Copertina
Autore Claude Marzotto Caotorta
Titolo Proto tipi. Farsi una stamperia
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2007 , pag. 134, ill., cop.fle., dim. 14,8x21x1,1 cm , Isbn 978-88-7226-983-1
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe arti applicate , libri , scienze tecniche , scrittura-lettura
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Indice


    Prefazione                                             7

  1 LA LETTERA UTENSILE                                   11

  2 ANALOGICO/DIGITALE                                    19

  3 PAROLE, IMMAGINI, COSE                                27

  4 NUOVE TRASPARENZE                                     35

  5 TECNICA MISTA                                         43

  6 CONTESTO E PROCESSO
    Un approccio alla storia della tipografia             53

  7 IL MITO DELLE ORIGINI
    Infanzia, archeologia, vernacolo                      59

  8 THE TYPES CUT BETWEEN 1810 AND 1850
    REPRESENT THE WORST THAT HAVE EVER BEEN
    La tipografia commerciale del primo ottocento inglese 69

8.1 BISH                                                  73
8.2 MANKIND                                               81

  9 FARSI UNA STAMPERIA                                   91

    Bibliografia                                         128


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE

Giovanni Baule


Questo Proto tipi. Farsi una stamperia apre, in modo pragmatico, ma non solo, un tavolo di lavoro per tutti: professionisti del progetto grafico e non addetti ai lavori che vivono la passione per quel sapere e quel fare che coinvolge carta, caratteri, tecniche di stampa e che sono nati, o sono passati attraverso il mondo delle font digitali.

Questo "tavolo" rappresenta una svolta importante. Perché mescola tecniche della tradizione con una sensibilità attualissima, e riapre un cerchio che davvero sa di innovazione.


In particolare, la nostra Stamperia dichiara, anche in modo aperto, alcuni principi.


• Dà per superata la leggenda di fine novecento secondo la quale la tensione tra i nuovi sistemi digitali e i vecchi sistemi analogici si sarebbe alla fine risolta in termini sostitutivi: cioè i primi avrebbero cancellato i secondi.

Tutto era avvenuto infatti come se, nel passaggio dall'analogico al digitale, il filtro, la soglia da oltrepassare fosse tutta in una direzione, e tutta a favore dei nuovi media: come se questi ultimi da "vuoti" dovessero "riempirsi", e il loro potere, dovuto al fatto di essere terreno vergine, creasse un definitivo campo di attrazione.


• Sottolinea quelle oscillazioni che sembrano oggi spingere controcorrente: si va verso la riscoperta dei segni, dei supporti, delle tecniche e dei linguaggi che appartenevano al mondo analogico della stampa e della proto-stampa.

C'è un'improvvisa attenzione per il segno manuale che è esperienza per capire e per conoscere, c'è un'attenzione "sensibile" per supporti che esprimono e comunicano ancora prima di essere impiegati.

Lo scambio tra sistemi diversi ma comunicanti sembra tendere a una sorta di riequilibrio, almeno nell'ambito della cultura dei media e dei suoi linguaggi. Va proponendosi un nuovo paradigma che vede l'analogico riprendere terreno, che vede la riconfigurazione di un paesaggio comunicativo dove non sventolano solo le bandiere di un orizzonte definitivamente colonizzato dal digitale.


• Conferma che "digitale" e "analogico" progettano nuove forme di convivenza, di dialogo, di scambio. E riemergono, di continuo, competenze, sensibilità, culture che sembravano cancellate.

Il nuovo paradigma gioca, è ovvio, sull'evoluzione e la valorizzazione di sistemi aperti, che già consentono pienamente che un segno di origine analogica possa trasferirsi con facilità su un supporto digitale per tornare, con manipolazioni successive, su una base analogica e così via: così per un'immagine, per un alfabeto, per un'intera fase di un processo progettuale. È il principio della transizione che si fa procedura, metodo nel mondo del progetto.


• Concentra la nostra attenzione su un artefatto emblematico — e strumenti, tecniche, culture — che non può che proporsi come "misto", dove il processo alterna componenti tecniche chiaramente analogiche e fa presagire trasferimenti e codifiche di tipo digitale. Proprio partendo da qui, si scorge come ogni iter nella produzione di comunicazione visiva sia spesso un continuo alternarsi di tecniche diverse, difficilmente inquadrabile su un fronte o sull'altro.

