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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione di Ramón Chao e Ignacio Ramonet 7 Ringraziamenti 21 Prologo 23 1. Prove generali di stato d'assedio 27 2. La lotta per lo Stato 79 3. La lotta contro lo Stato 181 4. Epilogo 399 Bibliografia 409 Note del traduttore 411 Indice dei nomi 427 Indice dei luoghi 435 |
| << | < | > | >> |Pagina 7INTRODUZIONE
DI RAMÓN CHAO E IGNACIO RAMONET
Ci piacciono i catalani perché nel corso della storia hanno accolto e integrato Iberi, Fenici, Cartaginesi, Greci, Romani, Ebrei e Arabi, oltre ad avventizi di ogni provenienza. Ci piacciono perché il 7 aprile 1249 re Giacomo I nominò quattro savi per dirimere le controversie municipali senza violenze e conflitti. Quegli uomini onorevoli, che passarono a cento nel 1285 (il Consell de Cent), rappresentarono l'inizio del sistema di governo cittadino di Barcellona. Grazie a loro regnò la concordia, perché i cittadini, anziché mettere subito mano alle armi, preferirono sempre usare prima il cervello. Barcellona divenne ben presto una di quelle città che evocano complesse mitologie e riferimenti simbolici, che la memoria revisiona di quando in quando. Sono eterne l'Atene di Pericle, l'Alessandria di Kavafis, la Roma di Romolo e Remo, la Venezia dei Dogi. In tutte queste città, l'apogeo delle potenza economica coincise con quello della grandezza culturale. Per contro, la Trieste di Italo Svevo e James Joyce e la Buenos Aires di Borges divennero illustri, in gran parte, grazie a quegli autori. E altre città ancora uscirono dalla mente di scrittori, come la Macondo di García Márquez, la Santa María di Juan Carlos Onetti o la madre di tutte le città immaginarie, la Jefferson di William Faulkner. Barcellona non disponeva di nulla per riuscire a elevarsi al rango del mito: in tutta la sua storia, la Catalogna non ha vinto nessuna guerra, al punto di ritrovarsi a commemorare come festa nazionale una battaglia persa nel 1714 contro le truppe di Filippo V di Borbone. E se questo vi pare poco, ricordiamo che i catalani hanno eletto a emblema nazionale un somarello lavoratore e riflessivo, molto lontano dal toro iberico, che carica con coraggio e furia cieca e non fa altro che avvicinarsi alla morte. Questi animali (gli asini catalani, intendiamo) sono una specie protetta, dato che sono ottimi riproduttori. Come altri fanno con lo champagne, i catalani li esportano in diversi paesi per migliorare la razza autoctona, come ad esempio negli Stati Uniti, dove hanno dato vita all'asino kentuckiano-catalano. Non c'è dubbio che nel carattere catalano confluiscano le virtù dell'asino. I tratti distintivi non si limitano peraltro a quelli di questo quadrupede. La popolazione catalana si distingue per una duplice peculiarità: il seny e la rauxa. Il seny comporta saggezza, giudizio ponderato e solido buonsenso. Era ricco di seny quel catalano che, in una carrozza ferroviaria, stava seduto accanto al finestrino abbassato. Si moriva di freddo e gli altri viaggiatori gli chiesero di chiuderlo: "Fa lo stesso" rispose alle insistite richieste, finché un castigliano si alzò furibondo e tirò su il finestrino... il cui vetro era rotto! "Fa lo stesso" tornò a ripetere il brav'uomo con tutta la sua benedetta indolenza. Al seny si contrappone la rauxa, un tratto di sconsideratezza, di pazzia. Spesso si esplica in una battuta, una frase ingegnosa e assurda. Quando Miró, giovane e surrealista, andava in metropolitana e vedeva un prete in tonaca, gli diceva: "Si accomodi, signora." L'unione di questi due aspetti in un solo individuo forma il carattere catalano, che si esprime, si condivide e si apprezza. Siamo arrivati al punto: è a questi personaggi dell'arte, della letteratura e della scultura che Barcellona deve il suo posto tra le città leggendarie; a Miró, a Dalí, al malagueño Picasso degli anni giovanili, al mistico e squilibrato Antoni Gaudí. Alcuni di essi diedero vita alla Renaixença, il rinascimento catalano della fine del XIX secolo, che altri, come Antoni Tàpies, mantengono vivo ancora oggi. Questo movimento corrisponde al Liberty in Italia, allo Jugendstil in Germania, al Modern Style in Inghilterra, all'Art Nouveau francese e al Sezessionstil della Vienna imperiale. Nel bar-cabaret Quatre Gats di Barcellona si davano convegno pittori che avrebbero influito profondamente sulla storia dell'estetica contemporanea. Oggi, questo peso culturale convive con un'intensa vita popolare, in un disordine luminoso e barocco tutto mediterraneo. I quartieri popolari della capitale hanno ispirato e fatto da cornice ai lavori di scrittori di tutte le epoche, come Paul Morand, Pierre Mac Orlan, Francis Carco, Ernest Hemingway, George Orwell, John Dos Passos, Pieyre de Mandiargues, Vázquez Montalbán, Eduardo Mendoza, Juan Marsé e molti altri, di cui leggerete le vicende in questa guida ribelle, misteriosa e incompleta (perché esaurire Barcellona è impossibile), e non dubitiamo che vi troverete un ulteriore stimolo a visitare la città dei sortilegi. E se volete godere le delizie dell'anarchia ben organizzata, prego, accomodatevi nella centralissima plaga de Catalunya, ribattezzata plaça d'Islandia, perché è così che la chiamano le migliaia di indignados seguaci di Stéphane Hessel che la occupano giorno e notte. Brulica sempre di gente. Vari viali confluiscono in uno spiazzo dove hanno montato il palco. Circa centomila persone, quasi quanti sono gli abitanti del barri, si fermano nei chioschetti che offrono panini, bibite e assolutamente niente alcol. Ci sono squadre di pulizia, gruppi di animazione, di alimentazione, di azione, d'informazione, di diffusione; hanno organizzato un punto di assistenza legale che risponde ai dubbi degli indignados e di chiunque chieda consigli. C'è perfino un'area dove hanno improvvisato una ludoteca per i bambini; e un mercatino dove la gente scambia quel che le serve, con cucina e tavoli sempre in funzione. Agitano cartelli con scritte come "Quando quelli sotto si muovono, quelli sopra tremano", "Ci pisciano in testa e raccontano che piove", "Non è che ci sono pochi soldi, è che ci sono troppi ladri"; in qualcuno si avverte un'eco nerudiana: "Democrazia, mi piaci perché sei come assente" (uno studente disapprova, quel verso tratto da Neruda non gli piace affatto, cita a memoria con sana approssimazione: "Donna, mi piaci quando dormi perché sei come assente." Gli suona