|
|
| << | < | > | >> |IndiceNota dell'autore xi Cartine geografiche xii Prologo 1 Parte prima 15 Parte seconda 173 Epilogo 271 Bibliografia 281 Ringraziamenti 285 |
| << | < | > | >> |Pagina XIQuesto libro ha richiesto oltre sette viaggi in Birmania, in un arco di tempo di quasi cinque anni. In quel periodo sono stato fotografato, filmato, ostacolato, inseguito e chiamato «traditore» dagli agenti della Direzione dei Servizi Segreti della Difesa. Bene, signori, avevate ragione: ero uno scrittore camuffato da turista. Ecco il risultato, spero sia di vostro gradimento. Qualche osservazione sui nomi. I birmani non usano i cognomi. I loro nomi consistono di due o tre parti, ciascuna con un proprio significato: per esempio «Khin Nyunt» — l'odiato capo dei Servizi Segreti birmani — significa «Fiore Propizio». Tali nomi sono di norma indivisibili; non si scrive mai «tenente generale Khin» o «tenente generale Nyunt». Ho usato il sistema Pinyin per trascrivere i termini cinesi in caratteri latini. Il lavoro di classificazione della miriade di gruppi etnici presenti in Birmania ha sconcertato i forestieri sin dai tempi coloniali. Alcune minoranze rispondono a una manciata di nomi, secondo quale minoranza si rivolga loro. Salvo poche eccezioni, ho cercato di chiamare le popolazioni con i nomi che loro stesse usano. In anni recenti il regime militare birmano ha modificato i nomi di molte città, nel quadro di iena campagna cinica e impopolare contro le minoranze del Paese. Gli indigeni continuano a usare i nomi originali, e io seguo il loro esempio. Per ragioni analoghe, uso il termine «Birmania», e non «Myanmar». Le identità di alcuni personaggi di questo libro sono state cambiate al fine di proteggerli. | << | < | > | >> |Pagina 74Più tardi quella sera incontrai Hseng e ci sbronzammo con un corposo vino di prugne, una specialità locale. Mentre tornavamo all'hotel ci fermammo a mangiare qualche porzione di code di maiale alla griglia (la risposta birmana al kebab di mezzanotte, suppongo, solo più croccante): il mattino dopo non mi reggevo in piedi per la nausea e, aspettando l'arrivo del treno sulla banchina della stazione, mi sembrava di avere lo stomaco pieno di pietre. Hseng, che aveva il suo orgoglio shan da difendere, era seduto in una vicina sala da tè e divorava virilmente dolcetti di riso intingendoli nel latte condensato, per dimostrare quanto si sentisse in forma. Qualcuno percosse un frammento di rotaia vicino alla mia testa dolorante, e il treno emerse da una cortina di fumo. Le donne anziane che erano rannicchiate sulla piattaforma macchiata di betel si sistemarono le ceste di pomodori e cipolle sul capo e si spinsero per salire. Una volta riposti al sicuro i canestri, si tolsero i turbanti sui quali avevano appoggiato il peso, li riavvolsero morbidamente attorno al collo e si raggomitolarono di nuovo, fumando cheroots con aria meditativa. I portabagagli erano pieni di mazzi di fiori bianchi e viola, altro prodotto tipico di Maymyo, e il loro profumo delicato riempì lo scompartimento, almeno finché i bagni non si intasarono. Il treno diede un tremito animalesco, poi si mosse. Mentre acquistavamo velocità, l'uomo seduto accanto a me fece penzolare la sua scimmietta fuori del finestrino finché il povero animale non strillò di terrore. All'esterno si srotolò una mattina monocroma, con pini che sembravano incisi all'acquaforte. In alto, sulla fiancata di una collina, riuscivo a scorgere un grosso capannone di lamiera che conteneva — chi l'avrebbe mai detto? — una delle più riverite statue di Buddha di tutta la Birmania. L'enorme statua stava viaggiando verso la Cina sul retro di un camion quando, appena passata Maymyo, il camion aveva sbandato e la statua era caduta sull'asfalto. Piuttosto che dare la colpa dell'accaduto alla pessima guida, l'incidente era stato interpretato come un messaggio divino: il Buddha amava così tanto la Birmania che non voleva essere portato in Cina. C'erano volute una gru e una squadra di monaci