orecchio, il racconto negato, l'occhio socchiuso o miope o meglio ancora cieco, lei poteva solo congetturarla o immaginarla.

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Nel 1969 due mode percorrevano l'Europa e influenzavano principalmente i giovani: la politica e il sesso. Le rivolte parigine del maggio '68 e la Primavera di Praga travolta dai carti armati sovietici misero in effervescenza - sia pure per breve tempo - mezzo continente. In Spagna, per di piú, sopravviveva una dittatura instaurata piú di trent'anni prima. Gli scioperi operai e studenteschi spinsero il regime a dichiarare lo stato d'emergenza su tutto il territorio nazionale, un penoso pretesto per limitare ancora di più i già labili diritti, accrescere le prerogative e l'impunità della polizia, cui veniva data mano libera per fare quello che voleva con chi voleva. Il 20 gennaio di quell'anno lo studente di Giurisprudenza Enrique Ruano, che tre giorni prima era stato arrestato dalla temuta Brigada Político-Social per un lancio di volantini, era morto sotto custodia. La versione ufficiale, mutevole e piena di contraddizioni, fu che il giovane, di ventun anni, condotto in un edificio dell'attuale calle Príncipe de Vergara al fine di effettuarvi un sopralluogo, era sfuggito ai tre agenti che lo sorvegliavano per cadere o gettarsi da una finestra dell'appartamento al settimo piano in cui si trovava. Il ministro Fraga e il quotidiano «ABC» fecero di tutto per presentare l'incidente come un suicidio e per attribuire a Ruano una mente fragile e squilibrata, pubblicando in prima pagina e a puntate una lettera al suo psichiatra tagliata e manipolata in modo che sembrasse un estratto da un supposto diario tormentato. Ma quasi nessuno credette a questa versione e l'episodio fu visto come un assassinio politico, dal momento che lo studente apparteneva al Frente de Liberación Popular, o «Felipe», organizzazione clandestina antifranchista di scarsa entità, come allora lo erano necessariamente quasi tutte (di scarsa entità e clandestine). Lo scetticismo generale era giustificato, non solo per la radicata tendenza a mentire di tutti i governi della dittatura: ventisette anni più tardi venne accertato, riesumando il cadavere nel corso del complicato processo contro i tre agenti - ormai in democrazia -, che gli era stata segata via una clavicola, osso attraverso il quale, quasi senza dubbio, doveva essere penetrato il proiettile che lo aveva ucciso. A suo tempo i risultati dell'autopsia erano stati contraffatti, non era stato permesso ai famigliari di vedere il corpo, era stato proibito loro di pubblicare un necrologio sui giornali, e il ministro dell'Informazione Fraga aveva telefonato personalmente al padre per intimargli di tacere con una frase del tipo: «Si ricordi che ha un'altra figlia a cui pensare», riferendosi alla sorella di Ruano, Margot, anche lei politicamente impegnata. E sebbene dopo tutto quel tempo non fosse stato possibile trovare alcuna prova di copevolezza e i tre poliziotti fossero stati assolti dall'accusa di omicidio - Colino, Galvàn e Simón erano i loro cognomi -, il giovane doveva essere stato sottoposto a tortura nei giorni del fermo, compreso l'ultimo, quando fu portato nell'appartamento di calle Principe de Vergara, colpito da un'arma da fuoco e gettato nel vuoto. Questo era ciò di cui erano convinti i suoi compagni già nel 1969.

L'indignazione studentesca fu talmente grande che alle mobilitazioni dei giorni successivi parteciparono anche universitari che fino ad allora erano rimasti prevalentemente apolitici o avevano preferito non esporsi e non mettersi nei guai, come Berta Isla. Alcuni amici della facoltà l'avevano convinta ad andare con loro alla manifestazione convocata un pomeriggio in plaza de Manuel Becerra, non lontano dall'arena di Las Ventas. Erano assembramenti che duravano molto poco, essendo tutti illegali: la Policía Armada, i cui uomini erano chiamati los grises per il colore grigio delle divise, veniva quasi sempre a saperlo prima, disperdeva qualunque capannello a spintoni, e se mai un corteo arrivava a formarsi, a farsi compatto e a marciare per qualche decina di metri scandendo slogan, per non parlare di quando volavano sassi contro negozi o banche, subito caricava a piedi o a cavallo agitando lunghi manganelli flessibili (piú flessibili e lunghi quelli dei poliziotti a cavallo, simili a fruste corte e grosse), e c'era sempre fra le sue file qualche elemento esibizionista o agitato che metteva mano alla pistola per fare piú paura o averne meno lui.