A rivoluzione avvenuta, sgombrato il campo dagli equivoci dell'euforia tecnologica, superate le cortine fumogene si vedono scenari diversi, più realistici e più complessi, rispetto a certe visioni enfatiche e senza storia. In realtà, è proprio l'evoluzione stessa del digitale che ha reso labili quei "confini", ha aperto canali di dialogo, di scambio, di compatibilità; e, probabilmente, proprio in questo sta la vera nuova forza del digitale: nella caduta dei muri, nella possibilità di far interagire materiali diversi e tecniche diverse, più che porsi come una tecnica contrapposta ad altre tecniche.


• Nel ridisegnare i confini tra "analogico" e "digitale" la ricerca più attenta — compresa quella in ambito universitario, da cui nasce il lavoro di Claude Marzotto — si concentra proprio sulle zone miste, ampie aree di sovrapposizioni, inedite forme di condivisione che la retorica del "digitale versus analogico" e le ideologie del digitale avevano temporaneamente nascosto. Le "tecniche miste" diventano il campo ormai maturo dove si mettono in gioco tecniche diverse in alternanze feconde. I "linguaggi ibridi" sono, dalle origini, la base della progettazione grafica come delle sperimentazioni artistiche che l'hanno accompagnata nel tempo; oggi sono tecnicamente agevolati e hanno dunque una ragione in più.


L'enfasi della rivoluzione digitale va allora smorzandosi in un atteggiamento maggiormente sensibile alle variazioni sottili: sottolineare gli aspetti di continuità tra i "vecchi" sistemi analogici e i "nuovi" sistemi digitali significa riconoscere continuità di culture e metodologie; e soprattutto ci apre la porta a nuove commistioni strumentali, allargando il campo della sperimentalità.

Si riscoprono con occhi nuovi giacimenti abbandonati; riaffiorano tecniche e strumenti lasciati in disuso. Così, tutti gli elementi che tornano in campo oggi sono componenti dell'identità storica del lavoro grafico: l'attenzione ai materiali dei supporti, ai caratteri e alle tecniche di tipografia, alla manualità dei segni e delle creazioni trova una nuova ragion d'essere, dentro un nuovo equilibrio.

Assumere il riequilibrio tra analogico e digitale e porlo al centro della pratica del progetto vuol dire far proprio fino in fondo il principio della transizione, quella transizione che è da tempo diventata la nostra condizione stabile.

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Pagina 35

4 Nuove trasparenze


Non sono già più in grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili si sono sistemate al posto del mio pensiero. Georges Duhamel Scènes de la vie future 1930

Ciò a cui, ai tempi del postmoderno, ci si riferiva in termini di citazione, appropriazione, pastiche, non ha più bisogno di alcun nome speciale. Ora è semplicemente la logica di base della produzione culturale: scaricare immagini, codice, forme, testi, eccetera; modificarli, e quindi immettere i nuovi lavori in rete — mandarli in circolazione. Lev Manovitch Generation Flash 2002

Così, con l'audiovisibile e soprattutto con il divenire musica dell'immagine, di tutte le immagini, le sensazioni sonore e visive, lungi dal completarsi a vicenda, si confondono in una sorta di MAGMA dove i ritmi hanno il sopravvento sulle forme e i loro limiti, trascinate come sono nell'illusionismo di un'ARTE SENZA FINE, senza capo né coda, in cui, letteralmente, non si distingue più nulla, se non il trasporto ritmologico. Qui, nessuna sapiente decostruzione, solo le primizie di una pura e semplice derealizzazione dell'arte di vedere e sapere; confusione del sensibile analoga, per molti aspetti, a quella del linguaggio babelico in cui tutto sprofonda nell'indistinzione e presto nell'indifferenza, dunque nella passività di sun soggetto sconcertato. Paul Virilio L'Art à perte de vue 2006


Qualsiasi catalogo di font digitali pone innanzitutto un problema d'orientamento. La varietà vertiginosa di forme e stili disponibili, ordinatamente elencati alla rinfusa come prodotti in un supermercato, richiede una disincantata dimestichezza per non rimanere in balia dell'abitudine, del sentito dire o del luogo comune. Sulla difficoltà di prendere l'iniziativa nell'abbondanza Gill, che l'offerta di un odierno centro commerciale avrebbe lasciato esterrefatto, offre una metafora un po' nostalgica ma genuina: "Un bambino può giocare con un certo numero di soldatini di legno, ma sarebbe incapace di pensare i movimenti più semplici se il pavimento della sua stanza fosse tappezzato con le splendide truppe di soldatini di piombo del giocattolaio londinese Gamage's". Gli unici soldatini che avrebbe oggi Gamage's, uno dei più moderni e forniti grandi magazzini dell'epoca, sarebbero quelli dei videogiochi – allo stesso modo, i vecchi caratteri di legno o di piombo sono stati sostituiti da eserciti di perfetti replicanti, che al problema della quantità fanno subentrare quello, più inquietante, dell'identità.

