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| << | < | > | >> |Indice9 1. Una sfida giunta dal nord 24 2. Una destra «nuova»? 39 3. Destra nuova, ma «estrema»? 48 4. Equivoci populisti 65 5. Le Nuove destre e l'antipolitica 79 6. Dinamiche elettorali e ipotesi esplicative 92 7. Il declino delle passioni politiche 110 8. La delegittimazione del pubblico 120 9. La chiusura oligopolistica del mercato politico 131 10. Variazioni antipolitiche 153 11. Dall'Europa all'Italia 169 12. La democrazia contro il demos 195 Elenco delle sigle di partito 197 Indice dei nomi |
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Una sfida giunta dal nord
Non c'eravamo abituati. Da sempre, o quasi, le turbolenze politiche sono state prerogativa esclusiva dell'Europa meridionale e di quella di mezzo. Stavolta è dal nord che ha cominciato a propagarsi un moto d'inquietudine tanto vasto quanto sorprendente. Nell'ordinata, prospera e civile Scandinavia e, più precisamente, in Danimarca, nel lontano 1972, un ricco avvocato tributarista, estraneo alla politica, fondava il Fremskidtspartiet. Il quale, solo un anno dopo, alle elezioni politiche, sarebbe divenuto, con il 16 per cento dei voti, il secondo partito del paese. Tanto semplice quanto perentoria, l'offerta politica avanzata dal Partito del progresso rinverdiva una tradizione antichissima - quella della protesta contro il fisco - ma giungeva comunque inaspettata. In uno dei paesi in cui il welfare era cresciuto più vigoroso ed efficiente, il nuovo partito se la prendeva con lo Stato, tacciandolo d'essere troppo ingombrante, troppo invadente e, soprattutto, eccessivamente costoso. Contestualmente, l'offensiva si appuntava con rabbia contro i partiti convenzionali, di sinistra o di destra, rei di aver sequestrato la scena politica. L'esperimento danese avrebbe presto fatto scuola. Neanche un anno più tardi, in Norvegia, un giornalista, con qualche trascorso fascista, fondava un partito anch'esso con un programma antifiscale e antiwelfare, attribuendogli niente meno che il proprio nome. Quest'ultima invenzione, si sa, avrebbe trovato non pochi imitatori. Per intanto, dopo la scomparsa di Anders Lange, nel 1977, i suoi compagni d'avventura avrebbero dato vita a un Partito del progresso (Fremskrittspartiet) non molto diverso dal confratello danese. Ma il 1972 non fu solo l'anno del Fremskidtspartiet. Ci si sarebbe prestata la dovuta attenzione solo più tardi, ma a ottobre di quell'anno anche sulla ribalta politica francese si registrava una new entry. Ex legionario in Indocina, eletto deputato al seguito di Pierre Poujade, prima d'arruolarsi volontario in Algeria (sarà più tardi accusato di aver preso parte alle torture contro gli insorti), Jean-Marie Le Pen fondava il Front national, nell'intento di assemblare i molti e sparsi frammenti di una destra estrema antica e fertile come quella transalpina, magari sfruttando il cospicuo bacino elettorale costituito dai pieds-noirs. Copiata la fiamma tricolore dal Msi, tranne rimpiazzare il verde col blu, il programma del nuovo partito non si prestava a equivoci. Voleva essere un partito d'estrema destra, nazionalista, tradizionalista, autoritario. Incrociando stavolta una vecchia matrice fascista con più attuali rivendicazioni separatiste, al Front national si sarebbe sei anni dopo affiancato il Vlaams Blok. Il Belgio è non da oggi traversato da una profonda frattura linguistica e culturale. In quegli anni cominciava a riaccendersi l'antico contrasto tra Fiandre e Vallonia. La prosperità delle prime e il declino economico della seconda nutrivano nuove ambizioni secessioniste, specificamente coltivate dal Vlaams Blok. Dal canto suo la Vallonia non si è tirata indietro. Dal vecchio tronco della destra fascista locale nel 1985 è gemmata una versione indigena del Front national, che avrà pure minor consistenza del suo corrispettivo fiammingo, ma non è un partito irrilevante: nel 2004, alle elezioni regionali, ha ottenuto in Vallonia un 8 per cento dei voti tutt'altro che tranquillizzante. Pure in Gran Bretagna, all'alba degli anni ottanta, vedrà la luce un nuovo partito fatto della medesima pasta. C'era stato un precedente: quello del National Front, una formazione razzista e non priva di legami con la tradizione fascista d'oltre Manica, attiva da metà anni sessanta. Da una sua scissione è nato nel 1980 il British National Party, anch'esso col suo bravo programma nazionalista ed estremista. Alla stessa categoria dei revenants