Autore George Martin
Titolo L'estate di Sgt. Pepper
SottotitoloCome i Beatles e George Martin crearono Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band
EdizioneLa Lepre, Roma, 2013, Tascabili , pag. 252, cop.fle., dim. 12x19x1,6 cm , Isbn 978-88-96052-85-3
OriginaleSummer of Love - The making of Sgt. Pepper [2008]
PrefazioneStefano Bollani
TraduttorePaolo Somigli
LettoreFlo Bertelli, 2013
Classe musica , paesi: Gran Bretagna












 

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Indice


   7    Prefazione di Stefano Bollani

   9    Introduzione di George Martin

  13    A day in the life di Paolo Somigli

  19    Prologo

  27    Capitolo 1

  37    Capitolo 2

  55    Capitolo 3

        [...]


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



Nessuno prima del disco-capolavoro Sgt. Pepper aveva giocato così tanto in uno studio di registrazione, pretendendo da se stesso e dai propri collaboratori qualcosa di "diverso" ogni santissima giornata passata insieme a inventare musica.

Il gioco che i Beatles hanno portato avanti, incarnando così la voglia di gioia e rivoluzione di molte generazioni, non si è svolto però senza rete.

A proteggerli dal rischio di pubblicare un minestrone colmo di informazioni, un piatto con troppi sapori che finisce per essere stomachevole, un romanzo con troppi personaggi, incapace di tenere costante l'attenzione del pubblico, a proteggerli da tutto questo c'erano due utilissimi paracadute: il loro enorme talento e Sir George Martin, autore di questo libro.

Attraverso il suo ricordo osserviamo i nostri quattro eroi proprio come avremmo sempre voluto tutti noi fans: da vicino, scoprendo i loro dubbi e i loro entusiasmi, i loro continui esperimenti.

Manca qualcosa in questo libro? Sì, manca un piccolo tassello: un qualche riferimento a Love, il disco che George Martin, insieme al proprio figlio Giles, ha creato nel 2006 per dare una colonna sonora ad uno spettacolo del Cirque du Soleil.

Un grandissimo atto d'amore.

In quel caso George Martin è riuscito a "riunire" i Beatles smontando e rimontando tracce cui solo lui poteva avere accesso (col permesso di Paul, Ringo e delle due vedove di George e John). In quel disco la batteria e il basso di un brano suonano insieme al sitar che viene da un altro brano e magicamente, misteriosamente, tutto funziona e i Beatles suonano più attivi e reattivi che mai. Un nuovo disco dei Beatles messo insieme con cura ed enorme sapienza da colui il quale è sempre stato considerato il "quinto" del gruppo.

Un gruppo di persone così diverse tra loro, al punto che il grande scrittore Tom Robbins in un suo libro sentenziava che i "tipi umani" si suddividono in quattro grandi categorie e che queste sono rappresentate perfettamente da John, il rivoluzionario; Paul, il bravo ragazzo; Ringo, il simpaticone e George, il mistico.

Questo libro è largamente consigliato non solo agli appassionati di questi quattro geniacci ma ancor più a chi è curioso di entrare in una delle officine creative più brillanti del secolo scorso e a chi crede ancora che sia bello "fare gruppo" per creare sperimentando e divertendosi.

Stefano Bollani

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Pagina 9

INTRODUZIONE



Quando incontrai i Beatles per la prima volta, nel 1962, pensai che la loro musica non fosse un granché: mi sembrava troppo elementare e ritenevo le loro canzoni di scarso spessore. D'altra parte mi resi immediatamente conto che quei ragazzi avevano un enorme carisma, emanavano un fascino istintivo del quale a quanto pareva non erano affatto consapevoli. Ognuno aveva qualcosa di particolare. Erano diversi da qualsiasi altro gruppo che avessi mai incontrato. Erano divertenti, sfrontati senza mai essere volgari; insomma, non si poteva fare a meno di farseli piacere.