per persuadere la statua a rimettersi in posizione verticale e per spostarla in un capannone appositamente costruito, cui fu dato il nome di Pyi Chit Paya, letteralmente «Pagoda dell'Amore Campestre». Le immagini di questo Buddha si vedono ovunque in Birmania. Adorarle è un atto sia di devozione religiosa, sia di patriottismo. È anche, sospetto, una forma di protesta privata contro il dilagare dei cinesi, che ormai dominano ogni attività commerciale sotto i generali. C'è il progetto di trasferire la statua in un tempio più grande nei paraggi. — Ma se voglia spostarsi, — mi ha detto Taw Paya — è tutto da vedere. Un venditore di prugne attraversò la carrozza regalando manciate di frutta, nella speranza che qualcuno ne comprasse un po'. Dopo che se ne fu andato, un uomo mingherlino dal volto indimenticabile si piazzò al centro della carrozza brandendo il nocciolo rugoso di un altro frutto che, come dichiarò in una triste cantilena da coro greco, era in grado di curare strappi muscolari, problemi della pelle e altri cento mali. Molti ambulanti andavano avanti e indietro lungo i corridoi con cibi di ogni tipo: polpette di riso arrostite in foglie di bambù, insalate di peperoncino piccantissimo e foglie di tè, enormi cracker di riso. Notai con piacere che gli shan avevano la stessa passione per gli spuntini dei loro cugini thailandesi, per i quali è una follia intraprendere anche una breve escursione senza portarsi dietro provviste per un viaggio intergalattico. All'estremità della carrozza sedevano i soldati: armati fino al collo, tirati a lucido, ostili. Molti dovevano essersi diplomati di recente all'accademia militare di Maymyo. Prima li avevo osservati sulla banchina. Alcuni se ne stavano in disparte, altri avevano formato silenziosi gruppetti color cachi; nessuno si era mescolato ai civili. Mi chiedevo che cosa avessero insegnato loro all'accademia. — Passano quattro anni a farsi fare il lavaggio del cervello e quando escono di lì si aspettano che i civili si comportino da soldati — mi spiegò più tardi un dissidente birmano. — Ma a noi non va di comportarci da soldati. Altrimenti, perché saremmo rimasti civili? Eppure loro credono di essere i più alti rappresentanti della Birmania. Sono convinti di sapere che cosa sia meglio per tutti. Beh, non è così. I turisti occasionali che si recano in Birmania ignorano l'odio viscerale che la maggior parte delle persone, in particolare fra le minoranze etniche, prova per i militari. Il dissidente con cui parlai mi raccontò di un gruppo di contadini kachin rimasti immobili a guardare sei giovani soldati birmani feriti in un incidente stradale. La sorella del dissidente, che era presente al momento della disgrazia, scongiurò i contadini di fare qualcosa, e uno di loro rispose con freddezza: – Perché dovremmo? Vivrebbero solo per renderci la vita un inferno. Meglio lasciarli morire. Per quel che sono riuscito a capire, l'esercito non sembra rendersi conto dell'impopolarità che lo circonda, sebbene i suoi difensori vigilino su ogni potenziale macchia al suo onore. Ho sentito dire, per esempio, che ai disegnatori di fumetti di giornali e riviste birmani è proibito ritrarre uomini con i pantaloni. Questo perché gli unici birmani a indossare i pantaloni sono i soldati, e non è pensabile che un militare sia oggetto di una forma d'arte tanto indegna e pericolosamente satirica. Il treno avanzava, attraverso campi di canna da zucchero e risaie prosciugate, verso le montagne in lontananza, schermate dall'ombra delle nuvole. Hseng sputò fuori del finestrino, si pulì la bocca, sogghignò e, con fare teatrale, si diede una pacca in fronte. — Che testa di cazzo — esclamò. Cominciavo a pentirmi di avergli insegnato quell'espressione. Eravamo diretti alla cittadina shan di Hsipaw. Dato che Hseng non aveva mai visitato lo Stato Shan settentrionale, la prospettiva lo eccitava immensamente. Aveva già attaccato bottone con due giovani donne, che erano salite all'ultima fermata e ora ridacchiavano sedute