Copertina
Autore Luigi Mascilli Migliorini
Titolo Italia napoleonica
SottotitoloDizionario critico
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2011, , pag. XIX+538, cop.ril.sov., dim. 15,5x23,5x3,6 cm , Isbn 978-88-02-08160-1
CuratoreLuigi Mascilli Migliorini, Nicoletta Marini D'Armeria
PrefazioneGiuseppe Galasso, Rosanna Cioffi
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1700 , paesi: Italia: 1800 , paesi: Francia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  IX Prefazione
     Giuseppe Galasso

  XV Nota del curatore

XVII Presentazione
     Rossanna Cioffi


  3 Amministrazione
    Angelantonio Spagnoletti
    - Comune, p. 15
    - Decurionato, p. 16
    - Intendenza, p. 18
    - Polizia, p. 19
    - Prefettura, p. 20
    - Provincia, p. 22
    - Sindaci, p. 23

 25 Arti
    Rosanna Cioffi
    - Accademie d'arte, p. 37
    - Architettura, p. 37
    - Esposizioni d'arte, p. 38
    - Feste e Apparati Festivi, p. 39
    - Gran Premio di Roma, p. 40
    - Impero (Stile, Gusto Decorativo), p. 41
    - Musica, p. 42
    - Pittura, p. 43
    - Requisizioni, p. 44
    - Roma Antica, p. 45
    - Scultura, p. 46
    - Teatro, p. 47

 49 Avvenimenti
    Francesco Barra

 91 Chiesa e vita religiosa
    Marina Caffiero
    - Catechismo imperiale, p. 106
    - Clero e giuramenti, p. 107
    - Concordato del 1801, p. 109
    - Concordato italiano del 1803, p. 111
    - Ebrei, p. 113
    - Episcopato, p. 115
    - Papato, p. 116

119 Cinema
    Paolo De Marco

141 Città
    Paolo Mascilli Migliorini
    - Il Foro, 162
    - Il giardino, p. 163
    - Milano, p. 164
    - Napoli, p. 165
    - Natura e paesaggio, p. 166
    - Roma, p. 167
    - Teorie urbanistiche, p. 168

171 Costituzioni e Codificazioni
    Antonino De Francesco
    - Cassazione (Gran Corte di), p. 183
    - Codice civile, p. 184
    - Commissione feudale, p. 185
    - Giustizia, p. 186
    - Magistratura, p. 187
    - Tribunali di commercio, p. 189

191 Economia
    Francesco Mineccia
    - Beni nazionali, p. 208
    - Blocco continentale, p. 209
    - Catasto generale, p. 211
    - Dazi e dogane, p. 212
    - Feudalità, p. 215
    - Imposte e tributi, p. 217

219 Editoria
    Maria Consiglia Napoli
    - Diritto di autore, p. 231

233 Esercito
    Virgilio Ilari
    - Cappellani militari, p. 245
    - Gendarmeria, p. 245
    - Guardia nazionale, p. 246
    - Guardia reale, p. 247
    - Legioni provinciali, p. 247
    - Marina da guerra, p. 248
    - Scuole militari, p. 249

251 Geopolitica
    Giovanni Brancaccio
    - Corsica, p. 267
    - Ione (Isole), p. 268
    - Lucca (Principato), p. 270
    - Malta (Isola), p. 271
    - Piemonte-Sardegna (Regno), p. 274
    - Regno d'Italia, p. 276
    - Regno di Napoli, p. 278
    - Repubblica Italiana, p. 280
    - Sicilia, p. 281
    - Stato pontificio, p. 284
    - Toscana, p. 285
    - Venezia, p. 287

291 Lettere
    Laura Meiosi

309 Luoghi di Memoria
    Luigi Mascilli Migliorini
    - Arcole, p. 321
    - Campoformio, p. 322
    - Corsica, p. 322
    - Elba (Isola), 323
    - Marengo, p. 324

327 Napoleonidi
    Renata De Lorenzo
    - Carolina Bonaparte, p. 349
    - Elisa Bonaparte, p. 350
    - Eugenio di Beauharnais, p. 352
    - Giuseppe Bonaparte, p. 354
    - Gioacchino Murat, p. 356
    - Paolina Bonaparte, p. 358

361 Narrazioni
    Lauro Rossi
    - Anno 1799, p. 375
    - Campoformio, p. 376
    - Esilio, p. 377
    - Italiani in Spagna, p. 378
    - Lazzari, p. 378
    - Milano capitale, p. 379
    - Prodigi, p. 380
    - Proprietà, p. 381
    - Spirito pubblico, p. 382
    - Unità e indipendenza, p. 383

385 Scienze
    Romano Gatto
    - Accademie scientifiche, p. 403
    - Cartografia, p. 404
    - Statistica, p. 406

409 Società
    Alessandro Volpi
    - Brigantaggio, p. 419
    - Ιlites, p. 420
    - Massoneria, p. 422
    - Mendicità, p. 423
    - Nobiltà imperiale, p. 424
    - Società segrete, p. 426

429 Territorio
    Andrea Giuntini
    - Comunicazioni, p. 443
    - Ingegneri, p. 444
    - Porti, p. 446

449 Triennio repubblicano
    Anna Maria Rao
    - Emigrazione ed esuli, p. 460
    - Giacobinismo, p. 461
    - Repubblica Cisalpina, p. 463
    - Repubblica Cispadana, p. 464
    - Repubblica Ligure, p. 465
    - Repubblica Napoletana, p. 467
    - Repubblica Romana, p. 468

471 Viaggi e Viaggiatori
    Maurizio Bossi

491 Bibliografia

519 Lemmario

521 Indice dei nomi


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina IX

Prefazione



Una tradizione consolidata e autorevole, sia politica sia storiografica, attribuiva alla discesa di Napoleone in Italia nel 1796 il valore di un evento decisivo e periodizzante. Era suonata allora – si diceva – la campana per l' ancien régime nella penisola. Era iniziata una storia nuova di mutamenti e di trasformazioni del paese, che, pressappoco in un quindicennio, ne avrebbe riformato radicalmente le strutture e le ripartizioni amministrative, la legislazione civile e penale, l'organizzazione dei governi al centro e alla periferia, i criteri di selezione scolastica e non scolastica della classe dirigente, i rapporti fra Stato e Chiesa e la posizione della Chiesa nella società, il senso dell'appartenenza dei cittadini allo Stato e, anzi, alla società politica sia in generale che in quanto distinguibile dalla società civile.