A me piacquero moltissimo, e quindi pensai: "Così come sono piaciuti a me, piaceranno anche al pubblico, se soltanto riuscirò a trovare una canzone adatta...". Fu sull'onda di quella sensazione a pelle che li scritturai per la Parlophone, l'etichetta della EMI che dirigevo. Tutti noi sappiamo com'è andata poi a finire, e ovviamente quella decisione cambiò radicalmente sia la mia vita che la loro.

Oggi, a mezzo secolo di distanza, i Beatles sono conosciuti in ogni angolo del mondo. Sono diventati le icone della loro generazione, il simbolo dell'ingegno e della creatività britannici.

Il carisma e il fascino che avevo intravisto quel giorno hanno toccato il cuore praticamente di tutti, in tutto il mondo, e la loro musica è andata crescendo in bellezza e in complessità oltre ogni previsione. Quello che avevano raggiunto era genio puro; e quando il mondo se lo trovò di fronte, quel disco, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, venne unanimemente riconosciuto come il portavoce della rivoluzione sociale che fu poi definita Summer of Love. L'intera nazione britannica ha cavalcato quell'onda di gioia ed esuberanza, con Mary Quant e Carnaby Street che hanno dettato uno stile in seguito copiato ovunque.

I giovani di tutto il mondo scoprirono che non erano più costretti ad uniformarsi allo stile di vita dei propri genitori. Il Flower Power indicava la strada da seguire, e tutti scoprirono che era possibile scrollarsi di dosso gli ultimi rigurgiti dell'epoca vittoriana, piena di bacchettoni e di ipocrisie sessuali. La terribile minaccia dell'Aids era ancora di là da venire. Ma a dire la verità, personalmente di tutto questo non mi accorsi minimamente: ero troppo indaffarato.

Per me il 1967 fu un anno di lavoro, di duro lavoro, ma pieno di soddisfazioni incredibili. Un anno di gioia, un anno di tristezze, un anno che non dimenticherò mai. Persi mio padre, che morì appena finito Pepper. Persi un grande amico, Brian Epstein, che morì troppo giovane e lasciò i Beatles senza una guida. In compenso io e mia moglie avemmo una bella bambina, Lucie, la nostra primogenita, indubbiamente una figlia dell'Estate dell'Amore.

Fu allora, in quel 1967, che i Beatles capirono di avere realmente la possibilità di fare tutto quello che volevano. Lavoravano intensamente sulle loro canzoni, sperimentando cose che non si erano ancora mai sentite, spingendosi sempre oltre il limite. Tutti i miei dubbi iniziali svanirono, man mano che le loro canzoni diventavano sempre più complesse e mature, senza che i Beatles perdessero mai l'amore dei propri fans.

E così, questo è il racconto di un anno straordinario della nostra storia, un anno diverso da tutti gli altri che l'hanno seguito o preceduto. Ma, cosa probabilmente ancora più importante, è anche la storia della realizzazione di un album unico, quello che ha rivoluzionato il modo con cui, da allora, sarebbe stato concepito ogni altro disco.

George Martin

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Pagina 27

CAPITOLO 1



                                                            «What do you see
                                                when you turn out the lights?».



Si potrebbe dire che nel 1966 i Beatles si trovavano su un'automobile che scendeva a rotta di collo giù per una discesa, in una folle corsa. Con questo non voglio assolutamente affermare che la loro carriera fosse in declino, ma certo i Beatles in quel periodo si stavano affrancando sempre di più dal controllo del loro manager, Brian Epstein, o per la verità da quello di chiunque altro. Il problema non era tanto che qualcuno premesse troppo sull'acceleratore, quanto che non c'era più nessuno a tenere il piede sul freno.

Le richieste di concerti piovevano quotidianamente da ogni angolo del mondo. Brian continuava a confermare date su date, senza rendersi conto della pressione che "i ragazzi" stavano subendo. Amava l'eccitazione del mercanteggiare, il susseguirsi di nuovi Paesi e nuove date, la percezione palpabile del potere. Essere il manager dei Beatles lo faceva sentire importante e degno del rispetto di tutti.

