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| << | < | > | >> |Indice9 Ringraziamenti 11 Introduzione 17 1. Antropologia molecolare 37 2. La scimmia che è in te 54 3. Come siamo diversi l'uno dall'altro 72 4. Il significato della variabilità umana 96 5. Genetica comportamentale 121 6. Ereditarietà folk 148 7. Natura umana 166 8. Diritti umani... per le scimmie? 182 9. Un museo dei geni umani? 200 10. Identità e origine 219 11. Il sangue è davvero così tremendamente denso? 239 12. Scienza, religione e visione del mondo 259 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 11C.P. Snow, che era scienziato e romanziere, spiegò in un celeberrimo saggio degli anni cinquanta del secolo scorso che le scienze naturali e quelle umane si stavano progressivamente allontanando. Le cuciture accademiche che le tenevano unite stavano cedendo, dando vita in questo modo a "due culture". Snow l'intendeva in senso prettamente antropologico, cioè due comunità che parlano due lingue differenti vedono il mondo secondo ottiche diverse, non si comprendono e si guardano con diffidenza. Ciascuna si ritiene superiore all'altra. Probabilmente questa spaccatura non è più sanabile. Con l'allargarsi delle frontiere della conoscenza, è già abbastanza arduo tenersi al passo con le ricerche nel proprio campo ridicolmente ristretto, figuriamoci quando si tratta anche di leggere romanzi o saggi filosofici o testi di fisica delle alte energie. Gli scienziati si lamentano della carenza di cultura scientifica nel più vasto pubblico, eppure hanno delegato ai divulgatori la responsabilità di educare la gente. Gli specialisti di scienze umane fanno un gran parlare di costruzione del sapere, e ciononostante gli scienziati affermano che stanno soltanto registrando quello che c'è "là fuori". Questo libro parla di un settore ibrido che potremmo chiamare "antropologia molecolare", e che in buona misura simboleggia le incertezze della scienza moderna. Da un lato, oggi la tecnologia ci consente di studiare alcuni aspetti della condizione umana con una finezza un tempo impensabile, donde l'aggettivo "molecolare". Dall'altro, gli scienziati hanno sfruttato di frequente questi dati per giustificare posizioni politiche discutibili oppure li hanno interpretati attraverso lenti culturali dai colori più svariati, spesso con un'ingenuità sconvolgente... e questo cade sotto la voce "antropologia". La sofisticazione tecnica e l'ingenuità intellettuale sono state le caratteristiche gemelle della genetica umana sin dai suoi primi passi come scienza all'inizio del XX secolo. La genetica fu praticata e propagandata negli anni venti sfruttando il sigillo di garanzia di scienza moderna per giustificare il razzismo e la xenofobia più sfacciati. Adesso i tempi sono cambiati, e con loro anche la tecnologia, tuttavia tante nostre idee culturali sono rimaste incredibilmente identiche attraverso le generazioni. Abbiamo una fede inscalfibile nel potere dell'ereditarietà di plasmare il destino di una persona, nella capacità della scienza moderna di approdare alle verità ultime sulla natura, nella nostra identità in quanto dote già codificata nel profondo, nella natura né buona né cattiva (ma soltanto autorevole) dei dati scientifici e nella loro capacità di parlare da soli. Ciascuna di queste affermazioni è vera solo fino a un certo punto. La genetica umana ha assoluto bisogno di una mediazione tra le sue basi scientifiche e umanistiche. E l'antropologia è sempre stata un campo di mediazioni. È noto che (negli anni venti del secolo scorso) essa significava la giustapposizione di esotico e prosaico: spiegava che il nostro modo di vedere e interpretare il mondo era solo uno dei tanti possibili e validi, ma dimostrava nel contempo che soltanto in superficie le tribù della Nuova Guinea si comportavano diversamente da come ci comportavamo noi. Nei decenni seguenti l'antropologia ha assunto il ruolo politico di mediatore fra le popolazioni aborigene (ovviamente classico oggetto di studio antropologico) e le potenze coloniali (quelle che di solito spedivano sul posto gli antropologi). Sul versante biologico, l'antropologia esalta la continuità dell'uomo con gli altri primati ma anche, di contro, l'unicità degli umani tra i primati. E in senso più generale media tra sapere accademico sul mondo ("scienza") e saggezza tradizionale o culturale ("cultura popolare", che potremmo anche chiamare "sapere folklorico"). Anche l'antropologia molecolare deve assumere per forza il ruolo cruciale di mediatore. La genetica propaganda un'analisi scientifica tipicamente moderna della condizione umana, e pertanto l'antropologia molecolare prende in esame sia le popolazioni umane nei loro rapporti reciproci sia la nostra specie rispetto alle altre. Però nello stesso tempo siamo costretti a chiederci quale significato e valore attribuire a questi studi. Per quanto riguarda la vita, il benessere e i diritti dell'uomo la genetica ha fornito da sempre qualche scusa a chi voleva rovinare la vita alla gente, una giustificazione per tenerla sottomessa o per chi voleva ingraziarsi i ricchi e i potenti cercando i capri espiatori nei poveri e in quanti non avevano voce in capitolo. Perciò oggi va tenuta d'occhio molto più di altre pratiche scientifiche, più bonarie e meno corruttibili. Questo libro, invece di limitarsi a promettere di analizzare oggettivamente, in maniera spassionata e gentile, la nostra costituzione fisica ereditaria (per essere inevitabilmente colto in fallo), parla di come può una scienza genetica dell'umanità affrontare i vari problemi. Alcuni di questi problemi sono politici, come il colonialismo e i diritti degli animali, altri si trovano entro i confini della tradizione folklorica come il razzismo e l'etnocentrismo, altri ancora riguardano semplicemente il modo in cui la scienza si presenta al pubblico. "Antropologia molecolare" è un termine paradossale coniato nel 1962 da un biochimico per indicare lo studio dell'evoluzione umana basato sulle differenze nella struttura delle biomolecole. Il paradosso sta nel fatto che, per