misogino). Cosa succederà? Lo ignoriamo, e nemmeno ci importa più di tanto. Ci interessa quello che sta succedendo. È come un amore nuovo: infinito fin quando dura; un processo che annuncia un tempo possibile. Mica si può impostare tutto come se fosse il bilancio di una banca. E a noi, poi, che importa di quello che dicono i banchieri, che non sanno niente e prendono stipendi da favola? E dopo ogni crisi che scatenano si ritrovano più ricchi di prima, dato che i padroni ricompensano le loro gesta, che consistono nel rovinare il mondo? Invece di fargliela pagare, li premiano. Però mettono dentro migliaia di giovani per un po' di marijuana o per un furtarello. Quando si arriva alla fine di una civiltà, ci si trova all'inizio di un'altra. L'Occidente ha vissuto troppo a lungo in un'illusione di progresso infinito, che è l'idea di Condorcet: la perfettibilità umana non ha limiti. Il progresso è assicurato e la felicità, di conseguenza, pure. Il buffo è che lo disse all'ombra della ghigliottina. Lo fecero fuori un attimo dopo averlo detto. La polizia decide di reprimere la rivolta; non può lasciare che si contesti il sistema, come se poi fosse inalterabile. Gli indignados non sono persone che assediano o colpiscono i politici, ma pretendono da loro rendiconti e spiegazioni. Sono pacifici e sanno che la non violenza può ottenere tutto. Sono quelli che oggi, 19 giugno 2011, mentre scriviamo queste righe, reagiscono ed escono allo scoperto nelle strade di svariate città spagnole ed europee per denunciare l'inazione di molti politici, più occupati a risolvere beghe e contese particolari che non a sollevare la società dalla miseria morale nella quale l'hanno sprofondata l'incompetenza e la negligenza. Sono tutti quelli che hanno condiviso la frustrazione e ora vogliono afferrare la speranza di recuperare diritti essenziali, e tra questi uno trascendente, il diritto alla felicità, e un altro sociale, il diritto a partecipare e a decidere. Oggi, le strade si riempiono d'indignazione, ma di un'indignazione attiva, democratica e pacifica. A questa mobilitazione che occupa le strade e i viali di Spagna, di parte dell'Europa, del Cile e perfino di Israele (a Tel Aviv hanno protestato in 450.000 chiedendo una vita diversa) sono chiamati tutti i democratici che tanto hanno lottato per recuperare una democrazia vera, rimasta segregata durante troppi anni di dittatura e pseudodemocrazia. | << | < | > | >> |Pagina 23PROLOGO
Barcellona è la più grande città d'Europa che non sia capitale di uno Stato;
è anche il luogo dove è concentrato il maggior numero di persone che parlano il
catalano, che è a sua volta la lingua non nazionale più parlata d'Europa. Alla
luce di queste peculiarità, Barcellona è una bizzarrìa europea,
cosa che di per sé rende ragione di una storia bizzarra.
Salve. Questa è una guida storica alla Barcellona ribelle. La storia, almeno per come è concepita oggi, è una disciplina simile alla statistica o ad accessori come il costume da bagno: mettono in evidenza qualcosa di importante, ma spesso nascondono l'essenziale. Scrivendo questa storia, mi sono prefisso di mostrare Barcellona senza costume da bagno. Forse in questo modo la città avrà un aspetto un po' meno accattivante; in compenso però, facendo vedere ciò che il costume nasconde, verrà alla luce qualcosa di più sorprendente e vero. È fondamentale capire che Barcellona esisteva già prima dei Giochi Olimpici del 1992 e che molte delle percezioni che si hanno della città, e che la città ha di sé stessa, nascono da una dinamica specifica, che ha conferito un significato particolare alla ribellione fin dall'inizio della sua storia. La ribellione di Barcellona si è articolata in una serie di tensioni con lo Stato, nate molto presto, quando la città fu annessa a uno Stato iberico. Questo è il principio che regola il libro, la traccia da seguire che ho scovato sotto il costume da bagno barcellonese e in base alla quale ho strutturato le idee del libro. Ho riempito molte pagine - e spero che condividiate la mia scelta - per spiegare come la visione che Barcellona ha della propria ribellione nasca in parte nel Medioevo e al principio dell'Età Moderna, in virtù di un sistema di governo che prefigura la democrazia e tende a svilupparsi verso forme di democrazia evoluta, mettendo la città in contrasto con la monarchia aragonese prima e con la monarchia spagnola poi; questa particolarità ha fatto sì che la città si sentisse unica e depositaria di un patrimonio politico da difendere. Cosa che in effetti fece, talvolta fino alla morte. Ho anche dedicato molto spazio a spiegare come l'originalità ribelle di Barcellona e la sua propensione a entrare in urto con lo Stato risiedano nella sua cultura libertaria, una cultura che la città ha acquisito nel corso di un XIX secolo straordinario. Per contro, è indubbio che la sua ribellione sia stata tra quelle che meno e più tardi hanno attinto al marxismo; e soprattutto l'unica al mondo che abbia visto nascere, nel XX secolo, una rivoluzione anarchica di una certa stabilità e durata, dando anche alla luce, come sostiene Chomsky, alcuni dei testi basilari dell'anarchismo. La tradizione libertaria, troppo imponente e insolita per sparire da un giorno all'altro dalla coscienza collettiva della città (come in effetti sembra sia avvenuto), sopravvive nelle idiosincrasie della sua sinistra indipendentista (ancora oggi incapace di comprendere lo Stato, ma allo stesso tempo desiderosa di creare uno Stato) e in quelle di molte voci della sinistra e della destra moderata che si ostinano a credere che i componenti di una federazione possono negoziare individualmente con lo Stato la propria autonomia politica o persino la forma da imprimere allo Stato nazionale: una cosa che non si è mai vista al mondo, una eventualità inesistente, ma nella quale Barcellona crede ciecamente, come se fosse una regola generale ed eterna. È possibile che, attenendomi a questa idea centrale, abbia trascurato altre tradizioni di ribellione e di attrito con lo Stato, come il catalanismo (che ho cercato di spiegare come una parte del tutto, non come il tutto) o altre espressioni della sinistra non libertaria (che ho cercato di spiegare in base ai rapporti intrattenuti con l'anarchismo, egemonico a Barcellona fino all'altro ieri). Non credo che, per queste omissioni, il quadro storico risulti squilibrato. Se però avete quest'impressione, appoggiatelo pure alle