Alla fine del 1966, Brian fu costretto ad accettare un fatto col quale mai avrebbe pensato di doversi confrontare: i Beatles si rifiutavano di suonare ancora dal vivo. Nel 1962 li aveva messi sotto contratto per cinque anni unicamente a questo scopo: uscire allo scoperto e sconvolgere il mondo. Contava che andassero avanti per altri cinque anni, e poi ancora per i cinque seguenti... Senza alcun preavviso, invece, i Beatles decisero di scendere dal palco e di voltare le spalle al pubblico, per sempre. Risposero semplicemente "no" a ogni proposta di Brian, e rimasero irremovibili. Era un suicidio commerciale, secondo la logica di quell'epoca. A quel tempo i gruppi non pensavano a registrare in studio, occupati com'erano a costruire il proprio successo unicamente grazie alle performance dal vivo. Il fatto che i Beatles volessero chiudere definitivamente con i concerti per poter passare mesi a registrare un album, Sgt. Pepper, sconvolse terribilmente Brian. Pensò che fosse arrivata la fine.

Brian si sentiva come una sorta di moderno Diaghilev: un impresario di notorietà internazionale, a capo di un impero del quale i Beatles erano una parte rilevante, anche se soltanto una parte. Non si considerò mai un semplice servitore del gruppo più importante che sia mai esistito. Ma quale sarebbe potuto diventare il ruolo di un grande Napoleone della comunicazione, se la parte più consistente del suo impero non aveva più intenzione di essere gestita?

Non c'è alcun dubbio che il 1966 sia stato un anno disastroso per i Beatles. Il mondo stava franando su di loro. La Terza Legge di Newton, secondo la quale per ogni azione esiste una reazione uguale e contraria, aveva iniziato a dare i suoi risultati. L'isteria generale che i Beatles avevano innescato stava producendo il suo inevitabile contraccolpo.

A giugno, mentre erano ad Amburgo, ricevettero un telegramma anonimo. "Non andate a Tokyo, – diceva – la vostra vita è in pericolo". Tutti noi prendemmo seriamente la minaccia, anche perché in Giappone esisteva una forte opposizione religiosa e conservatrice nei confronti dell'imminente tournée dei Beatles. Lo spettacolo doveva tenersi al Nippon Budokan Hall, luogo che molti giapponesi considerano sacro: il posto meno indicato per la profana musica pop occidentale. Anche la polizia giapponese prese particolarmente sul serio le minacce, e il tour si svolse in una sorta di stato d'assedio, interrotto soltanto da velocissime sortite sotto scorta armata prima di ogni entrata in scena.


La data successiva, Manila, fu ancora più terribile. Ferdinando e Imelda Marcos governavano le Filippine come despoti medievali. Il popolo era costretto a obbedire, non aveva scelta. Quando a Brian fu "suggerito" come opportuno che i Beatles facessero una visita di cortesia alla first lady prima del loro concerto pomeridiano, forse avrebbe dovuto considerare la cosa con maggiore attenzione. Ma il gruppo aveva suonato in Europa immediatamente prima di partire per le Filippine, e dopo un viaggio così lungo i ragazzi erano tutt'altro che ansiosi di far visita alla famiglia Marcos, sprecando il loro unico giorno libero. Chiesero quindi a Brian di spiegare che purtroppo, dato lo scarso tempo a loro disposizione, la visita non sarebbe stata possibile, e di assicurarsi che i Marcos venissero avvertiti per tempo.

Aggiunsero che i loro giorni di riposo erano talmente rari da non poter prendere in considerazione le cerimonie ufficiali. Brian inviò un telegramma ai promoter locali e al Palazzo. La risposta fu: «Devono venire in ogni caso. L'offerta non può essere rifiutata». Quando i Beatles arrivarono a Manila, divenne evidente che avrebbero dovuto affrontare un problema molto serio.

Paul mi raccontò di come sia Brian che i funzionari del Palazzo avessero pregato i ragazzi di riconsiderare la questione, senza peraltro riuscire a convincerli: dopotutto, si erano già scusati ampiamente, spiegando con chiarezza le proprie ragioni. Ritenevano eccessiva l'insistenza dei filippini, che ignoravano il loro cortese rifiuto. Ai Beatles non è mai piaciuto essere obbligati a fare qualcosa. Al contrario, in casi del genere la loro determinazione aumentava notevolmente. Una scorta armata si presentò all'hotel per portare il gruppo al Malacañang Palace, e Brian dovette scegliere se compiacere i Beatles o il presidente delle Filippine. Il fatto che, malgrado ci fosse un contingente armato alla porta, Brian si sia rifiutato di svegliare i ragazzi, profondamente addormentati nei loro letti, la dice tutta sul suo coraggio.