Appena ebbero inizio i disordini, Berta si trovò a correre davanti alle guardie, insieme a un gran numero di compagni e sconosciuti. Ciascuno prese una direzione diversa, confidando che gli inseguitori non scegliessero come obiettivo proprio lui e propendessero per bastonare altri. Lei era nuova a questi frangenti, e non sapeva niente, se fosse meglio infilarsi nella metropolitana o rifugiarsi in un bar e mescolarsi fra gli avventori oppure rimanere in strada, dove c'era sempre la possibilità di rimettersi a correre e non rimanere intrappolati. Sapeva però che l'arresto nel corso di agitazioni politiche significava, nel migliore dei casi, una notte e qualche ceffone in questura, e nel peggiore un processo e una condanna a mesi o perfino uno o due anni di reclusione, a seconda della cattiva volontà del giudice opportunamente istruito, oltre all'immediata espulsione dall'università. Sapeva poi che essere una ragazza, e molto giovane (era al primo anno), non le avrebbe risparmiato il castigo che poteva toccarle in sorte.

Presto perse di vista gli amici, fu presa dal panico nel buio pesto e male illuminato dai fiochi lampioni, corse insensatamente da una parte all'altra, tutto il freddo di gennaio le passò di colpo, si sentí ardere da un pericolo sconosciuto, istintivamente volle staccarsi dai disordini e si allontanò a tutta velocità dalla piazza per una via adiacente non molto larga e quasi vuota di manifestanti, il fuggi fuggi generale aveva optato per altre strade o cercava di non disgregarsi eccessivamente per tornare a raccogliersi e a ritentare invano, con la paura e la furia che crescevano, gli animi esaltati, i battiti accelerati e i piani andati all'aria. Correva come una saetta, atterrita, senza vedere piú nessuno né a destra né a sinistra con la coda dell'occhio mentre volava pensando di non fermarsi mai, di correre finché non si fosse sentita al sicuro, finché non si fosse lasciata dietro la città o fosse arrivata a casa, e allora senti l'impulso di voltare la testa senza diminuire la velocità - forse aveva udito un rumore strano, uno sbuffo o un trotto vivace, un rumore di villeggiatura, di paese, di campagna, un rumore dell'infanzia - e vide alle sue spalle, quasi sopra di lei, la figura enorme di un agente a cavallo con il manganello già alzato, pronto a sferrarle una scudisciata sulla nuca o sulle natiche o sulle reni che di sicuro l'avrebbe gettata a terra, che probabilmente l'avrebbe lasciata priva di sensi o stordita, incapace di reagire e tantomeno di fuggire, condannata a riceverne una seconda o una terza se la guardia si fosse accanita, o a essere trascinata, ammanettata e infilata in un furgone nella migliore delle ipotesi, e a veder rovinato il suo presente e a perdere il suo futuro in pochi minuti di irriflessività e sfortuna. Vide il muso del cavallo nero e credette di vedere anche la faccia dell'uomo in grigio, benché il casco gli coprisse la fronte e il sottogola rinforzato gli celasse il mento. Berta non inciampò né si paralizzò per lo spavento, ma accelerò, inutilmente, con la forza della disperazione, era quello che avrebbe fatto chiunque pur sapendosi condannato, che cosa possono le gambe di una ragazza contro le zampe di un veloce quadrupede, eppure le sue gambe allungarono il passo come quelle di una preda ignara che ancora spera di sfuggire. Allora comparve un braccio da un vicolo laterale, una mano che la tirò con vigore facendole perdere l'equilibrio e cadere sulle ginocchia, ma strappandola a cavallo e cavaliere e risparmiandole di certo l'impatto del manganello. Quelli tirarono diritto per inerzia, almeno di qualche decina di metri, è difficile frenare di colpo un cavallo, c'era da sperare che perdessero interesse e cercassero altri sovversivi a cui dare una lezione, ce n'erano a centinaia li intorno. La mano la rimise in piedi con un secondo strattone e Berta vide un giovanotto di bell'aspetto che non aveva certo l'aria di essere uno studente e nemmeno di partecipare a proteste d'alcun genere: i contestatori non portavano cravatta né cappello, e quel giovane si, oltre a un cappotto che aspirava a essere elegante, lungo, blu scuro, col bavero rialzato. Era un tipo all'antica, con quel cappello a tesa troppo stretta, come se lo avesse ereditato.