quanto suoni come un ramo dell'antropologia, un suo ramo molecolare, è in realtà soltanto la biochimica applicata alle classiche tematiche antropologiche. E visto che questo nuovo settore aveva un'impostazione tecnocratica, chiunque poteva fare "antropologia molecolare" indipendentemente da quanta antropologia masticasse sul serio. Per quanto vi possa sembrare innocuo, provate a pensare al caso opposto. Dove andrebbe a finire una "biochimica antropologica" se non sapeste un'acca di biochimica? Con questo saggio voglio dimostrare che, allorché l'avveniristica tecnologia della genetica molecolare si è coniugata a un "sapere antropologico folklorico", i risultati sono stati sempre di valore tremendamente limitato. È successo per esempio negli anni venti del Novecento, quando i genetisti cercarono di riscrivere i nostri parametri sociali incolpando della miseria i geni dei poveri. Il crollo delle Borse e la Grande depressione si rivelarono una salutare doccia fredda per questi scienziati. Ed è andata così nei successivi anni sessanta, quando la genetica diventò molecolare e i suoi praticanti iniziarono a lanciare affermazioni apparentemente profonde, tipo "dal punto di vista dell'emoglobina, l'uomo è soltanto un gorilla anormale". A quanto pare, questo baldanzoso signore non immaginava che il punto di vista dell'emoglobina non fosse il massimo riguardo al problema in discussione: dalla cima dell'Empire State Building Chicago e Los Angeles sembrano sovrapposte all'orizzonte, mentre non è altrettanto vero dal Golden Gate. Ecco una classica domanda antropologica: qual è il punto di vista più elevato? Un modo antropologico di affrontare il problema sarebbe chiedersi cos'è che possiamo scorgere da un punto di vista mentre dagli altri rimane nascosto. In genere, si ritiene che il punto di vista della scienza sia superiore a tutti i concorrenti. Soprattutto lo pensano gli scienziati. Ma anche in questo caso sarebbe conveniente ammettere che può esserci più di un punto di vista scientifico, e che il significato di qualsiasi specifica presa di posizione scientifica potrebbe non essere lapalissiano. Così nel decennio scorso ci siamo sentiti dire di continuo che siamo diversi appena per un misero 1-2% dagli scimpanzé sotto l'aspetto genetico, e perciò... perciò cosa? Dovremmo concedere i diritti umani agli scimpanzé, come hanno suggerito alcuni attivisti? Dovremmo accettare come naturale la promiscuità e la violenza genocida che alligna sotto una patina di umanità e ogni tanto esce allo scoperto, come hanno proposto certi biologi? Oppure dovremmo andare in giro nudi e dormire sugli alberi, alla stregua degli scimpanzé? Naturalmente nessuna di queste proposte consegue per forza dalla somiglianza genetica tra umani e grandi scimmie, anche se le prime due sono state avanzate in anni recenti all'interno della comunità dei cattedratici e promosse su popolari mezzi di comunicazione. (Fortunatamente non è successo con la terza.) Però tutte sembrano derivare logicamente dalla somiglianza genetica. Il punto di vista antropologico o culturale ci permette di analizzare con occhio critico alcuni preconcetti che diamo spesso per scontati riguardo la genetica. Il primo tema affrontato da questo saggio è: che cosa significa la somiglianza genetica tra umani e grandi scimmie? Su che cosa si basa? Ha implicazioni profonde per la comprensione della nostra natura? Vedremo che l'universo delle somiglianze genetiche è piuttosto diverso dai nostri preconcetti sul significato delle somiglianze. Per esempio, la struttura stessa del DNA prevede differenze non superiori al 75% per quanto possano essere diverse le specie messe a confronto. Eppure il fatto che il nostro DNA sia simile a quello di un soffione per oltre il 25% non comporta che noi siamo soffioni per più di un quarto, ammesso che abbia senso parlarne. Vedremo una dimostrazione elementare dello scontro fra sapere folklorico e dati scientifici, e dello sfruttamento del primo da parte dei secondi. La misura in cui il nostro DNA somiglia a quello di una scimmia non prefigura in nulla e per nulla la nostra somiglianza generica con gli altri primati, men che meno le conseguenze morali o politiche che ne possono derivare. Poi proseguirò prendendo in esame le differenze genetiche all'interno della specie umana e il modo in cui si sono incrociate con i nostri tentativi di classificare la gente secondo razze. I genetisti hanno tentato di ricostruire la storia evolutiva della nostra specie con alterne fortune, trovando spesso quanto si aspettavano, identificando razze durante una generazione solo per negare la loro esistenza in quella successiva. Il punto di vista dell'antropologia molecolare, una scienza sociale dell'ereditarietà, getterà nuova luce sia sulla scienza sia sull'uso che ne facciamo. Forse il tema più spinoso della biologia moderna, riportato in auge dalle polemiche su un libro del 1994, The Bell Curve di Richard Herrnstein e Charles Murray, è la genetica comportamentale, un campo in cui i modelli della diversità comportamentale umana possono essere messi a confronto con i modelli noti di variabilità genetica, permettendoci così di analizzare in modo critico le politiche apparentemente derivate da basi scientifiche. Due progetti recenti cercano di giustificare la propria esistenza facendo ricorso alla genetica: il Great Ape Project, che propugna l'allargamento dei diritti umani alle grandi scimmie basandosi sulla nostra parentela genetica, e lo Human Genome Diversity Project, che propone la fondazione di un museo genetico dei popoli isolati e a rischio di estinzione in tutto il pianeta. Entrambe queste proposte possono essere meglio comprese unendo i relativi elementi scientifici e umanisti. Per concludere, prenderò in esame in maniera più generale come il sapere tecnico e culturale si intreccino nel classico conflitto tra scienza e religione, allargando così la visuale dallo studio umanistico dell'ereditarietà per arrivare a uno studio culturalmente aggiornato e socialmente attuale del ruolo della scienza. In fin dei conti, l'antropologia