Difficilmente i Beatles avrebbero potuto inventarsi qualcosa di peggio per ferire l'orgoglio nazionale e i sentimenti di Imelda Marcos, la quale aveva già invitato una schiera di vecchi amici aristocratici con i propri bambini al seguito, per una visita privata dei Fab Four. Brian si rese conto in quali guai si erano cacciati soltanto dopo aver acceso il televisore nell'intervallo tra i due show previsti.

L'intero paese era in rivolta. Sebbene i concerti si fossero rivelati dei successi assoluti, a quanto pareva ogni filippino voleva la loro pelle. Le cose si misero decisamente male. Venne fatto di tutto per rendere la loro partenza il più spiacevole possibile. Un tizio dell'organizzazione, il loro autista Alf Bicknell, fu così stupido da sventolare il pugno in faccia a qualcuno, e venne fatto rotolare giù da una rampa di scale. Tony Barrow, all'epoca addetto alle relazioni pubbliche dei Beatles, fu chiamato al terminal per risolvere una serie di problemi, mentre Brian e i ragazzi cercavano di mimetizzarsi il più possibile dietro un gruppo di suore che molto opportunamente si trovavano da quelle parti. Una fortuna insperata. Barrow ritornò con la notizia che l'intero compenso che avevano guadagnato avrebbe dovuto essere tassato. Neil Aspinall e Mal Evans, che seguivano Brian e i Beatles occupandosi di tutti i bagagli e degli strumenti, scoprirono che tutti gli ascensori erano improvvisamente fuori servizio. Ricominciarono misteriosamente a funzionare solo dopo che ebbero trascinato ogni bagaglio su per le scale. Lo scalo successivo era l'India; ma, caso strano, tutti i bagagli finirono in Svezia. I Beatles tornarono dalle Filippine senza soldi, senza valigie, con un gran mal di testa e pieni di guai.

Una brutta estate, che peggiorò ad agosto. Fino a quel momento i Beatles erano sempre riusciti a trattare con i giornalisti con intelligenza e arguzia, lasciandoli ogni volta incantati. Poi tutto cominciò ad andare per il verso sbagliato. A marzo, John aveva rilasciato un'incauta intervista a Maureen Cleave, un'importante giornalista londinese. Pubblicati sul London Evening Standard, i suoi commenti includevano la fatidica dichiarazione: «Il Cristianesimo finirà. Scomparirà nel nulla. Non ho bisogno di discutere su questo: ho ragione. Verrà il momento che sarà chiaro che ho ragione. Oggi siamo più popolari di Gesù. Non so cosa finirà prima, se il rock'n'roll o la cristianità».

Cinque mesi più tardi, la copertina della rivista giovanile americana Datebook nel titolo principale riportava la pesante dichiarazione di John riguardo alla religione istituzionalizzata. Risultato: un delirio assoluto. Sebbene fosse probabilmente vero che le congregazioni delle chiese cristiane erano andate diminuendo a partire dalla guerra, l'aver accostato il nome di Gesù Cristo a quello dei Beatles aveva il sapore dell'eresia. Quella dichiarazione attirò l'attenzione di tutto il mondo, e a ragione. Non meno di ventidue stazioni radio bandirono le canzoni dei Beatles dalle loro programmazioni. Montagne di libri sui Beatles, dischi e memorabilia vennero dati alle fiamme in falò organizzati, che in alcuni casi vennero trasmessi in diretta. La Bible Belt esortò tutti a un pubblico boicottaggio. E questo accadeva alla vigilia di un nuovo tour americano.