due tradizioni cui ho appena accennato. In ogni caso, è difficile raccontare Barcellona nel modo in cui si tende a raccontare tutto negli ultimi tempi, ossia come uno scontro tra nazionalismi che spiegano la politica quotidiana attuale caricandola di motivazioni storiche. Barcellona, per capirci, non è Catalogna. E non è nemmeno Spagna. In questo senso Barcellona è la cosa più peculiare che si sia mai vista al mondo, perché la sua storia si sviluppa in contrasto con quei due nazionalismi. Soprattutto in contrasto con uno dei due, particolarmente sanguinario e determinante per la storia della città e dell'intera penisola iberica. Ho scelto di concludere il libro con la Transizione democratica spagnola non perché creda che la Transizione segni la fine di tutti i conflitti e la fine della storia, ma perché credo che proprio con la Transizione Barcellona abbia cessato di essere il grande elemento di conflitto nella storia della Spagna. Inoltre, è in questa fase che Barcellona ha cessato di formulare i conflitti nella stessa chiave e con la stessa logica che aveva messo in campo nei secoli precedenti. Non solo, ma ha anche smesso di essere la città nella quale si formulavano i conflitti della Spagna. La formulazione moderna dei conflitti ha poco a che fare con la ribellione e molto con l'urto tra nazionalismi, che non sono facili da definire. Forse i nazionalismi iberici, il grande fenomeno peninsulare degli ultimi trent'anni, sono qualcosa di più che nazionalismi, nella misura in cui sono attraversati da tensioni e inquietudini. In ogni caso, anche se Barcellona ha saputo formulare qualche discorso ribelle sulla situazione attuale, non è riuscita a inserirlo come priorità nell'agenda politica del paese, come in passato era sempre riuscita a fare con ciò che riteneva urgente e importante. Vi lascio al libro. Spero che leggerlo vi faccia piacere; a me ha fatto piacere scriverlo. | << | < | > | >> |Pagina 27Monumento al ribelle sconosciuto
COLLSEROLA, NELLE VICINANZE DEL TIBIDABO
-> 1 (A)
Barcellona è un concetto chiaro. Barcellona è tutto quello che trovi attraversando Barcellona fino a quando arrivi in un altro comune e il vigile che ti multa ha uno stemma diverso sul braccio. Il concetto di ribelle, per contro, non è altrettanto chiaro. Quello della ribellione è un campo semantico nel quale confluiscono atteggiamenti diversi, che vanno dal rifiuto della minestra nel refettorio della scuola fino a prendere bombe sulla zucca dall'aviazione italiana. Come capitò alla zucca collettiva di Barcellona nel corso di tre anni. D'altro canto, è facile sapere da quando esiste Barcellona (esiste da quando un Romano importante decise che lì sarebbe nata una città), mentre è difficile sapere quando i ribelli vi abbiano messo piede per la prima volta. Possiamo tuttavia ipotizzare che vi siano sempre stati ribelli, persone che sono andate a letto senza cena e/o bombardate. C'erano anche prima dell'invenzione del letto, della cena o del bombardamento. A Barcellona abbiamo un monumento che lo testimonia. Se vai dalle parti del Tibidabo, esci dalla strada maestra che porta in cima e cammini per qualche minuto, potrai probabilmente vedere una prova dell'esistenza degli antichi ribelli. Si tratta di una pietra circolare lavorata in epoca preistorica che ha diversi buchi di varia grandezza. Si presume che vi venissero inseriti i visceri delle persone precedentemente sacrificate, secondo la misura corrispondente a ciascun buco. Quando il monumento funzionava a pieno regime, era come un bizzarro centrotavola sanguinante. Una specie di feroce ikebana. Qualcosa di molto iberico, di molto nostrano, come si scoprirà andando avanti con la lettura.
Tornando al nostro discorso, questo manufatto è una versione poetica
dell'indicazione "Voi siete qui"; perché quei buchi nella pietra sono il primo
indizio di ribellione nella città. Se è vero che non c'è ribellione senza morti,
chi può dire che i primi ribelli non siano stati proprio loro, i ragazzi della
pietra?
Ripensandoci, il concetto di Barcellona, che poco fa ho millantato come chiarissimo, non è poi tanto chiaro. Sin dal XII secolo le grandi menti di Barcellona si sono occupate di definirne il territorio ogni volta che hanno avuto a disposizione una pergamena e cinque minuti liberi. Come disse Vázquez Montalbán: "Se vai per il mondo e vedi due persone che parlano di linguistica o di geografia, non sono due linguisti o due geografi. Sono due catalani." In effetti, la definizione dei confini territoriali di Barcellona ha occupato più carta e tempo di quella di qualsiasi altra città del pianeta. Intendiamoci, in linea generale Barcellona ha sempre occupato lo stesso fazzoletto di terra. Con qualche variante. Barcellona, da quando fu così deciso, va da "A monte Cathi [Montgat], usque ad Castrum Felix [Castelldefels], et a Monte Catheno [Montcada] seu loco de Finestrellis et a Coll de Erola [Collserola] et de ipsa Gavarra et de Valle Vitraria [Vallvidrera], et a Villa Molendinorum Regalium [Molins de Rei] Lubricati [de Llobregat] usque ad duodecim leucas infra mare". È come dire che Barcellona va da dove ti pare a dove ti pare. E non basta perché - e in questo ravvisiamo un contributo poetico al sempre tedioso mondo delle frontiere - si addentra per "dodici leghe nel mare". Né più né meno. Anche le tribù guerriere del Sahara solevano stabilire il limite del loro territorio nel mare. Esattamente a dodici onde. Una misura poetica come le dodici leghe. Gli hawaiani vollero fissare le loro frontiere a dodici onde dalla prima scogliera. Come pure gli Indiani d'America. Piccolo appunto: i popoli che insistono a mettere nella definizione dei propri confini la parola "dodici" e poi si spingono oltre e si addentrano nel mare, tendono a perdere per KO qualsiasi scontro per la difesa dei loro confini. | << | < | > | >> |Pagina 31Primi cadaveri documentati
PROMONTORIO DI MONTJUÏC
->2 (C)