di fronte a noi. — Le donne birmane — mi disse — adorano gli uomini shan. Sai perché? Lascia che te lo spieghi. Perché gli uomini shan sono i più onesti, i più leali e quelli con la pelle più liscia. — Che mi dici delle donne shan? — gli domandai ammiccando alle ragazze. — A loro piacciono gli uomini shan? — Se piacciamo alle donne shan? — replicò con finta meraviglia. — Ma certo. — Lanciò un sorriso accattivante alle ragazze. — E le donne shan sono bellissime, perché le madri insegnano loro a camminare lentamente, con dignità e passi morbidi, proprio come un elefante. | << | < | > | >> |Pagina 138Di ritorno a Kalaw, mi congedai da Ben e mi diressi in auto verso est, con destinazione la vicina città di Yawnghwe. Un tempo capitale dell'omonimo e importante feudo shan, oggi era meglio conosciuta come base per esplorare il pittoresco lago Inle. Quando arrivai, il mercato settimanale era in pieno fervore e il canale di Yawnghwe era intasato di piccole barche, cariche fino a scoppiare di verdure coltivate nei celebri orti galleggianti sul lago. Il mercato era la consueta collezione di bancarelle di fortuna, protette alla bell'e meglio da teloni svolazzanti. Donne pa-o con i loro copricapi fiammeggianti si muovevano con grazia tra le caotiche file di acquirenti shan, palaung e birmani. Con l'avvicinarsi del crepuscolo, la città si svuotò. Alle otto per le strade ormai deserte si sentiva solo l'eco monotona e grossolana di una manciata di locali-karaoke che rimanevano aperti fino a tardi. Scott era arrivato a Yawnghwe, o Nyaungshwe come la chiamavano i birmani, nel corso della Spedizione negli Stati Shan del 1887, per scoprire una delle più sontuose corti d'Asia. Lo staff del saopha locale comprendeva oltre centosettanta guardie, quattro guardiani d'elefante e dodici portatori d'ombrelli, senza dimenticare i sessanta canottieri addetti all'enorme barca dorata a forma del mitico uccello hintha. A dispetto del carattere stravagante della sua corte, il saopha non fece una grande impressione a Scott, che definì il sovrano ereditario di un'area più estesa dello Hampshire «un diabolico vecchio ruffiano». Il vicino lago Inle è famoso per gli intha, o «figli del lago», un popolo tibeto-birmano che forse è giunto dalla Birmania meridionale come prigioniero di guerra durante il regno di Narapatisithu, più o meno al tempo in cui la Quarta Crociata entrava a Costantinopoli. Gli intha sono conosciuti per la loro curiosa capacità di remare con una gamba, tenendosi in equilibrio sull'altra come cicogne. Così hanno le mani libere per gettare le reti da pesca e per gesticolare furiosamente alle barche di turisti che fanno scappare i pesci. Ma gli intha non sono il primo gruppo etnico che i turisti incontrano a Yawnghwe. Menù, poster e calendari dei ristoranti e degli alberghi della città sono pieni di immagini di donne padaung, note come «donne giraffa» o «colli lunghi» per via dei pesanti anelli di ottone che indossano attorno alla gola. Di tutte le tribù delle colline birmane, i padaung sono la più esotica e riconoscibile, e in un certo senso quella che meglio rappresenta la difficile condizione di questi popoli. Il loro luogo d'origine era lo Stato Kayah, situato a sud, una terra dilaniata dalla guerra tra i ribelli karenni e l'esercito birmano. Molti padaung sono fuggiti oltre confine, nei cosiddetti «villaggi dei colli lunghi» del Nord della Thailandia, dove i turisti li pagano per mettersi in posa davanti alla macchina fotografica. Di recente le donne padaung si sono spinte anche a nord, per guadagnarsi da vivere lungo i limitati itinerari turistici birmani. Avevo sentito dire che c'era un «villaggio dei colli lunghi» a Yawnghwe, e una mattina andai a cercarlo. Esibirsi come fenomeni da baraccone non è una novità per le donne padaung. Avevano sfilato davanti al re della Birmania a Mandalay e, se si crede alla leggenda, erano state esposte in una mostra a Londra, che Scott aveva visto da ragazzino. Lo spettacolo di queste «Belle di