nella Repubblica federale tedesca c'è addirittura da ascrivere un'intera costellazione. Fin dal dopoguerra ci si era provato più volte a dar vita a un partito neonazista. Nel 1969 la Nationaldemokratische Partei Deutschlands aveva sfiorato la fatidica soglia del 5 per cento dei voti. Rimasta da allora ai margini, la Npd ha appena fatto la sua ricomparsa nell'ex Germania orientale. Nel frattempo si sono fatti vivi la Deutsche Volksunion nel 1971 e i Republikaner, fondati nel 1983 a Monaco da due dissidenti della Csu bavarese di Franz Joseph Strauss. Conservatori, nazionalisti, euroscettici, anzi euroostili, soprattutto questi ultimi sono stati sempre piuttosto attenti a non incappare nei rigidi vincoli posti dalla legislazione federale per scongiurare ogni rischio di resurrezione del nazismo. Prima i progressisti scandinavi e poi i neofascisti, o giù di lì: senza concertazione alcuna, le traiettorie degli uni e degli altri inizieranno a ravvicinarsi a metà anni ottanta. A fare il primo passo è stato il Front national. Nato come partito neofascista, non privo di accenti antisemiti e negazionisti — il suo leader definirà le camere a gas nulla più che «un dettaglio nella storia della seconda guerra mondiale» — il Front rinnovava i contenuti della sua offerta politica e si metteva, pur non troppo apertamente, in sintonia coi segnali sopraggiunti dal nord. Il passato non si dimentica e semmai la memoria si aggiorna: in un paese dove gli immigrati erano considerevolmente cresciuti di numero il nazionalismo autoritario del Front national si evolveva in un discorso ferocemente xenofobo, ossessivamente insistente sui temi della criminalità e della sicurezza, incrociato con la protesta antifiscale e antiwelfare, pur se temperata dalla richiesta di misure protettive a vantaggio dell'economia nazionale. Provvedevano a insaporire l'amalgama una dose robusta di antieuropeismo e un'idea plebiscitaria di democrazia, che nella tradizione d'oltralpe vantava qualche significativo precedente. | << | < | > | >> |Pagina 16L'elenco può a questo punto fermarsi. Noioso come tutti gli elenchi, è tuttavia utile a mostrare la vastità e ubiquità di un fenomeno, dove l'Italia com'è noto non manca di fare la sua figura. Nei primi anni novanta era entrata in scena la Lega, col suo discorso secessionista, antistatalista, antipartitico, antifiscale, antimeridionale, voltosi rapidamente in razzismo. Dieci anni più tardi sulla scena ha fatto irruzione Forza Italia, la quale, sommata ad Alleanza nazionale, frutto di un imprevisto restyling del vecchio Msi, ha permesso all'Italia non solo di recuperare il terreno perduto, ma di prendere parecchio vantaggio sui vicini europei a seguito delle tornate elettorali del 1994 e del 2001.L'Italia vanta anzi il discutibile privilegio di essere il primo paese d'Europa in cui non solo questa nuova genia di partiti è arrivata al governo, ma in cui vi si è addirittura insediata con una coalizione costituita in prevalenza da essi. Si può obiettare che per quanto singolare sia il liberalismo di Berlusconi, esso è dopo tutto più prossimo al thatcherismo che non ai sentimenti nazionalisti e xenofobi di molti dei partiti fin qui ricordati. Non solo, ma Forza Italia si è impegnata allo spasimo per essere accolta nella rispettabile famiglia del Partito popolare europeo. Come sottovalutare però l'acquiescenza di Forza Italia nei confronti del messaggio, intriso di umori razzisti, della Lega? E come ignorare il suo stile politico, a dir poco anomalo? La sua strettissima dipendenza dal proprio leader, le sue furibonde polemiche contro la politica convenzionale e l'insofferenza verso ogni forma di dissenso politico non sono più rubricabili come vizi giovanili e perciò transitori. Sono elementi costitutivi della fisionomia del partito, che, se non gli hanno precluso l'ammissione al Ppe, né la possibilità di radicarsi nei circuiti del potere, appaiono comunque difficilmente riconducibili al mainstream dei partiti conservatori e moderati. Quanto ad Alleanza nazionale, Fini avrà pure smesso di ritenere Mussolini il più grande statista del XX secolo, compiendo apprezzabili sforzi per prendere le distanze dal passato, ma è dubbio che militanti e quadri si siano pienamente adeguati alla svolta. Né appaiono troppo rassicuranti i toni adottati quando si tratta il tema dell'immigrazione e soprattutto l'idea di democrazia che il partito propugna. Ben che vada, An va ritenuta una formazione di confine. | << | < | > | >> |Pagina 242.