Brian Epstein volò negli Stati Uniti per cercare di limitare i danni. Cosa si poteva fare per salvare la situazione? Ben poco, ma John doveva comunque scusarsi. All'inizio rifiutò decisamente di umiliarsi, ma quando fu chiaro che il successo del tour dipendeva dalle sue scuse, si arrese e dichiarò pubblicamente di essere dispiaciuto. Malgrado ciò il tour, che iniziò a Chicago il 12 agosto 1966, non fu affatto facile. Alcuni biglietti per il concerto allo Shea Stadium rimasero invenduti. La cosa apparve incredibile sia a Brian che a me. Fu l'unica volta che vedemmo i ragazzi suonare in un luogo che non fosse completamente esaurito.

La principale preoccupazione di Brian in quell'ultimo tour, come del resto la mia, era rivolta all'incolumità fisica dei Beatles. Anche nel 1964, nonostante non avessero mai ricevuto minacce, eravamo comunque preoccupati per la loro sicurezza. Prima del loro concerto al Red Rocks Stadium a Denver, nel Colorado, Brian e io salimmo su uno dei giganteschi tralicci delle luci che sormontavano il palco. Da quella postazione privilegiata, che garantiva una visuale a volo d'uccello, l'auditorium si apriva davanti a noi come un vasto anfiteatro naturale. Un brivido freddo mi attraversò lo stomaco. Guardai verso Brian. Dall'espressione sulla sua faccia capii che tutti e due avevamo avuto lo stesso pensiero: da lì, un cecchino avrebbe potuto colpire chiunque senza il minimo problema. L'assassinio di John F. Kennedy, l'anno precedente, ci aveva insegnato che tali orrori erano fin troppo realistici. Nel 1966, in seguito alle incaute frasi di John Lennon, scenari simili diventarono improvvisamente possibili.

Come se tutto questo non bastasse, quando erano in tour i Beatles, a causa delle urla del pubblico, non riuscivano più neanche a sentirsi fra loro mentre cantavano e suonavano sul palco. E probabilmente per loro era questa la cosa peggiore, perché erano prima di tutto dei musicisti. Spesso si è portati a dimenticare questo semplice fatto; la fama dei Beatles, così come la disinvoltura con cui componevano ed eseguivano i loro brani, tende a far passare in secondo piano le loro capacità musicali. In realtà, i ragazzi erano perfettamente consapevoli che il ripetersi continuo di concerti in contesti assordanti avrebbe finito col condizionare la loro capacità di musicisti. E questo li deprimeva. Inoltre erano affetti da un pauroso stress da hotel. Si stavano stancando di essere prigionieri del successo, e ognuno rivendicava la sua identità. Diventare un Beatle era stato decisamente divertente, anche nonostante i recenti episodi. Ma ciascuno di loro, a tutti gli effetti, per ventiquattro ore al giorno, per sette giorni alla settimana, era soltanto un Beatle. Non c'era tempo per scendere dalla giostra, per tornare a essere Richard Starkey, o George Harrison. Andavi a letto con le urla nelle orecchie, e ti svegliavi la mattina successiva con quelle medesime urla in testa.

«No, non ne potevamo più dei concerti, facevamo tour in continuazione, ci rendevamo conto che stavamo diventando pessimi musicisti. Il volume delle urla del pubblico era sempre più alto del volume dei nostri amplificatori. Per quanto mi riguardava, non provavo il minimo piacere neanche a fare un fill di batteria, tanto nessuno se ne sarebbe accorto. Per cui alla fine mi sono rassegnato a seguire i piedi degli altri tre che tenevano il tempo, o a guardare i movimenti delle loro labbra per capire a che punto ci trovavamo».

Ringo Starr, South Bank Show


Credo che chi non ha mai vissuto l'esperienza in prima persona non possa neanche immaginare a quali costrizioni si è sottoposti durante un tour. Tutti pensano che sia meraviglioso essere una pop star multimilionaria, avere l'intero mondo ai propri piedi. In realtà è tutto un inferno. Anche nell'hotel più lussuoso non sei altro che un prigioniero. Essere chiusi dentro il New York Plaza, con migliaia di fan che urlano fuori, è come essere ad Alcatraz; solo il servizio in camera è leggermente migliore.