Birmania Fasciate d'Ottone» (secondo la bizzarra definizione in un resoconto di viaggio coloniale) infiammò la fantasia del giovane Scott, che seduta stante giurò a sé stesso di visitare un giorno quel lontano Paese abitato da tali magiche creature. Almeno così si raccontava. Io non trovai notizie di una visita in Gran Bretagna di donne padaung nell'Ottocento. Tuttavia, si sa che un gruppo di padaung arrivò in Inghilterra negli anni Trenta con il celebre Circo di Bertram Mills, ed ebbe un grande successo. Cyril Bertram Mills le descrisse come «uno spettacolo di second'ordine»: senz'altro, più delle donne con il disco nel labbro inferiore di Oubangichari, che a Londra erano state un mezzo fiasco. L'esibizione delle padaung fu un tale trionfo che un talent scout venne inviato in Birmania per reclutarne altre. Passò anche da Yawnghwe, mentre si recava a sud nel villaggio di Pekkong. Il viaggio fu «un susseguirsi di incubi», raccontò Mills. «Le strade erano piste immerse nella giungla, solcate dalle ruote dei carri trainati dai buoi, e l'unico mezzo di trasporto disponibile era un'auto antidiluviana con tutti i problemi immaginabili, il cui noleggio costava sette scellini a miglio.» A Pekkong il talent scout trovò delle padaung che non vedevano l'ora di visitare l'Inghilterra. Il primo gruppo era stato trattato bene e aveva guadagnato un sacco di soldi. Scrisse Mills: «Quando partirono da Pekkong, le donne erano secche come manici di scopa, avevano addosso degli stracci e in tutta la loro vita non avevano mai calzato una scarpa: per renderle presentabili, si dovettero rivestire da capo a piedi a Rangoon e rimpinzare di cibo sulla nave». Le donne furono portate in giro per l'Inghilterra su un autobus a due piani, attrezzato con tre camere da letto al piano superiore, e una cucina con sala da pranzo a quello inferiore. Faticarono ad adattarsi all'insipido cibo inglese. Mills raccontò che, per le loro richieste di spezie piccanti, «il cuoco faceva fuori l'intera provvista di peperoncino di cayenna di ogni città che visitavamo». Il classico maltempo inglese era un altro problema. Maurice Collis, ex giudice coloniale, pagò un biglietto di sei pence per vedere uno spettacolo di «donne giraffa» a Piccadilly e, quando entrò in sala, trovò le padaung sedute dietro un riparo ed «esibite al pubblico di curiosi come fenomeni da baraccone». Una indossava una pelliccia che aveva comprato da Barker, le altre erano intente a sferruzzare maglioni di lana. Le ragazze padaung sistemano il loro primo anello intorno al collo fra i sei e i dieci anni. Usando l'arte divinatoria delle ossa di pollo si sceglie un giorno propizio, e il collo della giovane viene preparato frizionandolo con un linimento di latte di cocco e grasso di cane. L'anello ha più o meno lo spessore di un mignolo, e nel corso degli anni se ne aggiungono altri finché la ragazza non diventa adulta. Gli anelli di ottone non allungano il collo, bensì — come rivelano le preoccupanti radiografie — spingono le clavicole e la gabbia toracica verso il basso, creando così l'illusione di un collo più lungo. A volte le donne portano serpentine di ottone anche sulle gambe e sulle braccia. Gli anelli al collo tendono a strozzare la loro voce e a farle camminare incurvate in avanti; quelli alle gambe provocano un'andatura dondolante, causata anche dallo sforzo di trasportare tutto quel metallo, che può pesare più di venticinque chili, ossia quattro set completi dei cinque volumi del Gazetteer di Scott. Eppure, le padaung sono contadine che lavorano sodo: devono andare a prendere l'acqua, dissodare i campi, trascinare il carretto con il raccolto al mercato e crescere i figli. Gli anelli vengono puliti con succo di limone o tamarindo, e non vengono mai tolti, nemmeno per dormire. Con gli anni i muscoli del collo si atrofizzano. «Una volta», raccontò Scott, «un missionario convinse una padaung a togliere i propri ornamenti, ma lo spettacolo del suo collo, che pendeva inerte come quello di una