Una destra «nuova»?
Ascrivere alla destra la composita galassia di forze politiche di cui si è parlato è la scelta classificatoria a prima vista più ovvia. Ma non sempre la scelta più ovvia è la più sicura e appropriata. Di acqua sotto i ponti ne è trascorsa parecchia dacché le destre - liberali, conservatrici, borghesi, confessionali che fossero - si mostravano reticenti ad autodefinirsi tali, preoccupate com'erano di non scoraggiare il voto popolare. C'è voluta la controrivoluzione conservatrice e neoliberale di Margaret Thatcher e Ronald Reagan per riabilitare la destra, fra le altre cose imponendo un sorprendente rovesciamento di posizioni. Se, per antica convenzione, dalla destra ci si attende il mantenimento dello status quo e dalla sinistra che lo rinnovi, da allora la destra è riuscita a proporsi quale principio di cambiamento, mentre la sinistra è presentata - finanche dalle sue componenti che si sono più affrancate dalla tradizione - come legata al passato e caparbiamente immobilista. Eppure, non è detto che basti. Anche se il clima politico è profondamente mutato, qualche riluttanza a dirsi di destra permane, tra le destre vecchie e ancor più fra le nuove. E i dubbi sussistono pure tra coloro che osservano queste ultime, i quali talvolta ritengono una simile classificazione o inapplicabile ad esse, o insufficiente, come del resto dimostra il frequente ricorso a una categoria spazialmente indifferente com'è quella di populismo. In effetti, se il Front national di Le Pen non esita a rivendicare la propria appartenenza alla destra - seppur precisando «nazionale, popolare e sociale» - e se così fa pure Alleanza nazionale, tra le Nuove destre non mancano partiti che ignorino il dilemma destra/sinistra, o che apertamente lo rifiutino, o che ancora ne proclamino il superamento. Mettiamo da parte Umberto Bossi, il quale or non è molto proclamava la coesistenza entro la Lega Nord di una destra, di una sinistra e di un centro. Numerosi sono i partiti che con il loro stesso nome coltivano il dubbio o evocano tutt'altre affinità. Vi è chi ha mantenuto la sua vecchia denominazione o l'ha appena aggiornata. L'elvetica Unione democratica di centro (in francese e in italiano) seguita a chiamarsi in tedesco Schweizerische Volkspartei; in Austria la Fpö resta tale, salvo autodenominarsi al contempo Liberali; in Portogallo il Cds ha affiancato al suo nome originario quello di Partito popolare. A suo tempo, le Nuove destre scandinave, che erano sorte ex novo, avevano preferito chiamarsi partiti «del progresso» (tra cui quello norvegese si definisce «un partito liberale»). E da ultimo, il partito nato in Danimarca dalla secessione dei progressisti ha prescelto il nome di Partito del popolo. Accantonata la disputa sui nomi, sempre che si creda alle collocazioni spaziali, non v'è altro modo per precisare quella delle Nuove destre che concentrarsi su cosa esse dicono, sui discorsi che elaborano, sull'ideologia che professano, ammesso che ne abbiano una, sui valori e le politiche che propugnano, soffermandosi non già sugli interventi più direttamente indirizzati al grande pubblico, i cui toni esasperati potrebbero risultare fuorvianti, bensì sui loro documenti programmatici, elettorali e non. | << | < | > | >> |Pagina 27Un posto di assoluta preminenza nei documenti programmatici delle Nuove destre è riservato pertanto alla famiglia. «I legami di intimità tra marito e moglie e tra figli e genitori - recita il programma del Dansk Folkeparti - sono i pilastri della società danese, fondamentali per il futuro del paese». «La famiglia quale nucleo della società costituisce un valore fondamentale duraturo, soprattutto in un'epoca di globalizzazione», dichiara l'Udc svizzera. «Un popolo non può esistere senza famiglie», sia ben chiaro convenzionali, proclamano i Republikaner. E, ancor più stentoreo, il Front national