«... C'è stato un concerto in cui ho sentito anche io di essere arrivato al limite. Eravamo zuppi, l'acqua era entrata addirittura dentro gli amplificatori... A coprirci c'era solo una tela cerata, e suonare fu spaventoso... Ricordo che correvamo tutti all'impazzata dentro uno di questi grossi furgoni che avevano affittato, e quello dove ci eravamo riparati era tutto argentato, cromato, e dentro non c'era niente, soltanto cromature; ci siamo trovati tutti pigiati là dentro, dopo quel concerto così terribile, e allora ho detto: "Ok ragazzi, ci siamo, adesso sono d'accordo anch'io con voi... Detto fra noi, facciamola finita con i concerti dal vivo"...».

Paul McCartney, South Bank Show


Anche per Brian quell'anno era stato duro. Appena ritornato in Inghilterra si prese la mononucleosi. Quando si rimise un po' in forma mia moglie Judy e io lo andammo a trovare per un meritato fine settimana di riposo, e per fare il punto della situazione. Lo raggiungemmo a Portmeirion, nel nord del Galles, un villaggio sperduto sul mare che ricorda un gigantesco set cinematografico, progettato dall'architetto Clough Williams Ellis.

Appena si fu ripreso, Brian capì che aveva dato per scontate troppe cose, puntando sulle vite dei suoi quattro celebri protetti. Fino ad allora i Beatles non si erano mai lamentati dell'estenuante vortice di concerti e apparizioni in cui li aveva coinvolti. Né avevano battuto ciglio quando si erano resi conto che Brian, non pratico delle distanze americane, aveva organizzato serate in città letteralmente a migliaia di miglia l'una dall'altra. La loro amara decisione nell'autunno del 1966 fu fondamentalmente una reazione all'ostilità del pubblico e della stampa dopo la gaffe su Gesù Cristo di John, alle minacce di morte che avevano ricevuto ad Amburgo, alla violenza che avevano trovato nelle Filippine, e all'incapacità di sopportare oltre quello stile di vita da pacco postale.

«Adesso basta, io non sono più un Beatle».

George Harrison, sull'aereo che riportava i Beatles a Londra dopo il concerto di Candlestick Park (San Francisco)


Questo scenario così cupo e pesante deve però essere visto nella giusta prospettiva. Nel 1966 per la maggior parte della popolazione mondiale – certamente in Inghilterra e in larghissima misura in America – i Beatles erano ancora indiscutibilmente in vetta. Tutti, ricchi o poveri che fossero, adoravano la loro musica e pendevano dalle loro labbra, e gli stessi monarchi facevano la fila per avere il privilegio di incontrarli. Le loro più banali dichiarazioni venivano considerate pensieri di assoluta profondità, mentre quelle più serie, come nel caso dell'uscita poco felice di John su Gesù, potevano addirittura portare ai falò di massa dei loro dischi o attirare l'attenzione del Ku Klux Klan.

In ogni caso, quello che i Beatles dicevano e facevano aveva decisamente un peso enorme. E ciò dà la misura della loro importanza.

Già nei primi anni della Beatlemania persone adulte, sobri uomini d'affari, andando a lavorare lungo le strade di New York, indossavano parrucche alla Beatles, e si salutavano l'un l'altro alle nove in punto del mattino con frasi tipo: «Ehi, chi sei oggi?». «Sono George Harrison...». «Fantastico! Io invece sono Ringo...».

Ripensandoci ora, sembra difficile crederci. Ma io l'ho visto davvero.

Nel 1964 negli Usa, quando su una radiolina a transistor si girava da un estremo all'altro la manopola della sintonia, stazione dopo stazione, sulle onde radio si captava un unico sound: quello dei Beatles. Tre anni dopo erano in modo indiscutibile, irraggiungibile e indimenticabile i più grandi di tutti.

I Beatles avevano raggiunto la vetta della montagna e adesso si stavano guardando intorno con curiosità. Era tempo di fermarsi a riflettere su tutto quello che era accaduto fino a quel momento, e di tornare al loro primo e più autentico amore: fare musica.

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