gallina morta, era così penoso che a malincuore le concesse di rimetterli.» | << | < | > | >> |Pagina 192Per ogni tormento inflitto dal governo birmano esiste un rimedio; a Kengtung, il mio rimedio si chiamava Sai Lek.Mi era stato raccomandato come guida, e lo rintracciai in maniera alquanto losca, lasciando un messaggio per una certa persona a un determinato indirizzo: mezz'ora dopo Sai Lek arrivò rombando su una motocicletta presa in prestito. Era uno shan poco più che ventenne, simpatico e rilassato e, come scoprii presto, molto sveglio. Il suo buonsenso politico era in parte dovuto agli impietosi maltrattamenti cui i militari avevano sottoposto la sua famiglia, colpevole di essere democratica. Tuttavia, nonostante la sua profonda avversione per l'esercito birmano (da ragazzo era stato tra coloro che, fuori dei cancelli del palazzo di Kengtung, avevano osservato con rabbia impotente il lavoro dei bulldozer) riusciva a non esserne schiacciato. Rifiutava di amareggiarsi per ciò che il regime gli aveva negato (un'istruzione universitaria, tanto per cominciare), e si concentrava piuttosto sulla sua prossima mossa, ovvero assicurarsi un lavoro in Thailandia, essendo il thai una delle sei o sette lingue che aveva appreso da autodidatta. Contavo su Sai Lek per avere informazioni sui «palazzi esterni». Sao Kawng Kiao Intaleng aveva costruito non solo il palazzo di Kengtung, ma anche una villa per ognuna delle sue sei mogli. La mia giovane guida sapeva di due edifici tuttora esistenti: uno era stato trasformato in foresteria governativa, l'altro era la dimora di un membro della famiglia reale shan che viveva all'estero. - Possiamo andare a dare un'occhiata, se vuoi - mi disse. - E possibile? Sai Lek sorrise e rispose: - Perché no? - che era il suo modo di dire «Ma certo!» La villa non era lontana dal Kyaing Tong New Hotel ed era circondata da un muro sopraelevato di recente, come per difendersi da un temibile nemico: forse i bulldozer. La costruzione aveva qualcosa di vagamente mediterraneo, con le pareti imbiancate a calce, le persiane di legno e una quantità di piante in vaso sul portico, mentre il giardino era tutto un rigoglio di cespugli di rose e alberi di mango. Questo luogo idilliaco era curato da un anziano custode di famiglia. La villa era stata edificata per Sao Nang Woon Yong, la quinta moglie del saopha, ed era tuttora di proprietà di uno dei suoi discendenti, che però veniva di rado, disse il custode introducendoci nel tetro pianterreno. Non c'era molto da vedere: qualche foto accartocciata di reali shan minori, pochi libri tarlati e una vecchia frusta di pelle, che subito Sai Lek raccolse e utilizzò per vibrare colpi nell'aria polverosa. — Per i cavalli — spiegò il custode. — Per frustare la gente — disse Sai Lek con una smorfia. Più tardi mi portò a fare un giro per la città in moto. Sfrecciammo attraverso la porta meridionale — dove sotto il regno degli antichi saopha, si tenevano le esecuzioni pubbliche — e costeggiammo le mura di Kengtung nel loro sinuoso svolgersi attaverso il paesaggio. Nel XIX secolo, in occasione di un assedio, da questi bastioni furono lanciati enormi razzi per mettere in fuga gli elefanti da guerra siamesi. In seguito, le fortificazioni andarono lentamente in rovina; Scott le trovò «più pittoresche che formidabili». Arrivammo fino alla «Collina dell'Albero Solitario», così chiamata per la presenza di un gigantesco ditterocarpo che svettava nel cielo per quasi settanta metri. L'albero era stato piantato nel 1751 e già ai tempi di Scott era visibile nel raggio di diversi chilometri, segnalando agli stanchi viaggiatori che Kengtung era vicina. Oggi, manco a dirlo, l'albero è gestito dai soldati birmani, e per avvicinarci dovemmo pagare un biglietto d'ingresso. La cosa divertente fu che cercarono perfino di venderci cartoline dipinte a mano. Qualche anno prima, tutti i reparti dell'esercito birmano avevano ricevuto l'ordine di produrre denaro contante, ognuno nel modo che riteneva più