Si tramanda che all'epoca della sua fondazione Barcellona fosse terra buona per le patate - che, come la ribellione, esistevano già prima dell'arrivo della patata. Tuttavia, quando i giovanotti romani che fondarono Barcellona cominciarono a mangiare meglio, s'inventarono una fondazione antecedente. Esattamente quattrocento anni prima della fondazione di Roma, la casa madre. Nella fondazione intervengono ben due divinità. Una sola sarebbe stato da poveracci. La faccenda andò così: Ercole (o, se preferite, Eracle) se ne andava per mare tutto tranquillo con Giasone e gli Argonauti; lasciamo da parte che la costa catalana era all'altro capo del mondo rispetto alla Colchide e che, in questa versione della storia, gli Argonauti erano in sovrannumero, per cui non navigavano in un'unica barca ma in dieci. Il caso volle che s'imbattessero in un fortunale e che la flotta si sparpagliasse. Una volta riunitisi, si accorsero che mancava una nave: la nona. Giasone disse a Ercole di andare a recuperarla, di corsa. Ercole, con l'aiuto di Mercurio, la trovò, distrutta dal mare, alle falde di Montjuïc, e vista la straordinaria bellezza del posto, detto fatto, vi fondò una città: Barca Nona, in onore appunto della nona barca. | << | < | > | >> |Pagina 183La repressione urbanistica e l'altra
CIUTADELLA E MERCAT DEL BORN
->41 (C)
Fino a quel momento in caso di sollevazione Barcellona aveva subìto repressioni benevole: si giustiziava un numero ridotto di persone, a titolo di esempio, o addirittura si lasciava correre. Ma stavolta la città si trovava di fronte alla prima repressione sanguinaria e prolungata. Ce ne saranno altre, ma anche questa, per cominciare ad allenanarsi, non era male. Peraltro sotto certo aspetti andò anche bene, se si pensa che Filippo V aveva considerato tra le varie opzioni quella di radere al suolo la città ed erigere una colonna nel bel mezzo delle macerie. La repressione fu totale. Con la promulgazione di un Decreto de Nueva Planta furono cancellate le istituzioni catalane e delle città principali. Barcellona perse il Consiglio dei Cento e passò sotto l'autorità di un Ajuntament, una giunta comunale noiosa e verticista, perché era nelle mani dell'aristocrazia filoborbonica. Il catalano fu bandito da qualsiasi documento e atto formale, e il suo uso venne praticamente confinato alla catechesi nelle aree rurali. Sparì l'università. La trasferirono a Cervera, un comune lontanissimo da Barcellona ma devoto dalla prima ora a Filippo V di Borbone. E si diede il via ai delitti politici, con o senza processo. Come monito, il cranio di un ufficiale fedele alla casa d'Austria rimase esposto alle porte di Barcellona per una ventina d'anni. Ma soprattutto, fin dall'inizio, e in una forma imponente e prolungata, venne attuata una repressione di tipo urbanistico, che ebbe il suo cardine nella costruzione di una cittadella militare accanto alla città. Con quella struttura e con il castello di Montjuïc, Barcellona si ritrovò tra l'incudine e il martello. Era una città racchiusa da mura difensive e controllata da due fortezze. La costruzione della Cittadella permise un'ulteriore dimostrazione di forza, e cioè la demolizione di un intero quartiere, la Ribera: oltre 2.000 abitazioni cancellate, in una zona che mi dicono bellissima e famosa per le sue piante di limone. La Cittadella aveva l'ambizione di essere la più grande d'Europa, di modo che il barcellonese che la guardava si sentisse piccolo e impotente. Le mura perimetrali furono completate in quattro anni, e poi si cominciò a costruire l'interno. Dell'interno restano solo quattro edifici. Uno era la santabarbara della fortezza e oggi ospita il parlamento della Catalogna, probabilmente l'unica istituzione di questo tipo al mondo ad avere pareti spesse due metri. In passato, verso la fine dell'800, fu utilizzato per un breve periodo come palazzo reale. L'altra costruzione è il palazzo del Governatore. Attualmente è la sede di alcune facoltà universitarie, non so quali. È rimasta anche la cappella, che continua a fare il suo mestiere. La Cittadella incorporò anche una torre barocca costruita in precedenza. Un fulmine la spaccò in due nel XVIII secolo, conferendo una forma caratteristica alla silhouette della fortezza. Sembrava la casa degli Usher. La torre fu usata come carcere. Tra centinaia e centinaia di barcellonesi, vi fu rinchiuso Casanova. Il tapino era venuto in Spagna con l'intenzione di vendere a Carlo III una sua idea: la lotteria. Non cavò un ragno dal buco e, sulla via del ritorno, cercò di approfondire i rapporti con una cantante italiana conosciuta a Valenza. Era l'amante del capitano generale di Catalogna, e Casanova finì nella torre. Nella sua autobiografia, l'uomo che era fuggito dai Piombi, la terribile prigione veneziana, e che non riuscì a fuggire dalla Cittadella, fece un ritratto malinconico di Barcellona. Una volta libero non volle più saperne della Spagna, ma vi lasciò la sua invenzione: potete conoscerla anche voi, partecipando ogni settimana alle estrazioni della Lotería Primitiva. | << | < | > | >> |Pagina 271Anarchismo, ribellismo e ismi in generaleELS QUATRE GATS, CARRER DE MONTSIÓ ->68 (C)
MUSEU PICASSO, CARRER DE MONTCADA
->69 (C)
Il pittore Ramon Casas ha colto e ci ha lasciato tre immagini collegate a questo periodo di bombe. Sono quadri stupendi, particolareggiati e ricchi di sfumature. Evocano una Barcellona nuvolosa, senza palme, dura. Rappresentano una processione del Corpus Domini (come quella interrotta dalla bomba), una esecuzione capitale in piazza (come quella riservata a Santiago Salvador) e una carica della Guardia Civil, un quadro dove, per la prima volta dopo Goya, compare una folla, ma in questo caso una folla terrorizzata che corre senza direzione. Questi quadri, legati alla cronaca barcellonese, spiegano anche cosa stava accadendo in città sul piano intellettuale: Barcellona è impressionista. Si è aperta alle avanguardie del '900, non si rivolge più all'Italia ma a Parigi. Barcellona, che era stata il ponte tra l'Italia e la penisola iberica, fa ora da ponte con la Francia e le avanguardie europee. Continuerà a farlo fino agli anni '30 e, dopo la parentesi repubblicana, tornerà a farlo fino agli anni '70. Ramon Casas è forse il primo grande artista di successo internazionale di Barcellona. In precedenza, lo era stato Fortuny, un pittore di scuola italiana. Casas invece prese come riferimento la Francia, e anche un po' gli Stati Uniti. Figlio dell'altissima borghesia cittadina, non disdegnò la ricchezza della famiglia, ma la investì nelle ultime tendenze e nell'impegno estetico dell'epoca. Appartenne a un gruppo di artisti della stessa stoffa, come Santiago Rusinol (pittore e scrittore in catalano, che lasciò opere fondamentali, in cui descrive una società nella quale non vale la pena di integrarsi) o come Miquel Utrillo, pittore e illustratore. In quel periodo operano diversi gruppi intellettuali e artistici di diversa