- Leviamoci dai coglioni, ragazza, - le disse. - Ma subito, muoviti -. E la tirò di nuovo per il braccio, voleva portarla via di 1í, guidarla, salvarla.

Ma prima che riuscissero a sparire per quella viuzza ricomparve la guardia, si era affrettata a tornare indietro. Aveva voltato il cavallo e rifatto la strada al galoppo, come se lo avesse indispettito non riuscire a catturare una preda già individuata e che ormai aveva già nel carniere o quasi. Adesso c'era da scegliere fra due, Berta e il tizio che aveva osato sottrargliela, oppure, se fosse stato abbastanza svelto e con buona mira, poteva beccarli entrambi, soprattutto se fossero arrivati dei colleghi a dargli manforte, nelle vicinanze non se ne vedevano, il grosso doveva essere impegnato sulla piazza, di solito menavano a destra e sinistra senza riguardi, caso mai un superiore li vedesse risparmiarsi e dovessero rimetterci loro dopo. Il ragazzo col cappello strinse la mano di Beata, ma non sembrò spaventarsi, anzi, raddrizzò la schiena in segno di sfida, con sangue freddo, come se disprezzasse il pericolo o non fosse disposto a mostrare timore. Il poliziotto brandiva ancora il lungo manganello, ma il suo gesto non era minaccioso, lo portava di traverso, posato sul polso della mano che reggeva le redini, come se fosse una canna da pesca o una canna di giunco tenuta in equilibrio. Era molto giovane anche lui, con gli occhi azzurri e le sopracciglia folte e scure, erano quello che piú si notava sotto il casco, lineamenti gradevoli con reminiscenze rurali, meridionali, probabilmente andaluse. Berta e il tipo all'antica rimasero fermi a guardarlo, non si azzardarono a mettersi a correre giú per il vicolo, che poteva non avere uscita o offrirne una molto scarsa. O forse avevano capito che non era il caso di fuggire da quel poliziotto.

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[...] parentesi nella vita delle nazioni, le guerre, prolungati carnevali mortalmente seri, cruenti e senza scherzi, nei quali si dà carta bianca ai cittadini, che vengono addirittura incoraggiati e addestrati - i più brillanti, i piú intelligenti, i piú abili e capaci, cosí si rafforza il carattere - al sabotaggio, al tradimento, all'inganno, all'insidia, all'abolizione del sentimento, alla mancanza di scrupoli e all'assassinio.

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Tomás Nevinson rimase per un quarto anno, prevedendo di rientrare definitivamente in Spagna a ventun anni o quasi, una volta superati gli esami finali con il massimo dei voti e con il diploma di Bachelor of Arts in tasca. A quei tempi tutto avveniva più in fretta e prima, diversamente da quanto oggi si crede, e i giovani si sentivano adulti molto presto, e pronti per affrontare compiti adulti, esercitandosi strada facendo e occupando il loro posto nel mondo. Non c'era motivo per aspettare o perdere tempo; cercare di prolungare l'adolescenza o l'infanzia con le sue placide indefinitezze sembrava cosa da pusillanimi e tremebondi, oggi la terra ne è talmente piena che nessuno li riconosce piú come tali. Sono la norma, un'umanità iperprotetta e fannullona, emersa in brevissimo tempo dopo secoli dell'esatto opposto: attività, curiosità, intrepidezza e impazienza.

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Wheeler si risistemò sulla poltrona, accavallò le gambe con eleganza (era molto alto, ed erano lunghe le sue estremità) e si accarezzò di nuovo con l'unghia la cicatrice sul mento, sembrava che gli piacesse percorrere il solco che un tempo c'era stato e ora non c'era piú, doveva essere liscissimo al tatto quell'antico fantasma di uno squarcio brutale o di una grave ferita.