A indicare una così ampia azione appariva insufficiente la definizione di «monarchia amministrativa», con la quale si designava il regime politico-istituzionale introdotto da Napoleone in Italia, così come in tanta altra parte d'Europa, a cominciare dalla Francia. Il rinnovamento e le trasformazioni napoleoniche non avevano investito soltanto la sfera politica, gli ordinamenti e le istituzioni cui essi si articolavano. In altri termini, non avevano riguardato soltanto la struttura e l'organizzazione del potere, né soltanto il rapporto fra potere e istituzioni. Erano, invece, penetrati in profondità nella vita della società, nel suo configurarsi a livello sia pubblico sia privato. Insomma, un effetto ritardato di quello sconvolgimento per cui in Francia la grande révolution aveva fatto crollare l'intero edificio degli antichi ordini e aveva instaurato un nuovo e più moderno sistema politico e sociale dalle amplissime e profonde implicazioni in tutta la vita civile.

Un effetto, poi, neppure tanto ritardato. Napoleone (allora ancora Buonaparte) era disceso in Italia a soli sette anni dalla Rivoluzione in Francia. Vi era tornato (e già si denominava Bonaparte, con una vistosa francesizzazione del suo nome di famiglia) cinque anni dopo, nel 1801; e vi sarebbe ancora tornato, dopo altri quattro anni, nel 1805, per assumere (ormai sovrano designato col solo nome personale) la corona del Regno d'Italia, da lui stesso istituito.

In questa linea tradizionale di interpretazione del ruolo di Napoleone nella storia d'Italia, i tre anni di rivoluzioni e sconvolgimenti seguiti alla sua prima discesa nella penisola – il cosiddetto «triennio giacobino», dal 1796 al 1799 – avevano minore importanza del successivo quindicennio, 1801-1815, in cui – tra Regno d'Italia, annessioni alla Francia o, meglio, Impero Francese di cui era sovrano, e regimi da lui imposti in altre parti d'Italia, in particolare a Napoli – l'azione italiana di Napoleone era stata costante e diretta e aveva essa, propriamente, prodotto i mutamenti e le trasformazioni che abbiamo di sopra indicato.

Nella stessa linea, gli anni napoleonici non erano definiti soltanto da questo insieme di effetti, per più o meno profondi che fossero. Vi era stato, allora, di più. Si riteneva, infatti, che fosse allora iniziata una parte più attiva degli italiani nelle vicende del loro paese, e ciò sotto il sogno delle idee nuove che la Rivoluzione francese prima e Napoleone poi avevano diffuso e affermato in mezza Europa. Era, propriamente, iniziato il Risorgimento, lo sforzo, cioè, degli italiani di riportare il loro paese a una condizione politica e civile che si avvertiva perduta, nel contesto europeo, da due o tre secoli. Non solo l'indipendenza politica, l'affrancamento dalle sovranità straniere dominanti nella penisola fin dai primi anni del Cinquecento, ma addirittura l'idea dell'unità italiana si era affacciata in quegli anni, a iniziativa dei «patrioti» napoletani, ma con grande eco a Milano e altrove. E, quasi simbolo di tutto ciò, era nata pure a Reggio Emilia, nel 1797, la bandiera italiana, il tricolore che poi, a Risorgimento concluso, sarebbe rimasto come bandiera nazionale.

Il nome stesso di «patrioti», col quale erano designati e si designavano i fautori della Rivoluzione e dei nuovi regimi che ne nascevano, appariva un nome significativo. Più tardi, più o meno a un secolo di distanza, avrebbe indicato i fautori delle tendenze nazionali o nazionalistiche in opposizione a quelli delle tendenze ritenute sovversive e antipatriottiche. Allora, negli anni rivoluzionari e napoleonici, indicava i fautori delle idee nuove circolanti con tanto impeto in Europa dal 1789 in poi. «Patriota» era in quegli anni un quasi sinonimo di «repubblicano» e di «cittadino». Con Napoleone la sinonimia repubblicana era ovviamente, caduta, ma «patria» e «patriota» avevano conservato il loro valore. E anche questa appariva come una eredità che Napoleone aveva lasciato alla coscienza e alla causa nazionale. Lo espresse, fra tanti altri, con particolare e significativo vigore e con lucida intelligenza, il Foscolo, che aveva presente e considerava soprattutto l'esperienza del Regno d'Italia. Bastava, a lodare – egli scriveva – «giustamente» Napoleone il fatto che in Italia egli avesse «fondato un Regno potente di ricchezze e di abitatori», in cui «le ricchezze erano amministrate con ordine e il popolo era ridivenuto guerriero». E spiegava pure in quale senso egli intendesse il concetto di indipendenza nel caso del Regno d'Italia napoleonico: una bandiera propria, magistrati propri, ordinamenti propri, armi proprie e altri simili elementi.

La grande tradizione, che così faceva coincidere Rivoluzione francese e Napoleone con gli inizi del Risorgimento, fu poi attaccata da due parti.

Da un lato, un approfondimento degli studi portò a collocare molto più indietro nel tempo, rispetto al 1796, l'inizio del rinnovamento italiano conclusosi, poi, col Risorgimento e con l'unità nazionale. Apparivano già da includere appieno in quel rinnovamento i molti decenni delle riforme tentate o riuscite, in una gran parte della penisola, durante il secolo XVIII. Poi si risalì agli ultimi decenni del secolo XVII per ravvisarvi più che evidenti indizi e una prima, sia pur pallida, aurora del rinnovamento italiano. Nacque così l'idea di una «età del Risorgimento», che comprendeva un ampio periodo della storia italiana moderna, e che toglieva al Risorgimento, fra l'altro, l'aspetto di un moto precipitoso, per cui, nel giro all'incirca di un mezzo secolo, poco meno o poco più, si era formata l'unità d'Italia. Il Risorgimento acquistava, in altri termini, la consistenza di un lungo processo storico, con premesse e condizioni ben sedimentate, lontane dall'improvvisazione e dalla precipitazione, che al Risorgimento da varie parti si imputavano, perché avrebbe dato luogo, secondo questa imputazione, a una unificazione della penisola, nel migliore dei casi, non matura, se non artificiosa e forzata rispetto alla molteplice e consolidata varietà del paese italiano.