Se già per Benjamin la riproducibilità tecnica aveva sottratto il riprodotto all'ambito della tradizione, il dato informatico, definitivamente liberato dai vincoli con un eventuale originale, fa dell'oblio di un continuo aggiornamento la sua logica di base. Con la liberalizzazione del type design, il proliferare di remake e font sperimentali si va impercettibilmente sovrapponendo a repertori storici non assimilati e, in assenza di altre categorie di esperienza, il senso di prospettiva rispetto ai modelli storici tende a ridursi a vago sapore d'epoca. Ne risulta un universo tipografico di segni effimeri e senza memoria, fruiti sulla superficie di una costante attualità; una nuova trasparenza tipografica, sconcertante défaillance in quanto non più volontaria, dove i segni, per fugacità e saturazione visiva, tendono all'indistinguibile.


Nell'era dei blog, dove essere visti conta più che vedere e l'ansia di partecipare al flusso prevale sull'interesse concreto per ciò che accade nell'immediata prossimità, il problema percettivo nell'inafferrabile fuga musicale delle scritture è soprattutto quello di non essere riconosciuti, di non riuscire a emergere dal rumore di fondo. Costretti ad affidare alla tipografia l'espressione della propria identità, tutti – persone e prodotti – sembrano chiedere, come l'amanuense medioevale di cui narra Massin: "Che i caratteri da me tracciati proclamino ciò che io sono!".

La logica del contrasto vuole che, nel flusso continuo di una comunicazione prevalentemente liscia, l'irregolarità e l'imprevedibilità delle caratteristiche fisiche dei materiali abbiano dalla loro l'impagabile potere di attrarre l'attenzione. Venuti a noia valori come regolarità e standardizzazione – obiettivi un tempo difficili da raggiungere e perciò sommamente considerati – emerge un'ammiccante nostalgia dell'imperfezione che vuole che il grafico più corteggiato sia oggi quello capace di restituire tutta la freschezza delle proprie idiosincrasie. Da qui il successo di centinaia di font sporche, graffiate, irregolari, così ricorrenti nella comunicazione dell'industria dell'intrattenimento e di un consumo giovanile che si vuole alternativo, sempre alla rincorsa di un barlume di autenticità ed emotività. Ridotto a facile esercizio di stile, l'effetto materico diventa l'ennesima performance dell'impasto digitale – fusione e confusione di icone, simboli, caratteri, foto e disegni in circolazione costante e accelerata – dalla cui piattezza informativa vorrebbe distinguersi.


Il vizio di forma in cui incorre molta produzione digitale, apparentemente mista e integrata, sembra essere quello di un'autoreferenzialità tecnologica che ha smarrito l'etimologia del testo-tessuto, la ricchezza semantica che nasce dall'intreccio sapiente e visibile di procedure grafiche diverse e interdipendenti. Per bucare lo schermo dell'alta risoluzione e accedere alla dimensione tattile del testo non basta compiacersi di un risultato il più possibile grezzo, è necessario restituire alla fisicità del processo il tempo e lo spazio che gli sono propri: la nuda evidenza di semplici soluzioni analogiche rimane l'enigma che i più sofisticati effetti speciali ancora non hanno risolto.

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9 Farsi una spamperia


Cenni storici. Nel tradizionale procedimento di fonderia, il punzone è il carattere-modello in acciaio, inciso a mano da un abile artigiano. Battendo il punzone su blocchetti di rame, si ottengono le matrici, ovvero i calchi da collocare alla base della forma in cui si cola il metallo fuso. Il carattere tipografico così ottenuto è un unico parallelepipedo di lega metallica, di altezza costante di poco più di due centimetri, sul lato superiore del quale compare, in rilievo e ovviamente rovesciato, l'occhio del segno, ovvero la forma poi visibile in stampa. Questo metodo, di estrema precisione per corpi convenzionali, si adatta con difficoltà alle grandi superfici dei caratteri da titolazione, che oltretutto risulterebbero pesanti e poco maneggevoli – ecco perché le lettere da manifesto che tutti abbiamo visto in qualche laboratorio, rigattiere o almeno in fotografia sono di legno.