opportuno, ed evidentemente i militari di Kengtung si erano specializzati in questi strani articoli di cancelleria. Mi giunse anche voce che i Servizi Segreti dell'esercito gestivano un allevamento di gamberi. Il panorama straordinario che si gode dalla Collina dell'Albero Solitario è dominato da un edificio di dimensioni colossali: Sai Lek disse che si trattava di una specie di stazione climatica riservata al personale militare. Edifici di tal sorta sono disseminati per tutta la Birmania come pezzi del Monopoli; ne ho visto un esemplare pressoché identico in costruzione a Kalaw. Mentre le scuole, gli ospedali e le università sono stati chiusi o privati di fondi e attrezzature, le scarse risorse del Paese sono impiegate per costruire scuole militari, ospedali militari, università militari: insomma, una società parallela a beneficio dei membri delle forze armate. Appartenervi significa godere di determinati privilegi, ed è dunque un buon motivo per voler preservare lo status quo. È una delle ragioni per cui l'esercito birmano ha conservato il potere così a lungo. Oltre, naturalmente, al fatto che tutte le armi sono nelle sue mani. - Vedi quei campi di calcio laggiù? - mi domandò Sai Lek indicandomi la valle. - Prima erano risaie. I militari hanno obbligato due interi villaggi a trasferirsi e si sono presi tutta la terra. Adesso quella gente non ha più nulla. - Era in corso una partita e noi la guardammo in silenzio. - I soldati giocano molto bene a calcio - disse seccamente Sai Lek. | << | < | > | >> |Pagina 236I wa non erano l'unica tribù di cacciatori di teste dell'impero britannico: sia i naga della Birmania settentrionale sia i dyak del Borneo collezionavano teschi umani. Tuttavia, a differenza dei dyak, che consideravano questi raccapriccianti trofei prove della loro potenza guerriera, i wa credevano che i teschi umani avessero la facoltà di placare gli spiriti maligni portatori di pestilenze, carestie e siccità. Per un wa, sosteneva Scott, il teschio era l'equivalente dell'acqua santa, o del segno della Croce, o ancora «dell'alleluia in una funzione dell'Esercito della Salvezza». «Senza teschio, il raccolto sarebbe andato male: senza teschio, le vacche rischiavano di morire; senza teschio, gli spiriti dei genitori sarebbero stati disonorati e si sarebbero risentiti; se mancava il teschio protettore, gli altri spiriti, che per i wa sono tutti maligni, potevano introdursi nel villaggio e uccidere gli abitanti, o scolarsi la provvista di liquore.»La stagione della caccia alle teste iniziava tra marzo e aprile, al tempo della semina dei campi. Gruppi di feroci guerrieri wa armati di lunghi coltelli perlustravano la foresta per tendere imboscate ai viandanti di passaggio, o facevano razzia nei villaggi vicini, pronti a ricambiare l'offesa con uguale crudeltà e con sanguinose vendette che si trascinavano per secoli. Le teste appena tagliate venivano legate per i capelli a un'asta di bambù e portate al villaggio, dove le si conservava in una capanna consacrata finché la carne e i nervi non erano completamente marciti e l'osso non si era sbiancato a sufficienza. Poi venivano infilzate su un palo di legno in una vicina radura appartata. Non si sa granché delle lunghe cerimonie che accompagnavano il rituale. «Sembra, però, che si facesse strage di bufali, maiali e pollame», annotò Scott, «che gli stregoni del villaggio recitassero incantesimi e, soprattutto, che tutti bevessero come spugne. Quest'ultimo particolare contribuisce senza dubbio a spiegare la scarsità di informazioni sull'argomento.» All'epoca della spedizione la stagione della caccia alle teste non si era ancora aperta ma Scott aveva mille ragioni di stare in guardia. I wa bramavano i teschi dei forestieri: erano convinti che gli spiriti stranieri non conoscessero la strada che scendeva dalle colline, e non potessero quindi abbandonare i campi di riso che era loro compito proteggere. «Dunque, un forestiero sprovveduto e senza scorta ha ottime probabilità di lasciarci