molecolare è solo questo: l'incrociarsi di corpi chimici, corpi umani e corpi di sapere, e il loro reciproco arricchimento. L'antropologia molecolare funge da mediatore fra la genetica riduzionista e l'antropologia olistica, tra il sapere formale e l'ideologia, tra i fatti naturali e quelli prodotti dalle autorità, tra quel che la scienza può fare e quel che dovrebbero fare gli scienziati, e soprattutto tra uomo e animale. Naturalmente sono tutti termini carichi di significati, e nessuno di essi può essere preso per oro colato. Ed è questo il bello. | << | < | > | >> |Pagina 17Li conosci. Li hai visti, forse allo zoo, forse al cinema o in televisione. Hai guardato bene i loro occhi scuri e profondi, hai scrutato il loro muso peloso e riconosciuto una mente dietro quello sguardo. Una mente forse infantile, ma simile alla tua. Hai visto le loro braccia robuste dalle lunghe dita afferrare qualcosa. Un ramoscello da usare come utensile? O forse una bambola di pezza? E sai anche da cosa deriva tanta somiglianza. Secondo la voce fuori campo quello scimpanzé è identico a noi geneticamente per oltre il 98%, una similitudine tale da rendere sfumata la linea che ci separa. Noi siamo scimpanzé, e loro sono noi. Adesso dagli una seconda occhiata. Quegli occhi profondi, senza la sclera, di cui gli scimpanzé sono privi, sembrano più gli occhi scuri di un cane che i tuoi, non trovi? E quelle braccia snelle e muscolose sono un po' troppo pelose, no? Non sono braccia umane, sembrano braccia umane. Persino uno scimpanzé non potrebbe mai passare per una persona, la testa è più piccina, i canini sono più sviluppati, non ha un naso o una fronte in senso stretto, le gambe sono corte, le orecchie enormi e fra l'altro usa le mani per camminare. Ha il pollice opponibile nei piedi e le ginocchia puntano in modo ridicolo verso l'esterno. Ascoltali. Non sentirai discorsi bensì una serie di grugniti e strida. Suoni con un significato, ma non umani. Non spettegolano, non pregano, non cantano, non elogiano né insultano. Non si agghindano il corpo e nemmeno lo coprono. La loro attività sessuale è stimolata dal turgore dei genitali femminili. In realtà gli scimpanzé non fanno nulla che tu possa riconoscere come umano. Del resto balza subito all'occhio quando lo fanno. Come se non bastasse, talvolta gli adulti uccidono e divorano i piccoli. Con questo non voglio negare che siano nostri stretti parenti. Nell'ampio arsenale della natura gli scimpanzé sono parecchio simili a noi. La nostra specie partorisce i piccoli e li accudisce, come gli scimpanzé e gli altri mammiferi e diversamente dalle salamandre e dai piccioni. Tra i mammiferi, la nostra specie ha il pollice prensile, le unghie dei piedi e solo un paio di capezzoli, anche in questo caso una combinazione simile a quella degli scimpanzé ma differente dalle mucche o dai cani o dai delfini. E tra i primati la nostra specie ha una spalla molto mobile ed è priva di coda, anche qui come gli scimpanzé ma diversamente dai gracili lori tanto carini e dai cercopitechi verdi africani. In effetti le grandi scimmie sono fisicamente simili a noi, sono i nostri parenti viventi più stretti, soprattutto quelle africane, il ben noto scimpanzé comune (Pan troglodytes), che vive nell'Africa centrale e occidentale, il bonobo (Pan paniscus), una specie molto simile e rara con un'inconfondibile faccia nera e la testa dai lunghi capelli scriminati nel mezzo, e il più grande gorilla (Gorilla gorilla), raro sui monti Virunga ma più presente nelle pianure dell'Africa occidentale. Nessuno di loro è molto diffuso in natura, sono tutti relegati in aree sparpagliate e spesso frammentarie in una sezione abbastanza ristretta del pianeta. Di contro, il loro cugino, l' Homo sapiens, è molto abbondante. Sin troppo, direbbero alcuni. | << | < | > | >> |Pagina 26La biologia sistematica (cioè il modo in cui organizziamo e suddividiamo formalmente la natura) è giunta a maturità grazie al botanico e medico svedese Carl Linnaeus. Già dai tempi di Aristotele, i biologi avevano classificato gli animali, ma Linneo riuscì a introdurre in questa procedura metodo e rigore.Il padre della classificazione scientifica era uno studioso di umili origini. Nato nel 1707, figlio di un parroco di campagna, Linneo dimostrò un tale bernoccolo per la botanica da farsi notare da un professore di una prestigiosa università svedese, quella di Uppsala. Arrivò all'ateneo povero in canna e fu costretto a risuolare le scarpe smesse dei compagni di classe per poterle indossare a sua volta, ma presto riuscì a sbarcare il lunario come istitutore, ottenendo la laurea in medicina in Olanda nel 1735, lo stesso anno in cui pubblicò la prima edizione del Systema naturae servendosi dell'anatomia sessuale delle piante come metodo di classificazione. Nei tre anni successivi pubblicò almeno otto volumi, poi tornò in Svezia per sposarsi. Linneo appese la targa a Stoccolma per avviare l'attività medica privata, ma la sua reputazione di erudito era tale che fu richiamato dalla facoltà di medicina di Uppsala nel 1741. Nel giro di un anno passò a occuparsi di botanica. Questo insegnante carismatico e prodigioso scrittore supervisionò oltre 180 tesi durante la propria carriera accademica ed ebbe un ruolo attivo anche nella loro stesura. I suoi studenti e colleghi gli inviavano da tutto il mondo campioni di piante, che Linneo inseriva nel proprio sistema. In quegli anni si diceva che Dio creava ma Linneo metteva al suo posto. Per Linneo, e in consonanza con il nuovo pensiero scientifico del Settecento, la natura poteva essere descritta secondo formule semplici. Quello che Newton era riuscito a ottenere riguardo al moto con la matematica, Linneo poteva farlo con le specie grazie all'anatomia. Non era un personaggio vulcanico come il leggendario Newton, essendo piuttosto un tipo permaloso, insicuro e ossessionato dal proprio lascito nella storia, ma era comunque noto come persona da prendere con le molle. Il Systema naturae di Linneo, una guida autorevole alla classificazione di piante, animali e minerali come