matrice ideologica (dall'area anarchica al catalanismo moderato o di sinistra), ma uniti dallo sperimentalismo modernista. Scrivevano in catalano o usavano il catalano nei loro rapporti personali. Crearono un teatro impegnato che si rifaceva a Ibsen, un'architettura modernista che prendeva le mosse dal gotico catalano, una poesia catalana legata al simbolismo francese e una nuova prosa d'arte in catalano, una lingua che ancora difettava di regole ortografiche e grammaticali precise. Furono, soprattutto, i protagonisti di un fenomeno unico al mondo: il recupero, da parte della cultura alta, di una lingua che non solo non era ufficiale, ma sarebbe stata ufficialmente proibita fino al 1904, e con la quale nessuno aveva scritto qualcosa di significativo dopo il XV secolo. Probabilmente, non è accaduto niente di simile fino al recupero dell'ebraico in Israele, con la differenza che questa operazione è stata incentivata dallo Stato, mentre Barcellona ha recuperato la propria lingua andando contro lo Stato. Il gruppo degli amici di Casas era davvero divertente. In quanto a stile di vita non si distinguevano granché da altri gruppi più o meno legati all'operaismo, ma in quanto a tenore di vita si distinguevano eccome. Andavano e venivano continuamente da Parigi, le provarono tutte. Furono i primi morfinomani ufficiali di Spagna e i primi spagnoli a disintossicarsi in una clinica specializzata. Furono protagonisti di bizzarre avventure, come un giro della Catalogna fatto su un carro, improvvisando performance nelle cittadine che trovavano lungo il percorso. Una volta, in un paese, videro che era giorno di mercato. Allora montarono una bancarella e offrirono in vendita monete da cinque pesetas a quattro pesetas. Non ne vendettero nemmeno una, a conferma della diffidenza del popolo verso la filosofia dell'arte per l'arte. In un'occasione Rusiñol, spinto dalla famiglia che voleva che quel vagabondo si facesse una posizione, accettò di presentarsi alle elezioni in una lista della Lliga Regionalista. Nell'unico comizio che tenne, in un paese lontano da Barcellona, promise, come facevano tutti i candidati, che se avessero votato per lui avrebbe costruito un ponte. Il pubblico gli fece notare che il villaggio non aveva un fiume. Lui, allora, promise che avrebbe costruito un fiume. Dovette scappare di corsa. Casas, Rusiñol e Utrillo ricrearono a Barcellona un angolino di Parigi. Era un'imitazione ben concepita, adattata e migliorata del cabaret Le Chat Noir. Si chiamava Els Quatre Gats, un bar cabaret che fu il punto d'incontro delle tendenze più avanzate dell'epoca. Tendenze peraltro malnutrite, nel caso non provenissero da una famiglia d'industriali. Questo locale, un vero mito barcellonese, fu aperto dal 1897 al 1903. Oggi, nella stessa strada, c'è una reinterpretazione di quella reinterpretazione. Vi si tennero dibattiti intellettuali di ogni genere e vi si promossero nuove esperienze estetiche. Qui assursero a dignità artistica generi ritenuti minori, come la cartellonistica, la decorazione e l'illustrazione grafica. Al Quatre Cats, a proposito, espose un giovanissimo Picasso, quando era un virtuoso pittore accademico ancora privo di una precisa personalità artistica. Picasso fece i suoi primi viaggi a Parigi con l'aiuto del gruppo di Casas e Rusiñol, punti di riferimento di tutta la Barcellona bohémienne del momento. Poco dopo si stabilì a Parigi, si legò agli esponenti delle avanguardie; forse fu per questo che, allo scoppio della Grande Guerra, molti artisti francesi verranno a rifugiarsi a Barcellona, portando di colpo l'avanguardia francese in città. A Parigi, il giovane Picasso iniziò una carriera artistica unica che avrebbe cambiato il mondo. Fu lì che concepì il cubismo. Lo fece conoscere attraverso un quadro dal titolo Les demoiselles d'Avignon, che non rappresenta, come molti pensano, l'interno di un bordello di Avignone, ma cinque ragazze di un postribolo di carrer d'Avinyó, a Barcellona, dove i frequentatori del Quatre Gats andavano quando avevano tempo e denaro. Associato eternamente all'avanguardia e all'esilio, verso la fine dei suoi giorni Picasso espresse al suo segretario il desiderio di fondare un suo museo in Spagna. "A Malaga?" chiese il segretario, pensando alla città natale del pittore. Ma Picasso rispose: "Cosa c'è di così speciale a Malaga? A Barcellona:" Picasso intrattenne in effetti un rapporto stranamente intenso con Barcellona, che lo portò a decorare la sua ultima casa usando la bandiera catalana come tappezzeria per poltrone e tende. Quali che fossero i sentimenti di Picasso verso Barcellona, oggi la città ospita, in un palazzo gotico (più esattamente, in due palazzi gotici) di carrer de Montcada, l'unico museo che Picasso fondò, organizzò e dedicò a sé stesso. Una visita che raccomando. | << | < | > | >> |Pagina 281La Settimana Tragica
CASA MILÀ, PASSEIG DE GRÀCIA
->72 (B)
Per definizione, un operaio anarchico e un gentiluomo di destra non sono la stessa cosa, anche se sono entrambi catalani. È peraltro verosimile che abbiano qualcosa in comune. Ad esempio, i loro figli possono rappresentare insieme lavori di Ibsen o ubriacasi d'assenzio al Quatre Gats, a disdoro delle loro famiglie: eventualità statisticamente rare, ma comunque possibili nella Barcellona dei primissimi anni del '900. Nondimeno, in breve tempo, nemmeno i figli di questi due soggetti sociali staranno più insieme. Barcellona, una città che fin dal Medioevo aveva avuto cura di preservare razionalmente la propria coesione, si dividerà in due fronti contrapposti e l'un contro l'altro armati. Accadrà nel 1909, nell'arco di appena una settimana: la Settimana Tragica, che separerà i movimenti operai dal catalanismo moderato creando una lacerazione che per certi aspetti si salderà con l'avvento del franchismo, e per altri mai più. A Barcellona c'è tensione. Dopo un XIX secolo nel quale il movimento operaio non ha conquistato assolutamente nulla, nel febbraio del 1902 diventa evidente che la situazione del mondo dei lavoratori è veramente allarmante. Quell'anno viene convocato uno sciopero generale di matrice chiaramente anarchica. Finisce con violenti scontri con la Guardia Civil e l'esercito. Bilancio: alcune centinaia di arresti, un centinaio di morti e il movimento anarchico in ginocchio. Nel luglio del 1909, forse più per disperazione che per convinzione, il movimento anarchico gioca una carta che, come tutto