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| << | < | > | >> |Indice1. Venezia capitale del libro 9 2. Aldo Manuzio, il Michelangelo dei libri 33 3. Il primo Talmud 47 4. Il Corano perduto 61 5. Armeni e greci 81 6. Vento dell'Est 99 7. La Terra e la guerra 107 8. L'editoria musicale 127 9. La cura del corpo: medicina, cosmesi, gastronomia 143 10. Pietro Aretino e la nascita dell'autore 159 11. La decadenza, il ritorno e la fine 169 Ringraziamenti 189 Bibliografia 191 Indice dei nomi 197 Indice dei libri citati 205 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Se oggi XXI secolo vogliamo andare da Rialto a San Marco percorriamo una strada chiamata Mercerie. Dalle vetrine dei negozi occhieggiano i beni per cui l'Italia va famosa: scarpe, abbigliamento, borsette e un po' di gioielli. Gucci ha un suo punto vendita e si ammira anche un rossissimo Ferrari shop con in mostra un autentico bolide di Formula 1. Se facessimo un viaggio nel tempo e percorressimo quella stessa strada nel 1520 la riconosceremmo senza difficoltà: in cinque secoli è cambiata poco e soprattutto è rimasta identica la sua vocazione commerciale. Se oggi le Mercerie sono una vetrina del made in Italy, allora lo erano del made in Venice che, fatte le proporzioni, era ben più importante: se ora l'Italia è la sesta o settima potenza industriale del mondo, mezzo millennio fa Venezia stava sul podio. Nell'Europa di quel tempo c'erano soltanto tre megalopoli, tre città che superavano i centocinquantamila abitanti: Venezia, per l'appunto, Parigi e Napoli. Che cosa quindi avremmo potuto trovare nei negozi che spesso erano anche laboratori e abitazioni delle Mercerie cinquecentesche? Stoffe, per esempio, ovvero i tessuti splendidamente tinti di rosso per cui Venezia andava famosa, colorati grazie a segrete ricette ereditate dai bizantini. Oppure cuoi-oro, ovvero pannelli di cuoio sbalzati e decorati con foglia d'oro utilizzati per abbellire le pareti interne dei palazzi, lavorati grazie alle tecniche apprese dalla Spagna moresca che a sua volta le aveva ereditate dagli arabi. O ancora armi, tantissime armi: contese e agognate da ricconi e sovrani di mezza Europa, incapaci di andare a combattere se non costosissimamente abbigliati di ferraglia made in Venice. I nomi di un paio di strade lì vicino, Spadaria (da spada) e Frezzaria (da freccia), ancor oggi ci parlano di quell'antica vocazione. Ma ciò che soprattutto colpiva il visitatore straniero erano i libri: le decine e decine di botteghe librarie che avevano qui una concentrazione ineguagliata altrove in Europa. Abbiamo notizia di autentici tour di shopping, come quello descritto dallo storico Marcantonio Sabellico (che sarà beneficiario della prima forma conosciuta di copyright) quando due amici si muovono dal fontego dei Tedeschi, ai piedi del ponte di Rialto, diretti a San Marco e non riescono ad arrivare alla meta, divorati dalla curiosità di leggere le liste di libri affisse fuori delle botteghe (fontego in veneziano voleva dire magazzino; il fontego dei Tedeschi tutt'ora esistente, così come quello dei Turchi era il luogo dove alloggiavano, tenevano le proprie merci e gestivano gli uffici i mercanti, prevalentemente di lingua tedesca, provenienti dall'Europa centrale). Nemmeno la Germania di Gutenberg, dove la stampa a caratteri mobili era stata inventata più o meno sessantacinque anni prima, tra il 1452 e il 1455, era in grado di intaccare il primato: a Venezia, nella prima parte del Cinquecento, si stampava la metà di tutti i libri pubblicati in Europa. E il primato non era solo quantitatívo, ma anche qualitativo, «per la ricchezza e la bellezza dei volumi che i suoi stampatori producevano». Senza l'editoria veneziana di quel secolo non esisterebbero il libro come noi lo conosciamo e nemmeno la lingua italiana come la parliamo oggi. L'italiano è sì basato sull'opera dei toscani Dante e Petrarca, ma sono le edizioni veneziane curate dall'umanista Pietro Bembo e stampate dal re degli editori, Aldo Manuzio (di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo), a imporne il successo che dura ancora ai nostri giorni. | << | < | > | >> |Pagina 33La pittura ha Raffaello, la scultura Michelangelo, l'architettura Brunelleschi, la stampa Aldo Manuzio. Anche se la sua figura è meno conosciuta al grande pubblico di quella dell'autore del David, Manuzio è un genio assoluto, un innovatore, un rivoluzionario; un punto di svolta della storia. Dopo di lui l'editoria sarà irrevocabilmente diversa da com'era prima. Ancora ai nostri giorni conviviamo con le sue intuizioni. Ci vorrà, forse, il libro elettronico per mandarle in soffitta. Avete presente il libro tascabile? L'ha inventato Manuzio. E il corsivo (che non a caso in inglese si chiama italic)? Opera di Manuzio. I best seller? Manuzio è stato il primo a stamparli. Come già ricordato, ha fatto vendere a Petrarca, che ormai era morto e sepolto da un secolo e mezzo, la siderale cifra di 100.000 copie (non solo nella sua edizione, ovviamente). 