decisa da Dio e interpretata dall'autore, conobbe dodici edizioni, ed è dalla decima (1758) che data ufficialmente la moderna classificazione biologica. Alla fine lo scienziato svedese fu fatto nobile con retroattività al 1757 sotto il nome di Carl von Linné, e morì nel 1778. Quale senso ricavava Linneo dal rapporto tra uomo e scimmia? Il padre della classificazione zoologica rimase talmente interdetto da limitarsi a suddividere le segnalazioni riguardo a questi esseri in due insiemi, le scimmie più antropomorfe e quelle meno antropomorfe, etichettando la specie relativa alle prime quale seconda specie di umani, Homo troglodytes (che chiamò anche Homo nocturnus, cioè notturno, abitatore delle caverne) mentre incasellò la seconda in un altro genere di primati, Simia satyrus. Non soltanto le scimmie erano paradossalmente molto simili e molto dissimili da noi nello stesso tempo, ma adesso erano nel contempo umane e non-umane anche dal punto di vista formale. Le generazioni successive di biologi corressero immediatamente l'errore di Linneo. Già nel 1771 uno zoologo inglese, Thomas Pennant, parlò di un "Homo nocturnus di Linneo, un animale [...] inutilmente distinto dalla Simia satyrus". Nel 1775, il biologo tedesco Johann Friedrich Blumenbach rilevò che Linneo aveva commesso un "grave errore" nel suo Systema naturae, dal momento "che in esso gli attributi delle scimmie sono mescolati a quelli dell'uomo". A partire dalla metà del XVIII secolo, i biologi hanno cercato di sottolineare uno dei due lati del paradosso. Di conseguenza oggi seguiamo Linneo classificando gli umani come "soltanto" un'altra specie di primati, nello specifico "soltanto" una specie fra le tante creature scimmioidi. La versione ufficiale segue la monografia del 1945 sulla classificazione dei mammiferi del paleontologo George Gaylord Simpson e ci colloca nella superfamiglia degli Hominoidea assieme alle piccole scimmie (gibboni) e alle grandi scimmie (scimpanzé, gorilla e oranghi). Le particolari affinità strutturali che ci accomunano a queste creature più che agli altri primati in genere sono i denti (dal momento che quasi tutti i reperti fossili dei vertebrati sono denti, si tratta di un fondamentale aspetto diagnostico), la mancanza di coda, la posizione e capacità di movimento della spalla e la struttura del tronco. | << | < | > | >> |Pagina 3499,44% di puro umanoQuesto specifico numero legato a un sapone è interessante. In un recente saggio sulle grandi scimmie questa particolare somiglianza tra uomo e scimpanzé viene invocata da parecchi autori diversi. A pagina 12 apprendiamo che "il nostro DNA differisce dal loro soltanto poco più dell'1%", a pagina 39 siamo a "meno del1'1%", a pagina 95 apprendiamo che la differenza è "dell'1,6%", e alla 220 ci informano che i due "condividono oltre il 98% dei geni". Che la vera cifra sia meno dell'l % oppure il 2% è ovviamente irrilevante nel grande schema delle cose. I nostri geni sono molto, molto simili. Ma chissà perché, "molto, molto simili" non suona abbastanza scientifico. Invece citare un numero con i decimali suona scientifico eccome, suggerisce che ci sia un grado di somiglianza calcolato con tutti i crismi, sanzionato dalla scienza, tra acidi nucleici di uomo e di scimpanzé, mentre in realtà abbiamo soltanto una messe di studi dalle misurazioni approssimative, per quanto in genere concordanti. Il problema è che, mentre ci sentiamo elencare questi dati senza un contesto in cui interpretarli, alla fine rimaniamo con i nostri meccanismi culturali. In questo caso di solito ci si aspetta che ne deduciamo che i raffronti genetici rispecchino una struttura biologica soggiacente, e che il 98% sia una quantità incredibile di somiglianza. Quindi, "il DNA di un umano è identico al 98% a quello di uno scimpanzé" viene disinvoltamente interpretato come "nell'intimo gli umani sono scimpanzé in maniera clamorosa. Scimpanzé al 98%". Il quesito importante acquattato dietro questa banale discordanza è: cos'è che rende fondata un'affermazione scientifica sulla somiglianza genetica? Le stime della differenza genetica tra umani e scimpanzé pubblicate in quel libro sono minuziose ma non esatte. In parole povere, hanno la virgola fra i numeri e sono dettagliate fino ai decimali, ma i numeri che leggete sono sbagliati, non occorre essere Aristotele per capire che non possono essere nello stesso tempo 1,6% e meno dell'1%. Il fatto di essere una o entrambe inesatte non sembra renderle meno scientifiche. In questo caso il sigillo di garanzia della scienza è conferito sia dal DNA sia dai decimali. Ormai l'acido nucleico è diventato materiale di brutte trame per film che escono direttamente in videocassetta e per la dolciastra colonia prodotta da Bijan di Beverly Hills che viene fornita in flacone elicoidale. (Il fatto che la bottiglia elicoidale sia composta da tre filamenti invece che da due è valso nel 1996 al suo produttore il premio IgNobel per la chimica, consegnato ad Harvard dalla rivista "Annals of Improbabile Research". La cerimonia di consegna dei premi, parodistica e fracassona, è diventata un cult nella comunità accademica.) E l'aggiunta dei decimali è sicuramente quello cui pensava Mark Twain quando suddivideva la statistica in bugie e bugie smaccate. Più volte i genetisti sono piombati a capofitto in questa trappola della minuziosità al posto dell'esattezza. Per esempio, negli anni venti non si sapeva quanti cromosomi avesse un essere umano in ogni cellula. Quasi tutte le stime ventilavano dai venti ai trenta (scienziati americani), alcune arrivavano a più di quaranta (scienziati europei), e altri genetisti colmavano questa discrepanza sostenendo che, visto che gli americani studiavano i cromosomi dei neri e gli europei stavano studiando quelli dei bianchi, forse i bianchi avevano più cromosomi dei neri. Comunque, nel 1927 il principale citologo del periodo si sbilanciò definitivamente sul numero dei cromosomi umani, quarantotto. Questa stima di quarantotto entrò nei libri di testo e rimase il numero ufficiale dei cromosomi umani per tre decenni. In