quello che arriva a Barcellona in quegli anni, viene dalla Francia: lo sciopero rivoluzionario. Ferrer i Guàrdia, di cui parleremo, ne introduce il concetto in Spagna attraverso la rivista "La Huelga General" (Lo sciopero generale), di cui si sobbarca interamente le spese, incamminandosi sulla strada che lo porterà davanti al plotone d'esecuzione. Così si convoca uno sciopero generale per il 26 luglio, per protestare contro la chiamata alle armi di riservisti da inviare nel protettorato del Marocco, dove la situazione sta evolvendo in modo disastroso per la Spagna (ricordiamo che Barcellona vantava una radicata tradizione di opposizione alla coscrizione obbligatoria). Naturalmente, la protesta è rivolta anche contro il governo, all'epoca diretto da Maura. È uno sciopero nebuloso, strano, molto spontaneistico, di cui Solidaridad Obrera (il nucleo originario catalano della futura CNT) rifiuta di assumere la direzione. In effetti, come vedremo, nessuno vuole prendere le redini dello sciopero, a parte i suoi disperati e anonimi protagonisti. Dunque, visto che nessuna organizzazione e nessun nome politico di spicco avalla l'iniziativa, si forma un comitato direttivo di sciopero composto da un socialista, un libertario vicino a Ferrer i Guàrdia e un anarchico. Comunque, non sembrano esserci motivi di particolare preoccupazione dato che, nelle intenzioni, la manifestazione dovrebbe durare ventiquattro ore. Nel primo giorno, gli scioperanti tentano di convincere i soldati a non imbarcarsi per l'Africa. La situazione inizia a movimentarsi poco dopo, quando un gruppo di anarchici tenta di occupare un commissariato. I repubblicani, il cui unico fine era la proclamazione della repubblica, cominciano a defilarsi, per cui l'area anarchica vede profilarsi la possibilità di avviare una rivoluzione sociale, posto che si agisca con determinazione. La redazione della rivista anarchica "Tierra y Libertad" diviene la centrale di coordinamento dello sciopero e ordina l'occupazione delle fabbriche; ma gli industriali hanno giocato d'anticipo, attuando la serrata degli stabilimenti. Gli operai restano fuori dai cancelli. Paradossalmente, la serrata sembra contribuire al successo dello sciopero. I negozi sono chiusi, le fabbriche ferme e, se non bastasse, quelli dell'esercito rifiutano di sparare contro la folla, contro gli operai in strada, con i quali hanno solidarizzato. Ma, giunti a questo punto, non c'è nessun programma da seguire e, come in tutte le ribellioni barcellonesi, nel dubbio si fa quel che si è sempre fatto: si appicca il fuoco agli uffici del dazio e si erigono barricate. Di lì a poco cresce il livello creativo della rivolta, e vengono divelti i binari dei tram, attaccati i posti di polizia, liberati i detenuti e incendiati gli archivi. Il capitano generale di Catalogna spiega in città millequattrocento soldati, iniziano ovunque scontri a fuoco con gli insorti, che usano le armi sottratte alla polizia. Quello che era cominciato come uno sciopero generale diventa una rivoluzione armata. Viene dichiarato lo stato di guerra. Il comitato di sciopero vede accadere tutto questo e non sa che decisioni prendere. La città è sull'orlo di una rivoluzione che nessuno ha previsto. Si va all'affannosa ricerca di leader: viene interpellato il Partito Repubblicano Radicale di Alejandro Lerruox, che se ne lava le mani. Si chiede a ogni partito, si offre la direzione ai repubblicani, ai catalanisti di sinistra, a tutte le organizzazioni della Catalogna, ma nessuno vuole assumersi la responsabilità. E intanto, la sommossa cresce. Vengono occupate le stazioni ferroviarie, smantellate strade, tagliate vie di comunicazione. Alla fine Barcellona rimane isolata e, secondo il suo tradizionale modello rivoluzionario, non ha capi, non ha coordinate politiche e non ha orientamento. Un fatto emblematico: un folto gruppo di operai si raduna davanti a una scuola di padri mariani, il Patronato Obrero del Poble Nou e, senza pensarci troppo, appicca il fuoco all'edificio. Le riviste e i giornali di Madrid comunicano al mondo che a Barcellona è in atto un tentativo separatista, e non possiamo escludere che lo credessero davvero. Comunque, il comitato di sciopero si pronuncia, dichiarando che la rivolta è una rivoluzione che vuole estendersi a tutta la Spagna con lo scopo di abolire la monarchia. Nella città ci sono già centinaia di barricate. Ma anche la diserzione dei politici di sinistra è clamorosa. Lo stesso Ferrer i Guàrdia si allontana da Barcellona, forse alla ricerca di un comitato direttivo che venga a prendere le redini della rivoluzione. La piazza ribolle di energia, ma non c'è chi sappia o voglia incanalarla. In assenza di proposte più serie, si opta per la traduzione in pratica delle parole d'ordine di Lerroux, che infilava incendi di chiese in ogni discorso. Si inizia col bruciare i conventi. Il 27 luglio, nel giro di un'ora e mezza, si danno alle fiamme almeno sette istituti religiosi in diversi quartieri. Il distretto di Gràcia comunque non perde la bussola rivoluzionaria e, trascurando l'ondata anticlericale, in quei momenti tiene testa a viso aperto all'esercito nelle strade e riesce a fermare i soldati. Dicono di battersi per la repubblica e verso sera, in effetti, si forma un enorme assembramento in plaga de Sant Jaume. La gente aspetta che l'Ajuntament proclami la repubblica. Ma le ore passano e nessuno proclama niente. I politici non si arrischiano a fare il grande passo. Alla fine, in quella che forse fu l'ultima occasione per dare un orientamento concreto alla rivolta, la folla comincia a disperdersi. E a dedicarsi, a gruppi, all'unica cosa che rimane da fare: l'incendio dei conventi. Gli insorti danno fuoco a 26 edifici religiosi nel centro e ad altri 8 nei sobborghi. Il giorno dopo Barcellona brucia. Trentamila cittadini presidiano le barricate. Viene perfino occupata una caserma. Qualcuno comincia a sparare contro le barricate dalle sedi di istituzioni religiose (curiosa immagine, quella dei cecchini in saio o in tonaca); in risposta, vengono incendiati altri conventi. Questi incendi di conventi, alla fine, allontanano dalla rivolta non solo la classe media, ma anche ampi settori della classe operaia. Dopo quella data la rivolta, che non riesce a evolvere in rivoluzione per mancanza di appoggio da parte della classe politica, perde slancio, si diffonde un senso di scoraggiamento. Tutto si placa così com'era