- Certo che nessuno lo plasma da solo, Tomás, e nemmeno insieme ad altri. Se c'è una cosa che caratterizza e accomuna gran parte dell'umanità (e con questo mi riferisco a quanti sono passati sulla terra dalla notte dei tempi), è che su tutti noi l'universo influisce senza che possiamo influire su di esso, o in misura minima. Noi crediamo di far parte del mondo, ci viviamo e ci affanniamo per modificarlo sotto qualche aspetto nel corso della nostra vita, ma in realtà siamo «reietti dell'universo» come dice quel celebre racconto sul tizio che sparisce dal mondo trasferendosi in una via poco lontano senza dirlo a nessuno -. Outcasts of the Universe, questa fu l'espressione inglese che usò Wheeler, e la ripeté come se gli desse da pensare e non l'avesse piú ricordata da molto tempo. - Outcasts of the Universe -. Tomás non sapeva a quale racconto alludesse, ma non volle fare domande per non interromperlo. Bene o male, quella divagazione gli interessava. - Il mondo non lo alterano certo la nostra soppressione o la nostra nascita, il nostro lento percorso, la nostra esistenza, la nostra fortuita comparsa e il nostro inevitabile annullamento. E non lo altera alcun fatto, alcun crimine commesso o sventato, alcun avvenimento. Nell'insieme il mondo sarebbe lo stesso senza Platone o senza Shakespeare, senza Newton, senza la scoperta dell'America o senza la Rivoluzione francese. Non senza tutto questo insieme, ma senza uno di questi individui o eventi. Quanto è accaduto potrebbe non essere accaduto e tutto sarebbe essenzialmente uguale a com'è. O sarebbe accaduto in un altro modo, per altre vie o girandoci intorno, o più tardi, o con altri protagonisti. Non importa, non può mancarci quello che non è successo, ti assicuro che l'europeo del dodicesimo secolo non avvertiva la mancanza del Nuovo Continente, non sentiva la sua inesistenza come un'amputazione o una perdita; lo sarebbe per noi dopo cinquecento anni che lo conosciamo. Come un cataclisma.

- E allora? Perché mi parla di plasmare, se niente e nessuno lo fa, Professore?

- No, nessuno, tranne che il genocida, e nessuno di noi vorrebbe essere uno di loro, vero? Ma ci sono delle vie di mezzo. L'universo influisce su tutti noi senza che ci sia possibile intervenire né restituirgli un solo graffio. Ma con il novecentonovantanove per mille di noi si comporta assai peggio. Lo strapazza, lo scuote, lo tratta o lo guarda passare come un oggetto, non come un soggetto dotato di volontà o della sia pur minima facoltà decisionale. L'uomo del racconto sceglie di vivere fino in fondo come un oggetto; probabilmente lo era già prima, un londinese insignificante. O forse smette di esserlo, almeno in parte, privandosi di testimoni, rendendosi invisibile e irreperibile: prende la decisione di scomparire agli occhi di sua moglie, dei suoi parenti e amici, di andarsene e sottrarsi. È già qualcosa. Ma senza arrivare a casi paradossali come questo, esistono delle vie di mezzo: l'uomo che rimane chiuso in casa è piú reietto di quello che ne esce; quello che agisce lo è meno di quello che sta fermo; anche se le sue fatiche andassero sprecate. Un attore, o un professore universitario come me, lo è piú di un politico o di uno scienziato. Questi almeno cercano di turbarlo un pochino, di spettinargli qualche ciocca, di modificargli l'espressione, di fargli inarcare un sopracciglio con il loro ardire -. E Wheeler inarcò il sopracciglio sinistro con degnazione, come se imitasse un universo molto freddo, ma lievemente offeso.

- Che cosa mi sta suggerendo? Di entrare in politica? Di mettermi a fare lo scienziato? Non ho la formazione adatta per la seconda opzione, lei lo sa bene, e nemmeno le doti e la pazienza per la prima. In Spagna, per di più, non esiste la politica, solo decreti del Generalissimo.