realtà la conta fu ripetuta parecchie volte. Era così che questi scienziati sapevano di avere condotto un esperimento esatto, allorché identificavano tutti e quarantotto i cromosomi umani. In realtà questi ricercatori stavano cercando di contare i fili in un piatto di spaghetti, compito improbo nel migliore dei casi. La verità, la deduzione esatta, è sempre stata che gli uomini avevano un gran numero di cromosomi, probabilmente quasi cinquanta. Però non ce lo dicevano in questa maniera. Grazie allo sviluppo di nuove tecniche nella biologia cellulare si è poi scoperto nel 1956 che l'uomo ha solo 46 cromosomi. Ops! Gli scienziati accettavano un conteggio minuzioso a scapito del conteggio reale. Perciò la trentennale affermazione scientifica era precisa, autorevole e... sbagliata. Eppure i genetisti non facevano altro che contare. Funziona così anche con l'identità genetica al 99,44% con gli scimpanzé. Non sappiamo con esattezza quanto siano simili i DNA di uomo e scimpanzé, ma soltanto che sono molto simili quanto i loro fisici. La genetica rivendica questa scoperta come un proprio trionfo dato che può appiccicarci un numero, ma si tratta di un numero piuttosto inaffidabile. E quale che sia il numero, non dovrebbe essere più impressionante della somiglianza anatomica. Basta inserire questo antiquato confronto in una cornice zoologica. Non è affatto paradossale che siamo così simili dal punto di vista genetico allo scimpanzé; piuttosto il paradosso è come mai oggi troviamo la somiglianza genetica tanto più sconvolgente della somiglianza anatomica. Gli eruditi settecenteschi erano turbati dalle similitudini tra umani e scimpanzé. Gli scimpanzé erano allora una novità quanto lo è oggi il DNA, e il contrasto apparente fra i nostri corpi e i nostri geni è soltanto un sottoprodotto della bisecolare familiarità con le scimmie e dei due decenni scarsi di familiarità con le sequenze genetiche. | << | < | > | >> |Pagina 239La scienza è un sistema cognitivo, un modo per riflettere sulle cose. Ovviamente ci sono tanti modi per riflettere sulle cose. Gli scienziati sono tra gli ultimi grandi etnocentrici del mondo moderno. E perché non dovrebbero esserlo? Hanno un sistema che funziona, che produce tecnologia. Perché mai dovrebbero dimostrarsi umili? Come sostiene Richard Dawkins, principale portavoce della scienza: "La prova del nove è: quando vai al tuo convegno internazionale di antropologi culturali viaggi su un tappeto magico o su un Boeing 747?". Il grande paradosso della scienza moderna è che gli scienziati non sono preparati a riflettere sulla scienza, sono addestrati a farla, a portarla avanti. Sono addestrati a usare le macchine con tante lucette lampeggianti di tutti i colori, spesso in maniera creativa, per raccogliere dati, ma non a riflettere sul luogo da cui proviene la conoscenza o sul rapporto tra scienza e tecnologia o tra modi di pensiero scientifici e non, o persino sulla crescita e sviluppo del loro stesso settore scientifico. Tutto ciò cade nel regno delle scienze umane. Di solito ci si aspetta che uno scienziato le assorba per osmosi, in modo informale, passivo. Sappiamo tutti quanti degli incessanti exploit in corso nella scienza e nella tecnologia, ma sentiamo parlare di rado della rivoluzione più silenziosa che è in corso nelle scienze umane per quanto riguarda le scienze naturali. Certe volte gli scienziati si sentono vagamente minacciati sapendo che c'è qualcuno là fuori che li studia e riflette su di loro, neanche fossero gli yanomamo del bacino amazzonico o i !kung san del Botswana. Però oggi la scienza deve rispondere a grandi interrogativi, che originano da un paradosso al centro della sua incarnazione moderna. Da un lato, si ritiene comunemente che la scienza avanzi tramite un meccanismo di "congettura e confutazione", per usare i termini del filosofo Karl Popper, o, in modo più eufonico, di proposal and disposal, proposta e scarto, come sostiene l'immunologo Peter Medawar. In parole povere, la scienza avanza scartando le ipotesi sbagliate e conservando quelle, relativamente poche, che funzionano. D'altro canto, la scienza pretende di essere il regno dei fatti, della nostra conoscenza positiva del mondo naturale. Ma come facciamo a conciliare la scienza come confutazione o scarto, che implica un bel po' di controfattualità all'interno del proprio territorio, con la scienza-come-fatto, che implica una pretesa di autorevolezza? È chiaro che qui non si parla soltanto di "scoperta" dei fatti. Esiste un processo tramite il quale una piccola classe di idee diventa fatto. In parte questo processo si basa su ontologie, su realtà di natura, ma è anche fortemente radicato in una matrice sociale di ricerche, pubblicazioni, potere, credibilità, relazioni, strategie, organizzazione e propaganda, la quale permette che certi fatti siano riconosciuti come tali e altri no. Quindi oggi una delle aree culturali più scottanti, alcuni direbbero ustionanti, è l'antropologia della scienza, lo studio etnografico di come si creano i fatti attraverso un negoziato fra la natura e la rete socioculturale della scienza. E c'è un corollario importante a queste ricerche. Se i fatti sono creati invece di essere semplicemente scoperti, allora come facciamo a sapere quali sono i fatti in un certo momento? Ovviamente i fatti sono quelli che i signori in camice bianco affermano essere tali. Ma alcuni di loro si sbagliano. E non sappiamo quali. Questa situazione rende assai interessante lo studio della scienza, ma è anche carica di minacce perché mina la pretesa della scienza all'autorevolezza in base alla fattualità. Nel loro libro Imposture intellettuali (1998), i fisici Alan Sokal e Jean Bricmont se la prendono con Bruno Latour, influente etnografo francese della scienza, perché non sarebbe in grado di distinguere un fatto dalla sua mera asserzione. Il primo si presume che sia "là fuori", la realtà che la scienza studia, e la seconda è quanto insegnano gli scienziati, ciò che può essere vero o sbagliato riguardo l'universo. Purtroppo Sokal e Bricmont non riescono a rispondere