esploso. Nondimeno, con un gesto che fa chiaramente capire la paura provata dai ceti alti della città, quando tutto finisce i proprietari delle fabbriche pagano l'intera settimana lavorativa ai loro operai. Con la città nelle mani dell'esercito, la repressione comincia a fare il suo corso sotto forma di arresti, di scioglimento di organizzazioni operaie e scuole laiche e di sospensione di alcune garanzie costituzionali fino a settembre. Bilancio: 12 chiese, 40 conventi e 33 scuole religiose bruciati; 119 morti, di cui otto tra militari e poliziotti e tre religiosi. Pochi uomini di Chiesa, per poter affermare che la Settimana Tragica sia stata una sollevazione anticlericale. Forse arrivò a esserlo solo per l'assenza di leader politici. A richiamare maggiormente l'attenzione europea (anche in questa circostanza Barcellona entra di nuovo nell'immaginario internazionale) fu l'impressionante numero delle barricate: più di cinquecento, che può dare un'idea della partecipazione cittadina alla lotta. Mezza città era terrorizzata. L'altra metà lo sarebbe stata di lì a poco dalla repressione militare. Quella paura lasciò a Barcellona un'importante traccia architettonica (oltre, naturalmente, agli edifici religiosi incendiati): la Casa Milà di Gaudí, detta la Pedrera (cava di pietra), nel passeig de Gràcia. Da giovane Gaudí era stato repubblicano federalista e anticlericale, ma poi aveva seguito un percorso di conversione che lo aveva portato ad aderire al cattolicesimo con fede assoluta e sincera. La sua dimensione religiosa, che viveva con profonda dedizione - al punto da sottoporsi a pesanti rinunce e penitenze - si rifletté su parte della sua opera e della sua simbologia. Era approdato a questa visione spirituale quando progettò la Pedrera. Si tratta di un edificio che coniuga una straordinaria originalità a una ricerca unica di effetti volumetrici (si racconta che i lavori venissero seguiti quotidianamente da numerosi cittadini, sorpresi che quell'incomprensibile fabbricato restasse in piedi), un edificio nella cui decorazione esterna doveva predominare il simbolo della croce. Accadde che il signor Milà, preoccupato da tutte le chiese e i conventi in fiamme che aveva visto, decise di fare a meno dei servizi ornamentali e spirituali della croce. Quella decisione comportò la rottura tra lui e l'architetto ma, probabilmente, protesse il fabbricato dagli incendi. Basti pensare che, nel 1936, diversi edifici liberty su cui si vedeva una croce furono distrutti o privati della croce stessa con metodi spicci, come capitò all'Hospital de Sant Pau. Con la fine della Settimana Tragica, finì anche l'idillio che la città andava intrattenendo da alcuni decenni con l'anarchismo, una cosa apparentemente divertente che, se veniva portata all'ebollizione, scottava, e molto. Barcellona restò divisa in due gruppi contrapposti, senza che emergessero interlocutori in grado di sanare quella frattura. Le due Barcellone si temevano, e la Barcellona ricca non avrebbe perdonato né avuto pietà. Quando tutto finì, Joan Maragall pubblicò un articolo su "La veu de Catalunya", la rivista del catalanismo moderato per la quale curava una rubrica molto letta in città. In quella occasione Maragall esortava le autorità a un atteggiamento di pietà e perdono verso i detenuti e la classe operaia. Si ritrovò isolato. I futuri opinion makers locali, come Eugeni d'Ors, non cercheranno più un dialogo con l'anarchismo: lo tratteranno apertamente come un nemico del loro progetto catalanista moderato. A Barcellona, in quel momento, con la situazione tornata sotto il pieno controllo delle autorità militari, non c'era spazio per il perdono e la pietà. Vennero incarcerate 1.725 persone e ne furono giustiziate cinque. Tra queste ultime, un povero scemo di paese che, invece di andare a passeggio per la Rambla, s'era messo a ballare con la mummia di una monaca che alcune donne avevano sottratto da una cripta. Uno dei condannati a morte fu Ferrer i Guàrdia, accusato di essere l'istigatore e il leader di una rivoluzione che, notoriamente, non aveva voluto capeggiare. | << | < | > | >> |Pagina 401Ci sono donne e uomini nudi; poi, non ci sono più
CAFÈ DE L'ÒPERA E TEATRE CÚPULA VENUS, RAMBLES
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A partire dagli anni '60, Barcellona cominciò a essere il centro della cultura pop della Spagna. Non sarà stata il massimo, ma la mia impressione è che il franchismo fosse talmente soffocante che perfino la cultura di massa poteva avere il valore di una provocazione. Pau Malvido, fratello di Pasqual Maragall e autore rappresentativo della controcultura degli anni '70, ha detto che è di fronte a cose grigie, cupe e chiuse come quella società che la gente, per sopravvivere, si aggrappa ai più stupidi passatempi, come ad esempio riparare vecchie radio. Forse è così che, progressivamente, a Barcellona si forma un'importante cultura popolare moderna del tempo libero, che doveva essere già molto radicata nel '64, quando per la prima volta viene chiuso un bar (il Tokyo) per consumo di droghe. Pochi anni dopo, il grande fotografo Xavier Miserachs conosce una modella mozzafiato che fa uso di una cosa nuova da queste parti, che si chiama eroina. Le sale da ballo popolari, che fino agli anni '70 sono dominio incontrastato della Falange (ogni notte, i locali chiudono al suono dell'inno nazionale), si aprono ai nuovi ritmi. E diventano anche luoghi di contestazione. A titolo di esempio, un fatto della fine degli anni '60. Davanti al Novedades si forma un grande assembramento di apprendisti operai di 14 anni, che presto si trasforma in una vera manifestazione. Non li lasciano entrare perché sono troppo giovani, e loro urlano slogan come: "Se a quattordici anni ci fate lavorare / a quattordici anni lasciateci ballare!" Non li fanno entrare lo stesso, ma in compenso la polizia li carica di brutto come se fossero adulti forzuti. Nell'Empordà, la zona di villeggiatura dei barcellonesi, l'imprenditore Oriol Regàs fonda la prima discoteca moderna di Spagna, con dispendio di luci e musica non stop: il locale ha nome Bocaccio e fa impazzire la Barcellona colta e all'avanguardia, affermandosi molto presto come centro di aggregazione di quella che viene chiamata gauche divine, un bel nome per designare i liberi professionisti dell'arte e dello spettacolo in un paese con un mercato così precario che un libero professionista poteva anche essere un