Dall'altro lato, si formò rapidamente l'opinione che la Rivoluzione francese e Napoleone fossero intervenuti a turbare, nel loro impatto italiano, una pacifica, spontanea, feconda – anche se, per avventura, lenta – opera di riforma e di progresso, che la maggior parte dei governi italiani aveva avviato e portava avanti con successo. La tempesta rivoluzionaria e napoleonica non solo aveva, così, interrotto il rinnovamento indigeno che era in corso nella penisola, ma aveva tolto ad esso i suoi caratteri più propri e nazionali, e lo aveva trasformato in una duplicazione italiana del modello politico affermatosi in Francia con la Rivoluzione e con Napoleone. Molteplice danno, dunque. Violenze, sangue, rovine, agitazioni, drammi di ogni tipo. Un modulo straniero, non nato dalle viscere della storia italiana, per il regime politico-istituzionale dell'Italia unita. Un effetto fuorviante di tutto ciò rispetto alle vocazioni, alle possibilità, all'identità della nuova Italia, già in gestazione e in movimento da prima che la Rivoluzione francese e Napoleone ne alterassero il corso naturale e le più autentiche direzioni.

Entrambe le visioni critiche degli inizi e dei fondamenti rivoluzionari e napoleonici del Risorgimento erano passibili di letture dall'accento e dal significato diverso, e furono sostenute da nomi eminenti della storia e della cultura italiana: basta pensare ad Alessandro Manzoni e a Benedetto Croce. Né ha minore importanza il fatto che varie contaminazioni, fra le due linee di cui parliamo, e di altrettanto diverso accento e significato, erano possibili e si verificarono. Il punto criticamente rilevabile e da mettere, al riguardo, in evidenza è, comunque, che da entrambe le visioni di cui parliamo emerge un dato della massima importanza storica.

Emerge, infatti, che il Risorgimento italiano, sulla base di una preistoria dell'unità italiana variamente prospettata e valutata, fu un punto di arrivo, non già un punto di partenza del processo storico unitario della nazione italiana. In altri termini, non fu il Risorgimento a inventare e ad affermare la dimensione nazionale del paese e delle popolazioni italiane. Fu, al contrario, la nazione italiana a ideare e a realizzare il Risorgimento e a riproporsi nella storia europea — nella quale da un millennio era presente e agiva quale parte costitutiva, e come tale riconosciuta — da Stato, oltre che da nazione.

In altri termini, non fu la nazione italiana a essere figlia del Risorgimento, bensì il Risorgimento a essere figlio della nazione italiana già matura, e ora tesa ad affermarsi come tale anche politicamente. E proprio perché tale, perché frutto di un processo secolare, il Risorgimento poté poi essere così rapido come apparve, giusta l'antico principio del motus in fine velocior.

Napoleone e l'Italia napoleonica furono in questo percorso una tappa decisiva; furono uno snodo fondamentale. Fu allora che la questione nazionale italiana venne percepita come la grande e fondamentale questione degli italiani. Il ventennio che si era aperto con le «Repubbliche giacobine» del 1796-1799, ed era poi proseguito sotto Napoleone con la Repubblica Italiana e con il Regno d'Italia, si chiuse con la disperata impresa italiana di Gioacchino Murat nel 1815.

Disperata perché politicamente intempestiva nel quadro europeo, e perché condotta senza gli indispensabili contatti e coinvolgimenti di una sufficiente parte dell'Italia, che voleva richiamare intorno al sovrano di Napoli. Quell'impresa si svolse, tuttavia, nel nome dell'Italia, della quale propose esplicitamente, anche in maniera non bene definita, l'unificazione sotto un solo sovrano. Il successo, spiegabilmente, mancò, e il tentativo murattiano si esaurì senza grandi effetti immediati, ma lasciando indubbiamente tracce e semi che non sarebbero rimasti senza futuro.

Il Manzoni scrisse, per il "Proclama di Rimini" nel quale Murat enunciò il suo disegno politico, una canzone, incompiuta, forse proprio per il repentino venir meno di quel disegno. Più tardi avrebbe dichiarato che con quella canzone egli aveva compiuto per l'unità italiana il più grande sacrificio che un poeta possa compiere: ossia, quello di scrivere consapevolmente un verso brutto. Liberi non sarem, se non siam uni, affermava quel verso, che è effettivamente molto brutto. E, tuttavia, quella associazione della libertà e dell'unità, che vi era così maldestramente affermata dal punto di vista della poesia, aveva un senso storico e concreto, che non si sarebbe dissolto né con l'interruzione della canzone manzoniana, né col fallimento del tentativo di Murat: anzi, quel senso non avrebbe fatto che irrobustirsi e, alla fine, avrebbe riassunto per intero il senso e il valore della storia risorgimentale.

Nel 1911, celebrandosi il primo cinquantenario dell'unificazione, fu eretto in Roma il discusso monumento, che è poi diventato l'Altare della Patria. Ai suoi lati, sulle due torri che lo delimitano, è scritto Civium libertati a sinistra e Patriae unitati a destra. Latino non elegante, così come brutto era il verso manzoniano deprecato dall'autore, ma libertà dei cittadini e unità della patria vi erano associate e congiunte così come in quel verso, e così come fu nelle menti e nello spirito degli italiani che vollero e realizzarono, nel Risorgimento, l'unità nazionale. E anche questa era una parte, e non una parte minore, dell'eredità che l'Italia napoleonica lasciò agli italiani, e per cui l'Italia dei primi tempi del Risorgimento può ben essere definita come un'Italia post-napoleonica.