la testa se si aggira nel territorio dei wa selvaggi, indipendentemente dal periodo dell'anno in cui decide di andarci.» Il primo incontro di Scott con i wa ebbe luogo fuori del villaggio di Motwo. Tre uomini wa furono catturati e mandati avanti come ammonimento per evitare uno scontro armato. Poi, dopo aver intimato a Dora di non muoversi, Scott andò in avanscoperta con un piccolo gruppo. Come molti insediamenti wa, Motwo aveva più di cento capanne: un numero considerevole se confrontato con i villaggi di altre tribù birmane, e ovviamente a scopo difensivo. «Mi sono venuti incontro una ventina di membri della tribù mezzo ubriachi, con in mano un casco di banane verdi e una canna da zucchero», scrisse Scott. «La maggior parte se l'era data a gambe. A dimostrazione della loro fiducia, ci hanno consegnato per un paio d'ore cinque fucili e si sono messi a urlare come invasati.» Scott mandò a chiamare Dora, che lo raggiunse a cavallo, e poco dopo comparve anche il capovillaggio di Motwo, il quale diede ordine di allestire una grande festa in onore dei suoi inattesi ospiti stranieri. In men che non si dica, nel villaggio risuonarono le strida terrorizzate dei maiali, che furono zittiti da repentini spari e macellati per la cena. Incoraggiata dall'accoglienza amichevole ricevuta a Motwo, la squadra di Scott proseguì a est verso Mot Hsamo, un insediamento wa ormai in rovina, infestato dai topi e invaso dall'odore disgustoso della carne di maiale appesa a seccare alle travi di ogni casa. L'incontro con il capovillaggio si rivelò una perdita di tempo («si scoprì che era un bambino di sei anni che non voleva staccarsi dalle ginocchia della madre»), così Scott si accampò alle porte di Mot Hsamo. Lì vicino scovò una grossa bara di legno in cui era adagiato un cadavere. Per tutta la notte un gruppo di ubriachi fece baldoria sparando colpi di fucile in aria, il che non contribuì a placare l'agitazione crescente di Scott. Non contribuì neppure la mancanza di disciplina dei suoi uomini, che si dedicarono al gioco d'azzardo in modo tanto sfrenato che, dopo una lite, Scott dovette confiscare il denaro e far frustare i responsabili. Cominciarono anche a scomparire misteriosamente le provviste, tra cui «una decina di casse di whisky (ahimè!)» e la vasca da bagno personale di Scott. Nonostante tutti questi problemi e privazioni – e senza contare l'atroce dolore ai piedi, che gli si erano escoriati durante il percorso – Scott trovò il tempo di sviluppare «qualche foto di paesaggi» nella sua camera oscura da campo. Il suo umore non migliorò quando si rese conto che gran parte delle lastre fotografiche erano state rovinate dall'umidità.
Le cime delle colline, che nella regione shan sarebbero state
ricoperte da una densa vegetazione, nel territorio wa erano prive di alberi e
seminate a riso o a papaveri da oppio: il risultato di secoli di agricoltura
industriosa. Ciò significava che quasi tutti i villaggi wa erano visibili a
chilometri di distanza e quindi chiunque si avvicinava poteva essere individuato
con facilità. Sebbene la sanguinaria reputazione della tribù fosse in genere
più che sufficiente a scoraggiare i visitatori casuali, gli insediamenti erano
protetti anche da un formidabile baluardo di terrapieni rinforzati, rivestiti di
fitti cespugli spinosi e circondati da un fossato ben nascosto e fiancheggiato
da canne di bambù. L'unica via d'accesso era un lungo e stretto tunnel fatto di
terriccio o di rozze assi di legno, lievemente ricurvo per impedire che
proiettili o frecce riuscissero a penetrare. Chiunque fosse stato tanto
fortunato da riuscire a spingersi fin lì avrebbe incontrato un manipolo di
guerrieri wa armati di lance, spade, frecce avvelenate, nonché di qualche
sporadico moschetto. «Un villaggio wa è un luogo eccezionale», dichiarò Scott.
«È inespugnabile, e impossibile da conquistare con un attacco diretto: non
importa quante armi possieda il nemico, deve essere davvero determinato, e
pronto a sopportare enormi perdite.»
|