Wheeler rise mostrando i denti leggermente separati e strizzando quei suoi occhi tendenti al giallo, e la sua amabile malizia si impadronì del suo volto.

- Oh, no, non prenderla cosí alla lettera. Non ti suggerisco questo, assolutamente. Non sono quelli che piú plasmano il mondo, per usare di nuovo questo verbo eccessivo. Lo plasmano di piú certi soggetti non esposti, che non sono sotto gli occhi di tutti, soggetti sconosciuti e opachi di cui nessuno sa niente. Come l'uomo nascosto del racconto, solo che invece di vegetare passivamente, macchinano e tramano nell'ombra. Tutti sanno chi sono i governanti, e i detentori di grandi fortune, e i comandanti militari piú potenti, e gli scienziati che mettono a punto incredibili scoperte. Guarda quell'oscuro dottor Barnard sudafricano, è diventato una celebrità mondiale, da quando ha eseguito il primo trapianto del cuore umano. Guarda quel generale Dayan in Israele, anche il suo paese non è di quelli cui si presta particolare attenzione, eppure tutto il globo lo conosce, con la sua benda sull'occhio e la sua testa pelata. Oggi le persone in vista sono talmente esposte che la loro stessa sovraesposizione le annulla, e in futuro lo saranno ancora di più. Non potranno muovere un passo senza essere seguiti da giornalisti e carmeramen, senza essere sorvegliati, e in queste condizioni non c'è modo di plasmare niente. Nulla ha peso senza mistero, senza una nebbia che lo avvolga, e noi siamo avviati verso una realtà priva di tenebre, senza chiaroscuri. Tutto ciò che è conosciuto è destinato a essere inghiottito e banalizzato, a tutta velocità, e a non avere quindi nessuna vera influenza. Ciò che è visibile, che è spettacolo di pubblico dominio, non può mai cambiare niente. Il modello non è cambiato di una virgola, contrariamente a quanto crede la gente, perché un paio d'anni fa tre astronauti hanno posato il piede sulla luna. Tutto è rimasto identico. Che differenza c'è per la vita della gente, ma anche per il funzionamento e la configurazione dell'universo? L'hanno perfino trasmessa per televisione, l'impresa, ecco la prova della sua definitiva irrilevanza. Ciò che è decisivo non viene mai mostrato, non viene neppure comunicato, o non quando accade; al contrario, viene tenuto nascosto e taciuto per sempre, o per moltissimo tempo: se lo si racconta è quando non interessa piú, quando ormai è passato remoto, la gente se ne frega del passato, è convinta che non la riguardi e che comunque non lo si possa cambiare, e su questo ha ragione. Vedi, le operazioni piú importanti dell'ultima guerra, quelle che sono state fondamentali per la vittoria, sono quelle che si ignorano e che non sono mai trapelate, quelle che non risultano negli annali e delle quali non c'è traccia. Quelle di cui addirittura si nega che siano mai state effettuate, con impassibile e auspicabile sfacciataggine, se mai qualche voce dovesse giungere alla stampa o qualche vanitoso avesse la lingua lunga; venendo meno al suo giuramento, fra l'altro. Quelli che agiscono nell'ombra, all'insaputa di tutti, e non reclamano né hanno bisogno di riconoscimenti, ecco chi sono quelli che piú turbano il mondo. In misura assai scarsa, è vero. Ma quanto meno lo pungolano un po' sulla sua poltrona e lo spingono a cambiare posizione. E il massimo cui possiamo aspirare, per non rimanere dei tristi e completi reietti -. E Wheeler tornò a muoversi sulla sua poltrona, sciolse le gambe e cambiò posizione, interpretando evidentemente la parte del suo allegorico mondo.

[...]