Giuseppe Galasso

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

Avvenimenti

Francesco Barra


Campagna d'Italia, la Repubblica Cisalpina e il Triennio rivoluzionario

«Il 15 maggio 1796 segna una data fondamentale nella storia dello spirito umano. Il generale in capo Buonaparte entra in Milano: l'Italia si ridesta, e, per la storia dello spirito umano, l'Italia rimarrà sempre la metà dell'Europa». Così, con questa frase icastica, Stendhal sintetizzava nel 1817 il significato profondo che, nella storia d'Italia, aveva segnato l'arrivo di Napoleone Bonaparte nella pianura padana. L'ingresso a Milano segnava in effetti il coronamento della prima e più folgorante fase di quella che sarebbe passata alla storia come Campagna d'Italia. L'obiettivo prefissatosi e profondamente meditato dal giovanissimo generale, sin da prima che, il 27 marzo 1796, assumesse il comando dell' Armée d'Italie, era allo stesso tempo strategico e politico: occorreva colpire al cuore l'Austria, che era il nemico principale della Francia sul continente; ottenuto questo risultato, l'Italia e la Spagna avrebbero ceduto facilmente. Bisognava quindi concentrare l'attacco nella pianura padana, evitando d'infossarsi nella penisola fino a che l'Austria avesse resistito in Germania. Per raggiungere tale risultato occorreva però ottenere, con le armi della strategia, un essenziale scopo politico-diplomatico: profittare della divisione degli alleati per colpire l'uno dopo l'altro e forzare i piemontesi ad abbandonare la coalizione. Si trattava in realtà di direttrici strategico-politiche che si allontanavano notevolmente da quelle del Direttorio, che prevedeva per l'Armata d'Italia un ruolo puramente ausiliare e diversivo rispetto a quello, ritenuto decisivo, degli eserciti impegnati in Germania, che avrebbero dovuto convergere su Vienna dalle valli del Meno e del Danubio.

La brillante intuizione di Bonaparte era destinata a conoscere un successo folgorante. Battuti il 12 aprile gli austriaci a Montenotte e il giorno dopo i piemontesi a Millesimo, e poi ancora gli austriaci il 15 a Dego, impadronitosi del campo trincerato di Ceva, egli s'incuneò fulmineamente tra i due eserciti avversari, separandoli e togliendo loro ogni possibilità di azione comune, compensando inoltre la sua inferiorità numerica. Ciò determinò il collasso, psicologico prima ancora che militare, della corte sabauda, inducendola all'armistizio di Cherasco (28 aprile), che risultò decisivo per l'esito della campagna. Cherasco fu per Cesare Balbo «una brutta tregua, mutata poi in brutta pace»; l'«incredibile viltà» della resa sabauda attestava, per lo scrittore piemontese, che allora anche «il migliore Stato italiano valea poco». Infatti, la condizione dell'esercito piemontese non era disperata, e il suo ripiegamento sulla piazzaforte di Torino, che i francesi non erano in grado di assediare, in attesa dei rinforzi austriaci dalla Lombardia, avrebbe reso la situazione di Bonaparte assai critica.

Ma già con la stipula dell'armistizio Bonaparte violò per la prima volta le istruzioni del Direttorio, che gli aveva proibito persino una semplice sospensione d'armi. Ma Bonaparte non esitò un attimo, perché Cherasco poneva fuori gioco l'avversario sabaudo, permettendogli di rivolgere tutte le sue forze contro il nemico principale.

L'indomani stesso della sottoscrizione della tregua egli ordinò d'inseguire l'esercito di Beaulieau, in ritirata al di là del Ticino e del Po. Il passaggio di sorpresa del Po a Piacenza il 7 maggio costrinse Beaulieau, minacciato alle spalle, a retrocedere frettolosamente all'Adda. A Lodi, con una folgorante manovra tattica, che colse del tutto di sorpresa le difese austriache, travolgendole, Bonaparte si aprì le porte di Milano e dell'intera Lombardia (10 maggio). «Quella sera — dirà molti anni dopo — riconobbi in me per la prima volta non un semplice generale, ma un uomo destinato ad influire sulle sorti di un popolo: mi vidi nella Storia».

In effetti gli austriaci, all'infuori del presidio lasciato nella cittadella di Milano, si ritirarono dietro il Mincio, appoggiati alla fortezza di Mantova. Il 14 maggio l'avanguardia di Massena potè quindi entrare in Milano, e il giorno dopo Bonaparte vi fece il suo ingresso: era il suo primo trionfo, e Milano era la prima capitale europea conquistata. I rapporti col Direttorio risentirono immediatamente di questo nuovo clima e dei nuovi rapporti di forza. La Lombardia non era per il Direttorio che una ricca regione da sfruttare a fondo, in attesa di usarla come merce di scambio per la pace. Invece Bonaparte, se intendeva anch'egli utilizzare le risorse lombarde, perseguiva però pure un obiettivo essenzialmente politico. Su questa linea venne sicuramente incoraggiato a proseguire dall'ambiente milanese. Senza attendere l'arrivo dei francesi, i patrioti milanesi si erano infatti mossi autonomamente, riempiendo l'11 maggio la città di 50.000 coccarde tricolori. Massena, il 14, vi trovò già stabiliti una società popolare, un comitato di sorveglianza e un club patriottico, che dopo pochi giorni conterà 800 membri. Il 15, quando Bonaparte entrò trionfalmente in città attraverso Porta Romana, i patrioti milanesi lo accolsero come un liberatore, e non già come un conquistatore. La risposta fu immediata: il 19 un proclama congiunto di Bonaparte e di Saliceti — commissario del Direttorio — prometteva la libertà e l'indipendenza ai lombardi. Da quel momento da tutta Italia accorrono a Milano i sostenitori delle nuove idee; grandi sogni e progetti sono discussi e agitati, a cominciare dall'unità d'Italia; il «Giornale dei patrioti d'Italia» è fondato per promuoverla. Ma già nel celebre proclama ai patrioti italiani del 31 marzo, alla vigilia dell'offensiva, il generale in capo dell'Armée d'Italie aveva così annunciato: «Le gouvernement de la République saura en tous les temps reconnaξtre les peuples qui, par un généreux effort, aideraient à secouer le joug de la tyrannie». Come osservò Stendhal, «questo popolo, tanto lontano da noi nelle idee, credette nella libertà, e tanto più di noi se ne mostrò degno».

Ma, pressoché contemporaneamente, a cominciare da Pavia, si svilupparono anche le prime reazioni popolari alle requisizioni e ai saccheggi, con conseguenti durissime repressioni. Bisognò pertanto innanzitutto garantire la sicurezza delle retrovie e delle comunicazioni, e quindi conciliare esigenze politiche diverse.