100.000 copie sono un grande successo ai nostri giorni, figuriamoci all'inizio del Cinquecento. E, visto che c'è, rivoluziona pure l'uso della punteggiatura, diventando il padre del punto e virgola: è il primo a usarlo, su suggerimento dell'umanista Pietro Bembo, trasportandolo dal greco al latino e al volgare, aggiungendoci anche apostrofo e accenti. Aldo Romano (così si firmava in ricordo della sua origine laziale) è il primo a concepire il libro come svago: inventa il piacere di leggere. Una vera e propria rivoluzione intellettuale trasforma uno strumento usato per pregare o per apprendere in un mezzo utile a trascorrere in levità porzioni di tempo libero. Aldo è anche il primo editore in senso moderno: negli anni precedenti a lui gli stampatori erano rudi operai del torchio, spesso ignoranti, interessati al libro come oggetto commerciale, prova ne sia la quantità di errori con cui erano infarcite le edizioni antecedenti l'era Manuzio. | << | < | > | >> |Pagina 42La diffusione del carattere corsivo va di pari passo con l'altra grandissima innovazione attuata da Aldo, il tascabile, i libelli portatiles, come lui chiamava queste edizioni di piccolo formato, senza commento del testo, e quindi alla portata di un po' tutte le tasche. «Erano economici a sufficienza per gli studenti e gli studiosi che vagavano tra le grandi università europee.» Non è il primo a usare il piccolo formato (in ottavo), già utilizzato per i testi sacri, in modo da permettere ai religiosi di spostarsi con i loro libri, cosa che sarebbe risultata assai complicata con i grandi volumi in folio che dovevano starsene aperti su un leggio. Manuzio è però il primo a stampare i classici in ottavo. Comincia con Virgilio, nell'aprile del 1501 e un anno più tardi il volumetto con i poeti latini Catullo, Tibullo e Properzio supera le 3000 copie, un best seller per quei tempi. Sempre nel 1501 pubblica in ottavo anche Petrarca e questo è il suo primo libro in volgare.Manuzio è pienamente consapevole della rivoluzione che sta suscitando. Scrive a Marin Sanudo che il libro portatile consente di leggere nei momenti liberi dalle occupazioni politiche o di studio, mentre al condottiero Bartolomeo d'Alviano (che di lì a qualche anno sarà il responsabile della sconfitta veneziana di Agnadello) suggerisce di tenere con sé i libri di piccolo formato durante le campagne militari. Nasce il concetto di lettura come attività di svago, e non solo di studio; leggere per il piacere di farlo e non per imparare, un concetto vecchio di mezzo millennio, ma ancora attualissimo ai nostri giorni. Sembra che per Aldo le rivoluzioni siano come le ciliegie: una tira l'altra. E quando dà alle stampe un libro geografico di Pietro Bembo, De Aetna, in cui il cardinale e umanista veneziano descrive impressionato un'eruzione del vulcano siciliano, accoglie i suggerimenti dell'autore e usa per la prima volta la virgola uncinata, introduce l'uso degli apostrofi, degli accenti e del punto e virgola. Nel 1502 comincia a marchiare i libri con l'ancora e il delfino, simbolo utilizzato per la prima volta (ma in orizzontale) in un'illustrazione del Polìfilo e mette mano pure alle rilegature, utilizzandone in particolare una, detta «alla greca», in cuoio marocchino verde oliva con fiori stilizzati o figure geometriche sovraimpressi in oro, che presto si estende a tutta l'Italia settentrionale. | << | < | > | >> |Pagina 107L'America la scoprono gli spagnoli guidati da un genovese, Cristoforo Colombo; il nome lo dà un fiorentino, Amerigo Vespucci; il Canada lo esplorano gli inglesi al comando di un veneziano, Giovanni Caboto; il giro del mondo lo fanno i portoghesi, ma è un vicentino suddito della Serenissima, Antonio Pigafetta, a scriverne la relazione. In un'era in cui i soldi si trovano ormai altrove, mentre i cervelli stanno ancora lì, la vecchia Europa mediterranea mostra di essere parecchio coinvolta nelle scoperte geografiche e nelle rotte oceaniche. E sono proprio i veneziani a dare un contributo fondamentale alla diffusione della conoscenza delle nuove terre e, visto che ci sono, anche delle vecchie. Sul ruolo di primo piano dei sudditi di San Marco nella storia della navigazione, non si discute; basti dire che hanno dato il nome alla Rosa dei venti. Prendendo come base un punto imprecisato del Mare Mediterraneo a nord-ovest di Creta, è stata determinata la direzione dei venti: quello che spirava dalla Maestra, ovvero da Venezia, è stato chiamato Maestrale (interpretazione non unanime: qualcuno ritiene che la «Maestra» in questione sia Roma, ma è fin troppo facile obiettare che non erano i marinai del papa a scorrazzare con le loro navi nelle acque del Levante). Qualche veneziano ha anche