a una domanda cruciale: come si fa a distinguerli? Come facciamo a distinguere in pratica fra cosa c'è "davvero" e cosa gli esperti sostengono esserci, che sia il numero dei cromosomi in una cellula umana, il moto del sistema solare o la natura delle particelle subatomiche? | << | < | > | >> |Pagina 244Relativismo e scienzaAllora torniamo al 747 e al tappeto volante di Richard Dawkins. C'è davvero qualcuno che pensa di poter andare a un convegno a bordo di un tappeto volante? Il 747 funziona, è reale, ti porta dove devi andare. Però capovolgiamo il problema. Il fatto che un 747 funzioni significa che la visione scientifica del mondo è superiore alle altre? Un 747 non è la scienza, nemmeno in nuce. È tecnologia, un prodotto della scienza. E come hanno ricordato gli antropologi dopo Franz Boas, la tecnologia significa invariabilmente una serie di dare e avere. Con le meraviglie del 747 vengono le meraviglie del bagaglio smarrito, dei sedili stretti, dell'impossibilità di sfuggire agli estranei molesti del posto accanto e la paura delle bombe a bordo. Certo, gli yanomamo non scrivono libri su personal con processori Pentium, però secondo lo stesso metro non devono preoccuparsi della sindrome da tunnel carpale, dei sistemi in bomba, del virus Michelangelo o di una serie di ulteriori angosce che accompagnano la tecnologia. Gli svantaggi del nostro mondo di televisori e armi nucleari non hanno bisogno di essere elencati, anche se i vantaggi sono evidenti. Alla resa dei conti, la tecnologia fa parte di un sistema culturale che, cambiando, cambia anche altri elementi. E non è mai chiaro se il risultato sia il miglioramento o il regresso. Generazioni di filosofi sociali hanno sostenuto entrambe le posizioni, per esempio Francis Bacon che decantava la società tecnologica nel Seicento e Jean-Jacques Rousseau che la dileggiava nel Settecento. Comunque, alla resa dei conti, che la tecnologia sia buona o cattiva, ormai non possiamo liberarcene. Il che ci riporta al contrasto fra un 747 e un tappeto volante. Il primo è un pezzo di tecnologia, il secondo un pezzo di mitologia. Possiamo confrontare le tecnologie e decidere la superiorità di una sull'altra (anche se non è chiaro se nel complesso la vita ne sia migliorata o peggiorata). Possiamo raffrontare le mitologie, anche se non esiste una scala secondo la quale decidere se una è superiore all'altra. Però confrontare tecnologia e mitologia è ridicolo, se non perverso. In apparenza il nostro biologo credeva di confutare il relativismo culturale, un principio nato all'inizio del Novecento sulla scia dello sfruttamento, delle distruzioni e dei genocidi che accompagnarono il colonialismo. Spesso questo principio è stato giustificato basandosi sul fatto che la società euroamericana era progredita lungo un continuum culturale o tecnologico e quindi era migliore delle culture e dei popoli che gli euroamericani stavano sterminando. Era una razionalizzazione comoda, ma si è poi scoperto che era difficile da dimostrare man mano che gli etnografi documentavano la ricchezza dei saperi locali sull'ambiente, le complessità dei diversi linguaggi e la ricchezza degli stili di vita non occidentali. Il relativismo culturale è diventato un principio intellettuale che governava il raffronto dei sistemi culturali, i quali erano diversi tra loro ma potevano essere classificati più o meno allo stesso livello. Ogni tanto si confonde il relativismo culturale con la "prima direttiva" di Star Trek che impone il non intervento, ma l'isolazionismo non ha mai fatto parte della sua dottrina. Anzi, al contrario, i suoi esponenti più accesi erano militanti antinazisti. Inoltre, il relativismo culturale viene ogni tanto confuso con una filosofia nichilista di relativismo morale in cui "tutto va bene". Ma questo è l'esatto opposto del relativismo culturale, che riconosce che tutti viviamo entro un sistema culturale che distingue giusto e sbagliato, e anche se queste distinzioni possono variare nelle diverse società siamo obbligati a vivere entro l'insieme locale di norme se non vogliamo rischiare sanzioni. La scienza fa parte del nostro sistema culturale. È un modo di vedere il mondo e di scoprire nuove cose su esso. Per parafrasare di nuovo Peter Medawar, la scienza è un mezzo con cui analizziamo le tante cose che potrebbero essere vere sull'universo e le riduciamo alle relativamente poche che sono probabilmente vere. In questo modo conquistiamo un sapere positivo che poi applichiamo per generare nuove tecnologie e ulteriore dominio sulla natura. Il concetto di "dominio sulla natura" è esso stesso connotato culturalmente. E senza dubbio intrecciato ai presupposti della gerarchia sociale e, come ha dimostrato Mary Midgley, alle immagini della violenza sessuale: la scienza come maschio, la natura come femmina. Ma perché crediamo di aver bisogno di dominare la natura? Perché abbiamo bisogno di sapere esattamente come funzionano le cose? Noi diamo per scontati questi assunti perché abbiamo ereditato una visione culturale che assume come fine ultimo il sapere positivo sulla natura, il razionalismo come guida nella vita e la tecnologia come modo di esistere. È sicuramente una visione valida. Ma è l'unica accettabile? È per forza la migliore? | << | < | > | >> |Pagina 251Scienza e mitoC'è un'altra differenza importante tra le idee su cui sono basati gli aerei progettati scientificamente e l'idea dei tappeti volanti, ed è il loro scopo. La scienza è formata da una serie di storie esplicative sull'universo. Come tutte le storie, quelle esplicative entrano in relazione attraverso il medium del linguaggio, usando metafore per comunicare significati: il gene egoista, il Big Bang, il codice genetico. Non possono essere vere alla lettera: i geni sono inanimati e non possono essere più egoisti di quanto possano essere leali, feroci o devoti; non può esserci stato alcun bang senza l'atmosfera per trasmettere i rumori, e in assenza di materia non poteva esserci atmosfera; e il "codice" genetico è una metafora inventata nel 1944 dal fisico Erwin Schrödinger prima ancora