- Anche oggi ce n'è bisogno, non credere, di gente dotata. Anche in tempo di pace apparente. La pace, purtroppo, è sempre solo apparente, e transitoria, una messinscena. Lo stato naturale del mondo è la guerra. Spesso aperta, e se no, latente, o indiretta, o semplicemente rinviata. Ci sono sempre vaste porzioni dell'umanità che cercano di danneggiarne altre, o di strappare loro qualcosa, regnano sempre il rancore e la discordia, e quando non regnano si preparano e stanno in agguato. Quando non c'è guerra c'è la sua minaccia, e quello che potete fare voi, gli elementi piú dotati, è lavorare affinché rimanga in questa fase, quella del rinvio, della semplice minaccia. In embrione, senza mai scatenarsi. Voi siete in grado di evitarle, o almeno di deviarle e risparmiarle ai viventi di oggi, fare in modo che scoppino piú tardi, quando ci saranno altri a farne le spese, e forse anche nuovi soggetti capaci in grado di tornare a sviarle. E questo è intervenire nel mondo, Tomás. Lievemente. È come frenarlo e contenerlo... provvisoriamente, ti pare poco?

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- Ancora non lo sa, Nevinson? Davvero non sa con chi sta parlando? Andiamo, il nostro comune maestro è stato esplicito, cosí mi ha detto. Come lo è stato lei nel suo rifiuto, che delusione gli ha dato. Ma per continuare con gli esempi: se la nebbia la toglie dai guai, lei mica le chiederà garanzie di durata preventive. Ne approfitterà e basta, non è vero? Sperando che non se ne vada e la nasconda abbastanza a lungo da permetterle di mettersi in salvo. Anzi, vi si immergerà, vi si fonderà e vi si mescolerà, da quel momento in poi diventerà nebbia anche lei. Nebbia inglese, famosa da secoli per la sua impenetrabilità. E si fiderà ciecamente, altroché se si fiderà, perché adesso anche lei ne farà parte, e la nebbia la accompagnerà ovunque andrà. Lei farà parte degli accidenti, del caso, delle malattie, delle fortune e delle disgrazie. E col tempo diventerà come noi: lei accadrà, semplicemente. Ciò che è indistinguibile da lei non potrà mai tradirla né abbandonarla. Perché lei non abbandonerà se stesso, non so se mi segue.

Lo seguiva e non lo seguiva. Lo seguiva nel senso generale del discorso, ma non in quelle digressioni metaforiche in cui coglieva le tracce del maestro comune, il Professor Wheeler, con ogni probabilità anche Tupra era stato fra i suoi allievi prediletti, e lo stesso Wheeler poteva averlo reclutato a suo tempo per le imprecisate e fantasmatiche attività cui ora si dedicava. Se cosí fosse avvenuto, non doveva essere stato difficile per il Professore persuadere Tupra o Reresby, perché la sua vita prima di Oxford doveva essere stata una vita non solo d'azione e di improvvisazione e di alti e bassi, ma di delinquenza. Piú gli parlava, piú coglieva nel suo volto - rozzo in origine, progressivamente ingentilito - e nella sua dizione - forse da bassifondi al principio, ora artificiosamente curata - un passato senza scrupoli, di soluzioni drastiche quando non violente, cui non doveva aver rinunciato malgrado il suo processo di educazione e volenteroso raffinamento, non del tutto perfezionato. Forse era un uomo che si era dato da fare per migliorare non per convinzione, ma per spirito utilitaristico, per rendersi piú presentabile nel mondo e facilitarsi la scalata; doveva aver capito che gli conveniva imparare a camminare su moquette e tappeti se voleva raggiungere i suoi scopi, ma non aveva rinunciato al suo disprezzo di fondo per uffici e salotti. Si era formato sulla strada e senz'altro sapeva che la legge della strada è quella che vince e che conta, quella a cui alla fine ci si deve attenere quando si tratta di andare avanti, risolvere i problemi e superare le avversità, soprattutto quando le cose si mettono male. Tupra non doveva aver avuto una vita comoda in precedenza, una vita avviata che avesse dovuto abbandonare o mettere da parte. Accettare quello che aveva accettato, fondersi con la nebbia, come diceva lui, doveva aver rappresentato per lui una specie di salvezza, o di rimessa in carreggiata, un ripartire da zero o la legittimazione dei suoi impulsi perversi.