morto di fame. E, sempre negli anni '70, fioriscono locali come Zeleste, dove i ragazzi bene in vena di trasgressione (la cosiddetta pijeria canalla) e i tamarri che imitano i ragazzi bene (el charnego power) vivono i movimenti alternativi e il nuovo modo di ascoltare e fare musica. La cultura di massa, questa cultura che tende all'intensificazione della felicità, a lanciare messaggi gradevoli e incoraggianti, esplode negli anni '70, e ancor più con la Transizione. Nel periodo che va dal 1975 al 1981, Barcellona è tutta una vera follia, una follia che si percepisce ovunque, soprattutto nella Rambla, dove regna un costante spirito di libertà e baldoria. Un testimone dell'epoca (che manterremo anonimo, per i motivi che vedremo più avanti) mi ha spiegato il concetto di libertà e baldoria alla barcellonese. Dunque, quando non avevi niente da fare, dovevi andare al Cafè de l'Opera, un locale concepito negli anni '30 per il pubblico del Teatro Liceu ma divenuto col tempo luogo di ritrovo dei nostalgici di Santiago Salvador, che aveva intrattenuto un rapporto particolarmente intenso con i frequentatori di quel teatro. Ti sedevi e aspettavi che succedesse qualcosa. Succedeva sempre qualcosa. Il testimone anonimo mi racconta che, ad esempio, arrivava uno sconosciuto per dire che in un certo posto c'era una gran festa aperta a tutti. Subito saltava fuori un altro che aveva un furgone o un pulmino e si offriva di portare lì chiunque volesse andare. Si partiva in massa. La baldoria poteva durare diversi giorni. Un dato importante: il corpo e la sua felicità avevano un ruolo predominante in questo clima di infinita disponibilità alla festa eccessiva. Il mio testimone anonimo racconta che un giorno di trenta e passa anni fa se ne stava al famoso Cafè de l'Opera. A un certo punto compare Ocaña (uno di quelli della performance interrotta nelle Jornadas Libertarias), pittore, omosessuale e simpatizzante del movimento anarcosindacalista. A volte Ocaña, in compagnia di altri omosessuali della sua cerchia, andava a spasso per la Rambla in mutande o anche senza, come se niente fosse, e tutti si godevano lo spettacolo. La novità del giorno, del giorno di cui parla il testimone, è che il pittore si è fidanzato con un giovane russo. È il figlio di uno spagnolo che vive in Unione Sovietica; il giovane, che spiccica appena qualche parola in castigliano, viene subito ribattezzato "il figlio di Mosca". Ocaña, il giovanotto russo e il testimone anonimo scoprono presto di avere le stesse idee sull'impiego del tempo libero, per cui raggiungono l'appartamento del pittore e giocano a una variante a tre e senza donne del gioco del medico e dell'infermiera. In un attimo di pausa, il mio testimone dice a Ocaña di non possedere nessun quadro dipinto da lui. Allora Ocaña versa dei colori in polvere in un piatto. I tre riprendono la partita e, al momento opportuno, il pittore raccoglie il suo sperma, quello del testimone e quello del figlio di Mosca (il futuro nipote di Mosca?) e, usandolo come agglutinante per i colori, dipinge rapidamente una composizione, che il testimone esibisce nel suo soggiorno. Vi si vedono diversi membri maschili. Il fiero proprietario ci tiene a dire che il soggetto del quadro "avrebbe potuto essere raffigurato prima, ma con quel tipo di agglutinante solo in quegli anni". Sempre in questo periodo, Ocaña, il testimone anonimo, quelli del Bocaccio, i ragazzi bene trasgressivi che si fingono proletari, i proletari che si fingono ragazzi bene trasgressivi, i nostalgici di Salvador, quelli del PSUC e quelli del PSC frequentano un altro locale sulla Rambla, la Cúpula Venus, un cabaret che si trova nella sala per fumatori dello storico Teatre Principal (che sarà riscoperto quando Bigas Luna vi ambienterà alcune scene del suo primo film). In quel cabaret alternativo muovono i primi passi artistici José (Pepe) Rubianes, maestro di satira e mimo, Loles León, una delle attrici fisse di Almodóvar, e soprattutto la stella del locale, Christa Leem, ex cantante del Molino, dotata di uno straordinario talento naturale per lo strip-tease. Nata da una famiglia di circensi, priva di qualsiasi formazione artistica, faceva esplodere il pubblico non appena accennava a togliersi qualcosa di dosso. Il poeta Joan Brossa era un suo ammiratore e la diresse in diversi numeri, davvero bellissimi, che preparò per lei. Sera dopo sera, i barcellonesi affollavano il locale: ci trovavano qualcosa che ricordava loro lo stile di vita della città, il suo modo di fare politica, il sogno di riorganizzare lo Stato quando, dopo la mitica "rottura"; la democrazia sarebbe stata una realtà e Barcellona sarebbe tornata capofila del movimento della politica alternativa in Spagna. "Avevamo problemi di sicurezza" mi dice Joan Estrada, animatore e impresario del locale. "Mancava un'uscita di emergenza, e la polizia ci faceva chiudere continuamente. Allora, io andavo a trovare la responsabile del Ministero della Cultura di Barcellona, che poi era la madre di un mio ex compagno di scuola, facevo il pianto e ci davano il permesso di riaprire." Chiedo a Joan come finì tutto quello, pensando allo spirito di un periodo, non al suo cabaret. Lui fraintende e mi parla del locale: "Lo ha chiuso la convergenza politica, la fine dello spirito di opposizione. La cultura diventò una cosa dello Stato, che sovvenzionò quello che gli piaceva e chiuse quello che non gli piaceva." Involontariamente, ha risposto anche alla mia domanda. Il sipario della Transizione si abbassò quando la cultura si trasformò in un dipartimento dello Stato. Madrid, su impulso dello Stato, ha prodotto la movida. Barcellona, su impulso dello Stato, ha prodotto cose per i turisti: sardane, balls de bastons e trabucaires.
La cultura cessò di essere la logica del conflitto e il conflitto diventò
prerogativa degli incolti. Barcellona, una città fondata dai Romani, una città
orgogliosa, che ha attraversato la storia con una certa guasconeria, finì in
quel momento come Madrid, come Guadalajara, come quello che non sopportava di
essere: come qualsiasi altra città spagnola. E cominciò a trasmettere, per la
prima volta, la musica che si suonava in qualsiasi altra città spagnola: la
musica insulsa che si sente incessantemente nei supermercati, nei
negozi alla moda, dappertutto, che serve a riempire il silenzio, a non far
pensare, a non esprimere conflitti.
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