messo il naso fuori dal Mediterraneo, per esempio i fratelli Nicolò e Antonio Zen che alla fine del Trecento navigano nell'Atlantico settentrionale, raggiungono le Fζr Ψer, l'Islanda, probabilmente la Groenlandia e forse esplorano le coste canadesi di Terranova; oppure Alvise da Mosto (conosciuto come Cadamosto) che parte dal suo palazzo sul Canal Grande (esiste ancora) e nel 1455, alla testa di una spedizione portoghese, scopre le isole di Capo Verde e risale il corso del fiume Senegal. Qualcuno naviga anche nella direzione opposta, come il chioggiotto Nicolò de' Conti che nel 1421 visita Sumatra e poi la Birmania e il Vietnam (curioso come conosciamo le sue imprese: si era convertito all'islam e, tornato al cristianesimo, papa Eugenio IV gli impone per penitenza di narrare le sue esplorazioni al suo segretario, l'umanista Poggio Bracciolini, che le trascrive). In ogni caso per navigare c'è bisogno di carte e queste sono necessarie anche per fare la guerra: la topografia, si sa, è una scienza bellica. Questo spiega perché Venezia forte di navi e di cannoni abbia dato tanta importanza all'editoria geografica e a quella militare, arrivando a detenere nella seconda un quasi monopolio e a essere un indiscusso punto di riferimento nella prima. La cartografia nel secolo di cui ci stiamo occupando diventa una sorta di frenesia collettiva, una vera e propria «map-mania che era allora al suo apice, non solo tra i cartografi di professione, ma anche tra i lettori in generale. Senza la protezione del copyright, migliaia di carte e piante venivano copiate, modificate o più semplicemente riprese nelle loro parti più interessanti». Il primo trattato geografico mai pubblicato al mondo sono le Navigationi e viaggi di Giovanni Battista Ramusio, del 1550. Si tratta pure «della prima grande raccolta di documenti storici che non siano miscellanee di leggi e decreti, di conseguenza è anche il primo esempio di una documentata storia geografica e di viaggi, e se non il primo, certamente è il secondo (dopo il Novus Orbis pubblicato a Basilea nel 1532) lavoro che inaugura un caratteristico genere letterario per il quale non abbiamo ancora trovato una definizione migliore rispetto a quella di narrativa di viaggio». Come sempre accade, non siamo di fronte a un fungo solitario spuntato nel bosco dopo un temporale, ma al frutto finale di una lunga fioritura, conseguenza del fatto che Venezia sia diventata «il centro di diffusione principale, almeno per quanto riguarda l'Italia, della produzione relativa alle scoperte geografiche». | << | < | > | >> |Pagina 143Il primo libro di cucina con luogo e data di pubblicazione certi, il primo testo a stampa di cosmesi, i volumi necessari a ogni medico del tempo per apprendere le basi della professione: sono altri record dell'editoria veneziana della fine del XV e dell'inizio del XVI secolo. Medicina, cosmesi e gastronomia condividono il fine di dedicarsi alla cura del corpo e ancor oggi accade che in qualche caso si sovrappongano (basti pensare alle diete); naturale che si intersecassero ancor di più quando allo scopo di guarire si utilizzavano erbe o pozioni, e agli alimenti venivano attribuite capacità curative che invece spesso non avevano. E se schiarirsi i capelli attività fondamentale, come vedremo, tra le dame veneziane non aveva implicazioni mediche, esistevano invece pomate e unguenti che potevano valere sia come cura per alcune malattie sia per interventi di estetica. Quello dei libri di medicina è un gran bel business, sicuro e di lungo periodo: se ci sono medici, c'è anche bisogno di testi perché imparino la professione e poi si mantengano aggiornati. Non desta quindi alcuna sorpresa che gli stampatori veneziani si buttino anima e corpo nel settore, attenti come sono a tutto quello che possa generare profitto. Già nell'era degli incunaboli la produzione di volumi medici risulta piuttosto vasta e nel Cinquecento cresce ancor di più, a mano a mano che le varie specialità si differenziano l'una dall'altra. All'inizio si stampano soprattutto le opere manoscritte dell'antichità classica e dei più importanti maestri medievali, in seguito cominciano a uscire dai torchi le edizioni dei trattati compilati dai medici contemporanei.
Per farsi un'idea dell'editoria medica nella Venezia rinascimentale non si
può che partire dal padre della medicina, ovvero da Ippocrate: il suo
Corpus
una raccolta di una settantina di opere in greco antico (non tutte sue, con ogni
probabilità) circola manoscritto per secoli e nel 1526 viene stampato in greco
nell'officina degli eredi Manuzio e di Andrea d'Asola (l'anno precedente
avevano pubblicato in greco anche l'opera di Galeno). Il
Corpus
ippocratico era già uscito in latino a Roma nel 1525, mentre da
tempo (Venezia 1508) erano stati stampati alcuni estratti.
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