«Io invece ho una vita già impostata, - pensò Tomás, - e adesso in ogni caso l'ho perduta, mi è scivolata dalle mani all'improvviso ed è irrecuperabile, appartiene già a quello che è stato. Che stupidi sono i giorni, che stupido può essere un giorno qualunque, tu non sai quale sarà e ti inoltri festosamente proprio nel giorno che avresti dovuto evitare, non c'è modo di indovinare il giorno della maledizione, del patibolo e del fuoco, della gola del mare, il giorno che manda all'aria ogni cosa... E come sono stupidi, come sono futili i tuoi passi nel giorno in cui non avresti dovuto farne nemmeno uno, in cui non avresti dovuto nemmeno uscire di casa. Ti alzi come se niente fosse, entri in una libreria, ti ecciti con un'amante intermittente senza importanza e decidi di rivederla la sera stessa, per noia o per controllabile e triviale desiderio o per non sentirti un solitario e un paria, non ci sarebbe nulla di grave nel non uscire quella sera e risparmiarsi quel seccante pensiero a posteriori: "Non ne valeva la pena, adesso che si è concluso senza gioia, anzi quasi con pietà, se potessi tornare indietro mi asterrei". E quello stupido appuntamento e quella scopata superflua ti allontanano dalla traiettoria prevista, già decisa. Tutto quanto avevo in mente non vale piú, il mio futuro è sparito o è stato sostituito, forse dovrò rinunciare a Berta o a una vita normale con lei, piú o meno armoniosa e senza grandi segreti; oppure il segreto, invece che l'eccezione obbligata in ogni esistenza, sarà il fondamento e la regola e ci dominerà. Ho due possibilità davanti, e nessuna delle due è quella che vorrei, ma sono finiti i tempi in cui potevo scegliere quello che volevo. Un arresto e un processo dall'esito incerto, con una probabile condanna e anni di carcere se va male, oppure un compito inimmaginabile e torbido, di durata indefinita e per il quale non mi sento tagliato: farmi passare per quello che non sono e avere a che fare con individui sconosciuti e orrendi, di fatto con nemici dei quali dovrei farmi amico per poi tradirli, qualcosa di simile mi suggeriva Wheeler con la parola "infiltrato", proprio cosí, non l'ho sognato. "Saresti un magnifico infiltrato"; "Potresti passare per nativo in non pochi paesi del mondo", ha detto, e poi ha cercato di ammorbidire: "Non sarebbe per periodi troppo lunghi", "Niente di fuori del comune, niente di strano agli occhi della famiglia, della cerchia piú stretta. Sarebbe tutto normale, quando sarai in Spagna. E quando invece sarai fuori, no, non ti inganno: vivresti vite fittizie, vite che non sono la tua. Ma solo temporaneamente: prima o poi le lasceresti sempre per tornare quello che sei, il tuo vecchio io". Sí, era stato chiaro ed esplicito, e io ho cercato di dimenticarmene, è ben diversa una proposta fatta quando tutto va bene, una proposta che si può rifiutare, da una proposta che è quasi un'imposizione, fatta da questi due, Blakeston e Tupra o Montgomery e Reresby o dome si chiamano... Ma il carcere sarebbe ancora peggio, peggio di ogni altra cosa, e come se non bastasse la mia vita sarebbe rovinata anche una volta libero, a che età, poi, con quali prospettive, con quale voglia di vivere: chi mi vorrebbe ancora? Chi darebbe del lavoro a un condannato per omicidio, a un appestato? Berta si allontanerebbe da me e sposerebbe un altro e avrebbe dei figli da lui, non da me, potrebbe addirittura non volermi piú rivedere, non volerne piú sapere di me, non voler piú nemmeno sentire il mio nome, forse desidererebbe solo cancellarmi come ci si scrolla di dosso un incubo che ci opprime o un errore che ci riempie di vergogna. Se invece accetto per ora non la perderei, anche se questo significherebbe una convivenza confusa e oscura, di mezze verità nella migliore delle ipotesi, e di vastissime zone d'ombra; se rifiuto potrei uscirne assolto e libero da colpe, o perfino non arrivare al processo e continuare sulla mia strada come se quello stupido giorno non fosse mai esistito, in fin dei conti io non ho ammazzato Janet, io non ho ammazzato nessuno. Ma il rischio è troppo alto e chi lo sa, chi può saperlo, ho paura e la paura annebbia la vista e la ragione, la paura non è sopportabile e io voglio solo togliermela di dosso...»

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