In realtà, benché l'uso di tipi intagliati in legno risalga alla stampa orientale del XIII secolo, la loro produzione in serie divenne economicamente vantaggiosa solo a partire dagli anni trenta dell'ottocento, quando negli Stati Uniti fu inventato il pantografo meccanizzato. I tipi in legno precedenti sono lettere-modello, patterns piuttosto che veri e propri tipi per la stampa: una sorta di "punzoni xilografici". Fino a che l'intaglio rimase un'operazione manuale, il modo più conveniente per riprodurre una lettera originale consisteva nel ricavarne uno stampo per fondervi sottili copie in metallo, da montare poi su blocchi ad altezza tipografica.


Lo stesso vale per la nostra stamperia: potremmo decidere di scolpire le lettere una per una, ma probabilmente ci daremmo per vinti prima di avere sufficienti lettere a disposizione per comporre più di una parola di senso compiuto. Oggi come allora, una volta incisa una prima serie di caratteri in un qualsiasi materiale, il problema dell'artigiano è ottenere una buona matrice per moltiplicarne le copie.

La tipografia commerciale pre-meccanizzata del primo ottocento viene in aiuto alla nostra impresa con due procedimenti: lo stereotipo e la matrice sanspareil. Il primo, come evidenzia il senso metaforico, avviene a partire da un originale identico alla copia riprodotta, ovvero da un positivo; nel secondo invece si intaglia direttamente la matrice della lettera, cioè il suo negativo. Entrambi i metodi offrono qualche suggerimento utile al prototipista il quale, lavorando con materiali e intenzioni diverse, si ritiene libero di interpretare, modificare e sovrapporre liberamente i procedimenti descritti.


Stereotipo. Lo stereotipo deve il suo nome a Firmin Didot, che nel 1795 perfezionò a scala industriale un procedimento già introdotto nel 1725 dall'orafo scozzese William Ged (inventore anche della fusione a cera persa). Si trattava di un sistema per riprodurre, tramite un calco, la forma di testo composta di tipi mobili in un cliché, ovvero in un unico blocco metallico per la stampa. L'innovazione inaugurava l'era delle grandi tirature standardizzate (permetteva di disporre di più originali identici contemporaneamente) e semplificava di gran lunga eventuali riedizioni: a spingere Didot a mettere a punto la stéréotypie fu proprio la necessità di ristampare più volte una voluminosa raccolta di tavole logaritmiche. Lo stereotipo non fu inventato di punto in bianco: sin dal sedicesimo secolo diversi fonditori di caratteri, ispirati forse dalle forme in creta in cui gli orafi erano soliti fondere le medaglie, avevano elaborato metodi di calco per la riproduzione di testi, xilografie e lettere decorate o di grandi dimensioni; del resto l'incisore di punzoni non è che un orafo specializzato. Si ha notizia di calchi in diversi materiali: in sabbia e argilla o in gesso, in metallo, in pasta di carta o cartone umido (il "flano" dei cliché, da cui poi la matrice flessibile in cartone per fondere i cilindri delle rotative dei quotidiani), più tardi con il bagno galvanico elettrico, che evitava il problema del calore, anche in cera. Paul Needham nel 2001 avanzò l'ipotesi che lo stesso Gutemberg avesse fuso i propri caratteri in calchi di questo tipo, adducendo le irregolarità riscontrabili tra i caratteri nella stampa della Bibbia come prova del fatto che non provenissero tutti dalla stessa matrice – come avrebbe dovuto essere nel caso si fosse avvalso della durevole matrice tipografica in rame – ma da diverse e più fragili forme. La teoria ha fatto discutere: è certo invece che, a partire dal cinquecento, si vendevano per i titoli grandi lettere-modello in legno o ottone da riprodurre, singolarmente o in parole, per mezzo di un calco. La fusione in sabbia e argilla o gesso dà un risultato abbastanza grezzo e la sua applicazione è limitata a forme relativamente semplici.