Col Direttorio, inoltre, si manifestava la sostanziale divergenza sulla politica da seguire nella penisola e sull'ulteriore sviluppo da dare alle operazioni. «Non lasciate niente in Italia di ciò che ci possa esser utile e che la situazione politica ci consenta di portar via»: tale l'esplicita quanto cinica sua direttiva. Conseguenza strategica di tale impostazione era il concetto che bastasse assediare Mantova e tenere la linea del Mincio; le forze non necessarie a tali scopi potevano essere distratte per la depredazione dell'Italia centrale. Il Direttorio ordinò infatti a Bonaparte di dividere l'armata in due corpi, lasciando il comando di quello d'Italia a Kellermann, col compito di controllare gli austriaci sul Mincio, e di muovere egli coll'altro verso Roma e Napoli. Il generale in capo oppose però un netto rifiuto. Riteneva infatti che fosse preferibile taglieggiare non già i popoli, ma i governanti, e che perciò non fosse opportuno, almeno per il momento, sbalzarli dai troni. Sulla divisione del comando fu quindi irremovibile. Suo obiettivo fondamentale era quello di respingere gli austriaci al di là delle Alpi, e non già quello di dividere pericolosamente le sue forze e d'impegnarle in inutili diversioni. Occupò comunque Livorno, dove furono catturate merci inglesi per 20 milioni, e le Legazioni sino ad Ancona, imponendo al papa una taglia di 15 milioni. Già in precedenza aveva imposto la neutralità e un'indennità di 10 milioni al duca di Parma, e così pure al duca di Modena.

Contemporaneamente, anche il Regno di Napoli si ritirava dal conflitto con la stipula dell'armistizio di Brescia (5 giugno 1796), poi seguìto dalla pace di Parigi (10 ottobre 1796). Se questa non risultò particolarmente gravosa per la corte borbonica, lo si dovette essenzialmente alla visione strategica di Bonaparte, che mirava, senza deviazioni e dispersioni, allo sviluppo del suo piano militare diretto al cuore dell'Austria. Egli aveva del resto ben chiara la consapevolezza che il controllo della pianura padana comportava inevitabilmente il dominio su tutta l'Italia. Napoli, lontana e impotente, era per allora fuori dal suo campo diretto d'azione e d'interesse. Il Direttorio, invece, auspicava la spedizione nel Mezzogiorno essenzialmente a fini depredatori. Pertanto, quando l'armistizio fu concluso, esso ebbe la sua disapprovazione, perché, stupendosi delle buone condizioni concesse, ritenne, del tutto infondatamente, che Bonaparte si fosse lasciato giocare dal negoziatore napoletano, l'abile principe di Belmonte: «Almeno, cittadino generale, avreste dovuto pretendere qualche milione».

La conquista francese della pianura padana stava in realtà stravolgendo, come aveva sin dall'inizio previsto Bonaparte, l'intera situazione strategica nel Mediterraneo occidentale, inducendo la Spagna a stipulare con la Francia l'alleanza col trattato di S. Idelfonso (19 agosto 1796), il che rendeva impossibile il mantenimento del controllo inglese sulla Corsica. Il governo inglese decise inizialmente non solo di evacuare l'isola, ma addirittura di ritirare la flotta dal Mediterraneo. La disposizione fu revocata il 21 ottobre, ma nel frattempo la Corsica era già stata riconquistata dai francesi inviati da Bonaparte al comando di Saliceti.

Invece di limitarsi a tenere la linea del Mincio e a bloccare Mantova, Bonaparte riprese l'offensiva, varcando il 30 maggio il Mincio a Borghetto e costringendo Wurmser, succeduto a Beaulieau, a ritirarsi sull'Adige. I successivi ritorni offensivi austriaci vennero brillantemente stroncati, sia pure in una difficile condizione strategica, in tutta una serie di battaglie: Castiglione (5 agosto), Bassano (8 settembre) e Arcole (17 novembre), sino alla decisiva vittoria di Rivoli (14 gennaio 1797), che determinò la resa di Mantova (2 febbraio).

Sbarazzatosi per il momento degli austriaci, Bonaparte si affrettò ad assestare un nuovo e più decisivo colpo allo Stato della Chiesa; ma non intendeva distruggere il papato, col rischio di scatenare una guerra di religione: gli bastava smembrarne lo Stato, imporgli nuove contribuzioni e sottrarlo all'influenza austriaca. Quanto restava dello Stato pontificio, rovinato finanziariamente e privato delle province più popolose, sarebbe stato ben presto raggiunto dal contagio rivoluzionario, e in breve tempo sarebbe caduto; politica abile, di cui l'avvenire avrebbe dimostrato la giustezza. A Tolentino (19 febbraio 1797) il papa riconosceva la Repubblica, le cedeva tutti i diritti su Avignone e il Contado Venassino, abbandonava alla Cisalpina le Legazioni di Bologna, di Ferrara e di Romagna, dava Ancona in pegno sino alla pace generale, versava 30 milioni d'indennità di guerra.

Tutto il destino di Bonaparte fermentò in questa breve campagna: entrato il 5 febbraio in Ancona, gli si aprirono gli scenari dell'Oriente: gl'inglesi cacciati dal Mediterraneo, il crollo dell'Impero ottomao, il Levante, l'Egitto, la via delle Indie. Questo il sogno che s'impadronì della sua immaginazione e che non cesserà mai d'ossessionarlo. Il 10 febbraio scriveva al Direttorio: «Θ [il porto di Ancona], sotto tutti i punti di vista, essenzialissimo per i nostri rapporti con Costantinopoli; in ventiquattr'ore di qui si passa in Macedonia». E il 15 ribadiva: «Θ necessario alla pace generale conservare il porto di Ancona e farlo restare per sempre francese; esso ci darà una grande influenza sulla Porta ottomana e ci renderà padroni dell'Adriatico, come lo siamo, grazie a Marsiglia e alla Corsica, del Mediterraneo». Di qui l'estrema importanza che egli da allora attribuì alle Bocche di Cattaro e alle isole veneziane dello Ionio. L'Austria non dovrà mai impadronirsene; questa dovrà essere, d'ora in poi, «la grande massima della Repubblica»: «Le isole di Corfù, di Zante e di Cefalonia sono per noi più importanti dell'Italia intera». Un principio che non tarderà a porre in essere a Leoben e a Campoformio.