che fosse inventata la genetica molecolare. Quindi secondo l'uso antropologico, deprivato delle connotazioni peggiorative del senso comune del termine, la scienza è costituita da miti, storie linguistiche che pretendono di spiegare le cose. Ogni cultura ha i suoi. Ma quelli della scienza sono un po' diversi. Le storie scientifiche hanno un solo scopo: riferire il fenomeno in questione il più accuratamente possibile (dati i limiti di sapere e linguaggio). Se l'accuratezza è la scala in base alla quale raffrontare i miti, di sicuro i miti scientifici vincono. Però è una partita truccata, ovviamente, visto che usiamo i criteri della scienza per valutare le sue alternative. Il semplice fatto che la scienza sia ignorata o rigettata da un numero significativo di persone altrimenti moderne indica che ci sono altri criteri che contano per loro, anche se la scienza non li contempla. Pensate per esempio ad alcune delle tante domande cui non risponde il mito scientifico dell'evoluzione umana. Per esempio, affermare il valore o l'importanza del singolo, vivere secondo i codici della morale o gli standard di condotta, suscitare forti legami emotivi di solidarietà con una comunità o semplicemente come passare bene la giornata. Di certo qui non si vuole difendere il creazionismo con cui i cristiani fondamentalisti cercano di sovvertire l'educazione scientifica in America. Però voglio solo suggerire che il rifiuto della scienza da parte dei cittadini comuni è un riflesso degli errori degli scienziati, non degli errori dei cittadini. Presentare il creazionismo come una scienza è un'affermazione semplicemente fraudolenta, però è essenziale notare che la scienza fornisce un insieme ristretto di risposte a un insieme vastissimo di domande che si pone la gente in tutte le culture, e che può essere facilmente ritenuta inadeguata se guardiamo oltre l'unico criterio della validità empirica. L'evoluzionismo fornisce la spiegazione empiricamente più valida che abbiamo per l'attuale esistenza della vita. Punto e basta. Ma perché dovrebbe contare più di tanto se discendiamo da primati pelosi e arboricoli? Comunque vada siamo sempre umani, e impegnati nella costruzione di una società giusta e civile. E dobbiamo ancora guadagnarci da vivere, portare il pane in tavola, sopportare ingiustizie e sofferenze e trovare un significato alla nostra vita. Il motivo per cui conta per tanta gente è che gli scienziati hanno fatto sì che contasse, e l'hanno fatto nella peggiore maniera possibile. Hanno preso una proposizione che non conta poi granché e ha effetti marginali sulla vita, sugli interessi e sui timori della gente comune ("Discendiamo dalle scimmie") stiracchiandola in una serie di proposizioni aggiuntive, spesso autoritarie quanto odiose. Trent'anni fa, in un fortunato testo filosofico-scientifico intitolato Il caso e la necessità, il biologo molecolare francese Jacques Monod sosteneva che l'evoluzione dimostra la mancanza di significato della vita. Anche se potremmo snobbare facilmente questo messaggio come "Sartre fra le provette", esso manteneva l'autorevolezza della scienza perché l'aveva scritto uno scienziato eminente. Questa affermazione è vera? Forse, ma non abbiamo modo di saperlo. Non esiste una classe di dati da raccogliere che spieghi se la vita significa qualcosa o no. Questa non è una proposizione scientifica. Inoltre è sgradevole. Detto senza mezzi termini, ci interessa di più sapere se la nostra vita significhi qualcosa che non sapere se discende dalle scimmie. Se ci raccontano che la scienza dimostra che la vita non ha significato e che veniamo dalle scimmie, non è difficile prevedere che molti di noi rifiuteranno entrambe le affermazioni. In effetti è sciocco pensare altrimenti. | << | < | > | >> |Pagina 254L'etnocentrismo e il futuro della scienzaLa scienza aggredisce le mitologie complesse e integrate con un surrogato monodimensionale, che è semplicemente più preciso riguardo le cose concrete, meccaniche. Perciò la scienza si impone una singola meta, la precisione empirica, e tenta instancabile di soppiantare altri sistemi di fede, lasciandosi alle spalle un vuoto intellettuale sotto tanti altri aspetti. Insomma, la scienza fa la ciambella con il buco ma spesso lascia i commensali annoiati e con uno squilibrio nutrizionale. Costringere i non scienziati a pensare da scienziati, o almeno come quelli più cinici tra loro, viaggia con un pesante bagaglio ideologico. Può valere la pena riflettere sulle implicazioni del negare alla gente i vantaggi forniti dai miti non scientifici dell'origine. Soltanto di recente e in modo marginale la scienza ha cominciato a riflettere sulle sue responsabilità, e nella nostra cultura è pesante la responsabilità insita nell'annunciare autorevolmente che l'uomo non è importante nell'ordine dell'universo. E può valere la pena riflettere - problema di etica scientifica - se in un mondo insicuro la scienza non rischi di fare più male che bene sabotando fattivamente la nostra idea di quanto valiamo in un cosmo benevolo. Forse, piuttosto che propagandare aggressivamente l'autorevolezza della scienza contro tutto il resto che viene creduto dal popolo ignorante, una strategia umanistica e antropologica del fare scienza, come insieme di idee sull'universo che nasce da un particolare sviluppo storico e serve a una determinata funzione, potrebbe rilevarsi una maniera più efficace di veicolare i suoi messaggi cruciali. Insegnare come gli scienziati riflettono sulla scienza è radicalmente diverso dal costringere la gente a pensare come gli scienziati (o come si ritiene che pensino). Quindi è giusto che gli scienziati dicano ai cittadini americani e del mondo: "Voi vi sbagliate e noi abbiamo ragione"? Questa è una posizione ideologica assunta sempre dalle società potenti quando affrontano le credenze delle società meno potenti. È la forma più rozza di etnocentrismo. L'etnocentrismo è sbagliato? Di sicuro è una maniera poco efficace per indurre gli altri ad amarti o a rispettarti. È invece una maniera efficace per spingere gli altri a temerti o odiarti. Se