La xilografia in bosso di testa, introdotta da Bewick alla fine del settecento e in uso per l'incisione di raffinate vignette e lettere decorate, intorno al 1820 moltiplicò le sue applicazioni commerciali grazie a perfezionamenti tecnici che finalmente permisero un'esatta riproduzione del dettaglio, ovvero il flano del moderno stereotipo e un diverso tipo di cliché detto dabbing. Quest'ultima soluzione invertiva il processo tradizionale: versato il metallo fuso in un recipiente, appena prima che solidificasse vi si premeva bruscamente il pattern per ottenere una matrice; con identico procedimento si ricavavano, a partire dalla matrice, le copie.


Attenzione! Affinché il calco non si incolli all'originale, a seconda dei materiali utilizzati è buona norma lucidarlo, verniciarlo o ungerlo. Per ottenere una matrice in metallo (dabbing) a partire da un originale in legno, l'artigiano fonditore lucidava e spennellava quest'ultimo di ocra rossa; lo stereotipista ungeva d'olio la forma tipografica metallica prima di appoggiarvi il flano umido; la tecnica del calco in cera (bagno galvanico) prevedeva invece di cospargere la cera molle con polvere di mina a piombo, in modo da renderne la superficie lucida e non aderente.

Una volta ottenuto il calco o matrice, bisogna poi fare in modo che il materiale di fusione si distribuisca uniformemente riempiendo anche le linee più fini, difficoltà che molti fonditori risolvevano con una serie di rapidi movimenti. Il Manuel Typographique del Fournier (1764) suggeriva, per la fusione dei gros caractères, di cospargere un sottilissimo strato di polvere di pomice sulla matrice, per renderne la superficie più recettiva alla colata; il dabbing, infine, ovviava il problema con la pressione immediata, procedimento valido solo per i materiali a presa rapida come la lega di piombo.




Sanspareil matrix. La matrice sanspareil comparve in Inghilterra nel primo ottocento per soddisfare la domanda crescente di caratteri da manifesto grandi, massicci e senza decorazioni. William Caslon IV nel 1810 pubblicò questo nuovo procedimento, che poco più tardi T. C. Hansard definì "il più grande progresso nel campo della fonderia di caratteri che abbia avuto luogo nei tempi moderni": alla matrice sanspareil dobbiamo infatti l'ottima qualità dei primi egizi, sanserif e fat face prodotti in Inghilterra. Questa tecnica restò in uso fino alla metà del secolo, quando si imposero definitivamente i "legni" americani prodotti industrialmente, più economici e leggeri.

Per fabbricare una matrice sanspareil si ritaglia la forma della lettera in una lastra di ottone o rame, di spessore pari al rilievo che si vuol dare all'occhio del carattere; la lastra così ritagliata viene quindi rivettata a una base, in modo che il lato superiore presenti la forma della lettera nel senso di lettura.


Attenzione! Il taglio non è perpendicolare alla lastra: una certa angolazione è necessaria affinché il tipo si possa poi estrarre dalla matrice senza difficoltà. Data la sezione obliqua del taglio, le forme sul lato inferiore e su quello superiore della lastra non sono identiche: a determinare il profilo dell'occhio del carattere sarà la forma sul lato della lastra a contatto con la base (senso di lettura inverso). Ogni bianco isolato, come ad esempio gli interni della B, va ritagliato e applicato singolarmente alla base; infine, affinché il profilo dell'occhio della lettera risulti pulito, il foglio e la base devono aderire perfettamente.


"Tornando a noi, una stamperia da scrivania deve offrire la massima immediatezza di stampa. Legno e metallo sono materiali duri, che richiedono la pressione di un torchio o la perizia di un artista – risorse non alla portata di tutti. Vi sono poi i comuni timbri manuali in gomma morbida, tradizionalmente prodotti a partire da un cliché con una pressa a caldo professionale. Una via di mezzo tra timbri e tipografia è il fotopolimero: usato in tipografia, si presta anche alla stampa manuale e benché per un risultato ottimale richieda una specifica attrezzatura, offre un buon margine al fai-da-te. Il fotopolimero però è un processo fotochimico per ottenere un rilievo a partire da un'immagine: risulta invece più interessante, considerando la fisicità del gesto e le caratteristiche grafiche che ne derivano, provare a ricavare la forma dei nostri caratteri lavorando direttamente su un volume — pieno o cavo, a seconda che si voglia cominciare l'impresa da un pattern o da una matrice.

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