Intanto, rafforzato dalle nuove vittorie, provvide a dare più stabile e organico assetto all'Italia padana. Negli ultimi difficili mesi, sotto la minaccia delle controffensive austriache e delle agitazioni popolari, egli aveva con forza avvertito che il sostegno, o almeno la neutralità, degli italiani costituiva una necessità imprescindibile di guerra e una condizione fondamentale della vittoria. Infatti, l'ostilità dei vecchi ceti dominanti, che sfruttavano il malcontento popolare per le requisizioni e i saccheggi, rischiava di divenire pericolosa, e così pure le frustrazioni del partito patriota. In effetti, a Milano i patrioti affluivano da tutte le parti d'Italia, e club e giornali politici si moltiplicavano. Ma anche a sud del Po la Rivoluzione stava compiendo significativi progressi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 85

Napoleone e l'Italia: mito e realtà

Nel 1816, dettando a Gourgaud nell'esilio di Sant'Elena le sue memorie sulla campagna d'Italia, Napoleone inseriva un'ampia digressione geografica, strategica e politica sulla Penisola, nella quale riassumeva i suoi giudizi, le sue realizzazioni e i suoi progetti. Avviando la straordinaria elaborazione autobiografica del proprio mito in senso nazionale e liberale, Napoleone mescolava realtà e fantasia, realizzazioni effettive e lontani progetti futuri, proponendo una ricostruzione immaginifica e persino visionaria, ma proprio per questo illuminante, della concezione napoleonica del futuro politico dell'Italia.

Estremamente significative sono le considerazioni geografiche che l'imperatore premetteva, e che a suo avviso avevano fortemente condizionato, nel lungo periodo, le sorti storiche della Penisola. «L'Italia, isolata nei suoi limiti naturali, separata dal mare e da altissime montagne dal resto d'Europa, sembra essere chiamata a formare una nazione grande e potente; ma essa presenta nella sua configurazione geografica un vizio capitale, che si può considerare come la causa delle disgrazie che ha subìto e della divisione del bel paese in parecchie monarchie e repubbliche indipendenti: la sua lunghezza è del tutto sproporzionata rispetto alla sua larghezza. Le tre grandi isole, che non costituiscono che un terzo della sua superficie, hanno interessi, posizioni e condizioni isolate. D'altro canto, la parte della penisola a sud del Velino, e che forma il Regno di Napoli, è estranea agli interessi, al clima, ai bisogni di tutta la valle del Po».

Ciò nonostante, per Napoleone l'Italia costituiva senza dubbio una nazione, destinata prima o poi a unificarsi. Infatti, «sebbene il sud dell'Italia sia, per la sua posizione, separato dal nord, l'Italia è una sola nazione; l'unità dei costumi, della lingua, della letteratura, deve, in un avvenire più o meno lontano, riunire infine i suoi abitanti in un solo Stato». Altro problema sarebbe stata la scelta della capitale, giacché sia Roma e Venezia, che per Napoleone costituivano le candidate più titolate, presentavano degli svantaggi. Ma egli, dopo averne esaminato pregi e difetti, finiva per propendere nettamente per Roma. Questa, oltre ai vantaggi strategici della sua posizione baricentrica, ne presentava soprattutto di morali: «Infine, Roma esiste. Essa offre molto maggiori risorse per i bisogni di una grande capitale di ogni altra città del mondo; essa ha soprattutto dalla sua la magia e la nobiltà del suo nome. Pensiamo quindi che, quantunque non abbia tutte le qualità desiderabili, Roma è, senza dubbio alcuno, la capitale che gli Italiani un giorno sceglieranno».

Ma, per assicurare la propria esistenza, «la prima condizione» del futuro Stato unitario sarebbe stata quella di divenire «una potenza marittima, al fine di mantenere la supremazia sulle sue isole e di difendere le sue coste». Per l'Italia, Napoleone vedeva infatti un grande avvenire marittimo: «Nessun'altra parte d'Europa ha una posizione migliore di quella della Penisola per divenire una grande potenza marittima», soprattutto se a essa si fossero aggiunte l'Istria, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro, le isole Ionie. Straordinarie erano le risorse dei tre grandi porti militari di La Spezia, Taranto e Venezia. La Spezia era infatti «il più bel porto dell'universo, con una rada superiore persino a quella di Tolone», e la cui difesa marittima e terreste era assai agevole. Taranto, in grado di accogliere grandi flotte, era «meravigliosamente collocata per dominare la Sicilia, la Grecia e il Levante, sino alla Siria e all'Egitto».

Passando al bilancio della sua azione politica nei confronti dell'Italia, Napoleone confidava che suo obiettivo fondamentale era stato, sin dal 1796, quello di costituire una o due repubbliche, comunicanti con la Svizzera, che dovevano chiudere in funzione antiaustriaca la penisola da nord a sud, dalle Alpi al Po. In quanto a Campoformio, egli difendeva la cessione di Venezia come fatto del tutto temporaneo e provvisorio, anche perché sarebbe stato impossibile che i veneziani si adattassero al dominio austriaco, per cui, «quando fosse giunto il momento di creare la nazione italiana, questa cessione non sarebbe stata d'ostacolo». Anzi, il periodo di dominio straniero avrebbe fatto accogliere con maggiore entusiasmo il ritorno dei francesi come liberatori. Era quanto, secondo Napoleone, era appunto avvenuto nel 1805, quando i veneziani si erano mostrati persino ben disposti ad accettare Milano come capitale. Egli poi motivava addirittura in senso nazionale le continue scomposizioni territoriali da lui operate, perché si sarebbe trattato di operazioni finalizzate alla rottura degli antichi spiriti municipali e regionali: «I veneziani, i lombardi, i piemontesi, i parmigiani, i bolognesi, i romagnoli, i toscani, i romani, i napoletani avevano bisogno, per divenire Italiani, di essere scomposti e ridotti in elementi; occorreva, per così dire, rifonderli». Egli rivendicava poi a sé l'eliminazione del potere temporale dei papi, che aveva da sempre costituito il principale ostacolo all'unificazione italiana. Per cui se ai Comizi di Lione egli aveva affermato che gli «occorrevano vent'anni per formare la nazione italiana», gliene erano in effetti bastati quindici. Infatti, «tutto era pronto, ed egli non attendeva che la nascita di un secondo figlio per condurlo a Roma, coronarlo re degli Italiani sotto la reggenza del principe Eugenio, e proclamare l'indidenza della Penisola, dalle Alpi allo Ionio, dal Mediterraneo all'driatico».