la scienza adotta questo atteggiamento, non è molto difficile prevedere la reazione più probabile. Un'alternativa ragionevole alla faccia etnocentrica della scienza è proporla entro una cornice antropologica. In parole povere, proporre la scienza non tanto come l'unica risposta vera contro le tante false (un familiare tono da crociata) ma come una risposta fabbricata entro una data cornice culturale, e che soddisfa bene certi criteri (soprattutto la validità empirica) ma poco altri criteri significativi. Le idee umanistiche si incrociano con quelle scientifiche a quasi ogni passo dello studio dell'umanità. Non possiamo sfuggir loro, ed è falso suggerire che nell'era moderna possiamo tranquillamente ignorarle, quando i problemi sociali e politici formano il grosso dei problemi irrisolti nella vita contemporanea. Oggi riconosciamo che lo studio della biologia umana comporta responsabilità relative all'autorevolezza di quando si parla in veste di scienziato. La scienza ha giustificato il razzismo, ma non dovrebbe. La scienza ha giustificato il colonialismo, ma non dovrebbe. La scienza può rovinare la vita alla gente, ma non dovrebbe. Decenni or sono, José Ortega y Gasset criticò senza mezzi termini la specializzazione estrema degli scienziati moderni, una nuova classe di "somari acculturati [...] ignoranti non come l'uomo ignorante classico ma con tutta la petulanza di chi è acculturato nel suo specifico settore". In fondo, l'antintellettualismo arriva sotto tante fogge e mette in pericolo non solo la scienza ma tutta la comunità degli studiosi. Pensate per esempio all' equivoco del creazionismo come scienza (esterno alla scienza) e all'equivoco della genetica come panacea sociale (interno alla scienza). Il creazionismo è subdolo perché facendosi passare come scienza favorisce l'ignoranza. Però il neoereditarianismo, che viene equivocato anch'esso come buona scienza, è altrettanto insidioso. Una minaccia è più grave dell'altra? Da quel che mi risulta, nessuno è mai stato ucciso o sterilizzato in nome del creazionismo. Basandosi sul fatto che l'ignoranza è felicità mentre la morte forse non lo è, potremmo quindi essere perlomeno scettici sui giudizi degli scienziati quanto su quelli degli antiscienziati, almeno laddove entrano in ballo la vita e il benessere della gente. Infatti, fino a quando la moderna etica sociale non diventerà una materia obbligatoria per gli studenti di scienza, faremmo bene a dimostrarci ancor più scettici sui commenti sociali degli scienziati che non su quelli degli altri cittadini. Come ha ricordato un commentatore: "Senza un riferimento all'interazione tra scienza e società, [l'educazione scientifica] tenderà a produrre ingenuità, xenofobia e arroganza intellettuale". A causa dei progressi fatti dalla scienza, è oggi possibile che opinioni misere, poco etiche o pseudoscientifiche influenzino la vita della gente in maniera ancor più catastrofica di prima. Pertanto, le scienze naturali hanno bisogno più che mai delle scienze umane. Se il Novecento è stato il secolo della scienza moderna, il Duemila sarà quello della moderna responsabilità scientifica. La scienza dovrà essere separata dal colonialismo e dall'etnocentrismo dell'era moderna, e ciò a sua volta implicherà un approccio abbastanza diverso alla preparazione degli scienziati. L'efficacia del contributo della scienza a risolvere i problemi di salute e benessere in una comunità globale può dipendere da quanto saremo effettivamente capaci di riuscire in questo compito. Come mediatrice fra corpi di sapere diversi e incompatibili, l'antropologia può recitare una parte importante nel rapporto tra scienza e società moderna. Nella misura in cui la genetica rappresenta la scienza molecolare dell'ereditarietà, l'"antropologia molecolare" - protagonista di questo libro - dovrebbe essere un'istanza fondamentale per comprendere la natura ambigua del rapporto tra scienza e società. La scienza è vista sia come autorità (simboleggiata dal benevolo professor Einstein) che come asocialità (simboleggiata dal pazzo dottor Frankenstein). La ragione di questo non sta soltanto nell'incapacità a capire delle masse (cui la scienza ama dare la colpa) ma anche in quella degli scienziati, la cui preparazione non comprende un piano di studi sugli aspetti umanistici e sociali di quel che fanno. | << | < | > | >> |Pagina 258"Lo scientismo è la religione laica di oggi, ed è arrivato quel che temevo da tempo: la crescita del sapere non accompagnata dalla crescita della comprensione" ha scritto preveggente Ashley Montagu quasi mezzo secolo fa al suo amico Theodosius Dobzhansky, che comprendeva bene il valore dell'antropologia per la genetica.Insomma, il posto della specie umana nell'ordine naturale dipende dal posto degli scimpanzé, ed è di conseguenza un luogo contestato al confine tra animalità e divinità, tra bestia e angelo. Quando la genetica fornisce informazioni su questo problema, lo fa nel contesto sia dello studio scientifico dell'ereditarietà sia dello studio dei sistemi simbolici umani. Non può essere separata né dai suoi contesti intellettuali, dalle implicazioni sociali e filosofiche, né dalle responsabilità degli scienziati. E come se non bastasse, fornisce all'antropologia una patente per accedere agli studi molecolari al fine di creare un'area di ricerca veramente interdisciplinare.
L'antropologia molecolare dimostra in piccolo come possiamo
integrare la scienza nella nostra cultura contemporanea e riconoscerle un ruolo
importante senza per questo svalutare altri sottosistemi culturali e altre forme
di sapere. Le altre forme di sapere sono importanti per la corretta
interpretazione dei dati scientifici quanto lo è la scienza per la "vita
moderna". Quindi il sapere umanistico è cruciale per gli scienziati almeno
quanto lo è il sapere scientifico per le masse. Alla resa dei conti, questo
campo ibrido ci permette di unire "le due culture" e regalare una base più ampia
e più efficace alla comprensione delle basi molecolari della vita umana.
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