In effetti, al di là degli scenari visionari e profetici del prigioniero di Sant'Elena, è indubbio che Bonaparte sia stato sempre affascinato dall'idea dell'unità italiana. Già nel 1797, a Lallement, che si dichiava contrario ad ogni progetto in tal senso («Non si potrà mai fare un solo popolo dei lombardi, dei piemontesi, dei toscani, dei genovesi, dei napoletani e dei romani»), il generale aveva replicato che «si trattava tuttavia d'una bella idea». Fatto sta che a Sant'Elena, forgiando la sua leggenda, egli cercava di accreditare il mito di un'azione continua, rettilinea e deliberata a favore dell'unità italiana.

Ben diversa — e soprattutto più complessa e contraddittoria — era la realtà storica. In effetti, come ha rilevato Carlo Zaghi, «tre personalità distinte, e dai tratti ben marcati, convivono in Napoleone: il generale, il primo console e l'imperatore, ciascuna con caratteri inconfondibili, che si sovrappongono e si contrappongono nello stesso tempo tra di loro. Tre personalità con atteggiamenti e politiche diverse, per non dire opposte, a cui corrispondono tre momenti particolari della sua carriera, che potrebbero riassumersi, dialetticamente, nel liberatore, nel costruttore e nel dittatore. Come generale Bonaparte è il liberatore della penisola, il rivoluzionario che nel 1796 chiama gli italiani a spezzare le catene del servaggio, ad insorgere contro i tiranni, ad armarsi ed organizzarsi in libere repubbliche. [...] Quale primo console, è il legislatore che si presenta sulla scena dell'Europa come l'erede, ad un tempo, del secolo dei Lumi e delle grandi conquiste della rivoluzione. [...] Come imperatore, è l'uomo che fa scempio della sovranità popolare dopo averla esaltata», e che fa dell'Italia, dopo averla liberata e rimaneggiata, una vasta colonia dell'impero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 251

Geopolitica

Giovanni Brancaccio


Alla vigilia della campagna di Russia, l'Impero napoleonico appariva come il risultato di un'eccezionale conquista militare. La poderosa macchina bellica francese aveva infatti permesso di realizzare quella originale costruzione, dando piena concretezza ai disegni egemonici dell'imperatore. L'obiettivo di quella conquista e la formazione del Grande Impero, i cui confini geografici nel 1812 si estendevano dalla penisola iberica fino alla Polonia, furono infatti il risultato elaborato dalla fervida mente di Napoleone. All'interno del sistema politico continentale, che con al "centro" la Francia aveva trasformato, nell'arco di appena quindici anni, la mappa geopolitica dell'Europa, modificandone profondamente gli assetti di potere preesistenti e i limiti geografici, la penisola italiana occupò, sin dall'inizio della sua formazione, un posto di primo piano. L'Italia, che per la Francia rivoluzionaria aveva avuto un'importanza secondaria, acquistò, a partire dalla prima folgorante campagna militare condotta da Napoleone nella penisola, un notevole rilievo geopolitico, destinato a durare tutta l'età napoleonica.

Le pagine dedicate nel Memoriale di Sant'Elena alle operazioni di guerra del 1796-1797 consentono di cogliere quale visione il generale avesse del bel teatro d'Italia e il ruolo strategico che egli assegnasse già allora alla penisola nel suo articolato e complesso disegno geopolitico. Avvalendosi del sussidio di una grande carta topografica del territorio italiano, servendosi di un compasso, di una matita rossa e di una cordicella per misurare le distanze, l'imperatore scriveva un vero e proprio saggio di geografia politica sull'Italia, la cui lettura risulta illuminante per l'individuazione dei molteplici motivi che spinsero Napoleone ad attribuire all'Italia una collocazione tanto rilevante nello scacchiere della politica internazionale. Nel delimitare i suoi confini settentrionali, che gli apparivano come un grosso semicerchio, Napoleone li fissava sulla foce del Varo ad ovest e su quella dello Isonzo ad est. Il contorno del sistema alpino segnava i limiti naturali del "continente italiano"; l'imperatore, tuttavia, seguendo il tracciato della catena delle Alpi Carniche, inglobava nel territorio italiano la contea di Gorizia e una parte dell'Istria fino a Fiume, escludendo la Dalmazia e le Bocche di Cattaro, nonostante fossero state per secoli sotto il dominio della Serenissima. Del sistema geografico italiano erano parte integrante le due grandi isole mediterranee: la Sicilia e la Sardegna e l'arcipelago maltese. Napoleone riteneva che la configurazione dell'Italia, la sua forma allungata e la sua scarsa larghezza avessero contribuito in misura determinante ai destini del paese, avvantaggiando le forze centrifughe, che avevano sempre teso a dividerla piuttosto che a unirla. Nel valutare le caratteristiche del sistema marittimo peninsulare con i suoi principali porti del Tirreno e dell'Adriatico, l'imperatore però vi aggiungeva anche i porti di Ragusa, della Dalmazia e delle Bocche di Cattaro. Il che autorizza a ritenere che la visione geopolitica che Napoleone ebbe dell'Italia non fu mai scissa da quella del Grande Impero, sebbene egli individuasse con acume le specificità territoriali e fisiche della penisola. A dispetto del frammentarismo politico dell'Italia, Napoleone, attribuendo una singolare rilevanza anche ai fattori geografici umani, osservava che la popolazione italiana poteva contare su elementi di un forte potere aggregante come la lingua, la cultura, la demografia e la professione di un'unica religione. Nel considerare l'insieme di questi fattori e nel rilevare l'alto livello di civiltà dell'Italia, l'imperatore si spingeva fino a preconizzare la formazione di uno Stato unitario italiano, la cui capitale avrebbe dovuto essere, per il suo glorioso passato e per la sua posizione geografica, Roma, anche se la città era priva di un grande porto. Né l'annessione del Piemonte, di Parma, della Toscana e della stessa Roma alla Francia stridevano con quello auspicio. Napoleone, infatti, aveva più volte affermato che l'aggregazione di quelle regioni alla Francia era un fatto temporaneo, funzionale a «garantire e far progredire l'educazione nazionale degli Italiani». Nel discutere dell'Italia con l'imperatore, Las Cases si diceva convinto che nel progetto napoleonico fosse maturata da tempo l'idea di dar vita a una nazione indipendente. Il Las Cases ricordava come nelle Memorie per servire alla storia di Francia, dettate da Napoleone al generale Montholon, l'imperatore facesse cenno al disegno di favorire la formazione di uno Stato unitario, di un «grande e potente Regno, (che) avrebbe limitato la Casa d'Austria per terra, e sul mare le sue flotte, insieme con quelle di Tolone, avrebbero dominato il Mediterraneo e protetto la vecchia rotta del commercio con le Indie attraverso Suez e il Mar Rosso». A conferma del ruolo centrale affidato da Napoleone all'Italia nello scacchiere geopolitico internazionale, soprattutto in quello mediterraneo, va osservato come l'imperatore riservasse attenzione particolare agli arsenali della penisola, alla loro capacità di costruire nuove navi da guerra ed alla consistenza delle flotte dei singoli Stati. Ciò nondimeno, sarebbe fuorviante sostenere che Napoleone pensasse alla formazione di uno Stato unitario italiano autonomo fuori dall'orbita francese. Nel pensiero napoleonico l'Italia continuò a essere considerata una componente essenziale del Grande Impero, la cui struttura gerarchica ruotava intorno all'asse francese. All'interno di quella vasta compagine la Francia, che aveva assunto le funzioni di pivot area, detenne un indiscusso primato fino al suo definitivo sfaldamento. Nel saggio di geografia politica tracciato dall'imperatore la ricostruzione storica del ruolo geopolitico ricoperto dall'Italia nel sistema imperiale era ovviamente maturata nel quadro di una rievocazione complessiva del passato, insomma, di un ampio sguardo retrospettivo, nel quale Napoleone aveva — come si è detto — riservato ai fattori geografici umani e culturali un posto pari, se non addirittura maggiore, ai fattori della geografia fisica. Ma, quali erano state le tappe del percorso storico che durante l'età napoleonica avevano segnato la proiezione dell'Italia in una posizione così rilevante nell'assetto politico che l'imperatore aveva dato all'Europa negli anni del suo incontrastato dominio? La nomina a comandante dell'armata d'Italia, ottenuta il 2 marzo del 1796, la rapidità dei successi militari sui piemontesi e gli austriaci, il ritiro del re di Sardegna dalla coalizione antifrancese (armistizio di Cherasco del 28 aprile), la cessione di Nizza, della contea di Tenda e della Savoia alla Francia (trattato di Parigi del 15 maggio), l'assoggettamento del Piemonte, l'opzione per la guerra d'azione, la battaglia di Lodi (10 maggio), il controllo totale della Lombardia e l'ingresso trionfale a Milano (15 maggio), il decisionismo politico e l'autonomia delle iniziative mostrati da Napoleone verso le direttive impartitegli dal Direttorio, la sua ferma opposizione a dividere il comando con il generale Kellermann furono tutti elementi che favorirono la valorizzazione strategico-militare e politico-diplomatica del "teatro italiano" nella politica estera della Francia rivoluzionaria. Nel corso di poco più di un anno e mezzo, dal 15 maggio del 1796 al 17 novembre del 1797, giorno in cui partì dall'Italia, per assumere il comando della spedizione in Egitto, Napoleone non si limitò a fruire della gloria derivatagli dalle numerose battaglie vinte contro il nemico (Lonato, Castiglione dello Stiviere, Bassano, San Giorgio, Arcole, Rivoli Veronese, la capitolazione di Mantova) ma, con il precipuo intento di sfruttare i successi militari ottenuti in Italia per i suoi disegni di potere, avviò la costruzione di nuovi istituti politici e di nuovi apparati statuali nella parte continentale della penisola che dalla Liguria si estende fino al Veneto. La nascita della Repubblica Cispadana, proclamata il 27 dicembre 1796 a Reggio Emilia «una e indivisibile», che comprendeva i territori di Modena, Reggio, Ferrara e Bologna, e che, nel marzo del 1797, ottenne una costituzione modellata su quella francese del 1795, e la formazione della Repubblica Transpadana, che invece oltre al Milanese si estendeva sui territori del Bergamasco, del Bresciano e del Cremonese, modificarono l'assetto territoriale degli Stati italiani, che fu di nuovo rimaneggiato dopo la fusione della Cispadana e della Transpadana nella Repubblica Cisalpina (9 luglio), nella quale entrarono a far parte anche Massa, Carrara e la Garfagnana, dopo la nascita della Repubblica Ligure, democratizzata il 6 giugno, e soprattutto dopo l'invasione e la soppressione dell'antica neutrale Repubblica Veneta. Le condizioni di Venezia, rispetto ai preliminari di pace dettati all'Austria da Napoleone a Leoben, risultarono infatti aggravate dal trattato di Campoformio (17 ottobre 1797). Il territorio veneto fu smembrato; la parte che si estendeva dall'Adige all'Istria e alla Dalmazia passò sotto il dominio dell'Austria, in cambio del controllo della riva sinistra del Reno e della rinunzia da parte austriaca del Belgio e della Lombardia. Certo, con l'acquisto di Venezia gli Asburgo, sebbene Napoleone si assicurasse il controllo del porto di Ancona e il dominio su Corfù e le isole Ionie, estesero la loro egemonia nell'Adriatico; tuttavia, Napoleone ottenne dall'Austria, cioè dalla maggiore potenza continentale europea, nonostante l'opposizione espressa da una parte del Direttorio, che con Reubell sosteneva, in nome del "sistema del Reno", che le conquiste italiane dovevano servire solo come merce di scambio e che pertanto era necessario sacrificare tutto in cambio della Renania, il riconoscimento diplomatico della Repubblica Cisalpina, il cui territorio, nell'inglobare la Lombardia austriaca, con la Valtellina e Mantova, la provincia di Verona e Rovigo, il Ducato di Modena, i Principati di Massa e Carrara, la Legazione di Bologna, Ferrara e Romagna, si estendeva fino ai confini austriaci. L'effetto geopolitico più rilevante scaturito dalla prima campagna napoleonica in Italia fu dunque non solo l'imposizione all'Austria della pace, ma soprattutto la creazione di una nuova formazione politica, la nascita cioè di uno Stato rivoluzionario, la cui esistenza, riconosciuta da Vienna, modificò profondamente — come si è detto — il quadro territoriale della penisola e mobilitò i patrioti settentrionali, che intravidero nella Repubblica Cisalpina, le cui istituzioni furono esemplate su quelle francesi, il primo nucleo di un futuro Stato nazionale italiano.

| << |  <  |