attribuisce alla famiglia il compito di assicurare «non solo il rinnovamento delle generazioni, ma anche la trasmissione dei valori, delle norme e delle tradizioni di civiltà del popolo cui appartengono i suoi membri».Ancora: per Alleanza nazionale, se la famiglia è stata negli ultimi decenni «spesso ignorata, ovvero parificata a realtà di convivenza da essa profondamente diverse [...] sulla scia di una pseudo cultura libertaria e sessantottina, [che] è stata di sostanziale sfavore verso la famiglia», tempo è venuto di porvi rimedio, anche attraverso l'intervento dello Stato. Concordano con quest'idea i Republikaner tedeschi, mentre la più parsimoniosa Udc si distingue chiedendo unicamente più autonomia per le famiglie e meno pretese di uguaglianza tra i generi: «ogni famiglia deve regolare sotto la sua responsabilità la ripartizione dei compiti al suo interno». Cosicché l'Udc promette «la soppressione dell'ufficio per l'uguaglianza tra i sessi e di altri uffici che incoraggiano una regolamentazione statale della famiglia». Alleanza nazionale si mostra anche particolarmente favorevole a misure che sblocchino il ristagno demografico, mentre il Front national non solo chiede allo Stato di largheggiare in aiuti alle famiglie, e di scoraggiare l'aborto e le nascite al di fuori del matrimonio, ma avanza la proposta niente meno d'istituire un «suffragio universale integrale», che consenta ai capifamiglia di esprimere tanti voti alle elezioni quanti sono i figli minori, riconoscendo in tal modo anche a questi ultimi il diritto alla rappresentanza. Com'è naturale, tra i valori della tradizione spicca pure la religione, essenzialmente intesa però - in situazioni in cui la pratica religiosa langue da decenni - quale principio d'identità, opponendo fieramente il cristianesimo all'islam, la cui pratica le Nuove destre vorrebbero a volte addirittura reprimere. Più sbrigativi e più laici, svizzeri e fiamminghi ignorano la questione. Ma non così il Dansk Folkeparti, per il quale «il Cristianesimo è stato onorato in Danimarca per secoli ed è parte integrante della vita danese», mentre con la medesima perentorietà il Partito del progresso norvegese si appella all'«eredità culturale basata sulla filosofia cristiana». La reintroduzione delle assemblee religiose nelle scuole è addirittura promessa dal British National Party e i Republikaner a gran voce proclamano: «individui e comunità non sopravvivranno a lungo senza una religione che dia senso alla loro vita e sia profondamente radicata nel popolo. Essi troveranno significato e compimento della loro esistenza solo riconoscendo le indicazioni che la religione offre loro». Per i Republikaner questa religione può essere unicamente il cristianesimo: d'altronde, «dalla religione discende la nostra aspirazione alla libertà, alla democrazia, alla giustizia. A maggior ragione rifiutiamo la società multiculturale». Ed è perciò una minaccia al «carattere cristiano della Germania» che le Chiese stesse in tanti casi «intend[ano] se stesse solo come delle istituzioni sociali... Chi non pone più in primo piano la parola di Dio, ma parole d'ordine di sinistra, perde il suo diritto a esistere». Con accenti non molto diversi il Front national auspica la «reintroduzione del Sacro»: «i nostri contemporanei non hanno fame solo di pane. Ne sono conferma il successo delle sette, così come l'impiego massiccio di tranquillanti». Citando Max Weber, dopo aver citato Lévi-Strauss, il ragionamento si conclude affermando che «la progressiva secolarizzazione della società occidentale dopo il XVI secolo [...] ha una grande responsabilità nel "disincanto del mondo moderno"». Spesso conformiste sul piano culturale e morale, e perciò anche avverse all'omosessualità (che diviene ossessione nei discorsi di Umberto Bossi e di qualche antico neofascista più coriaceo) e a ogni possibilità di utilizzo legale delle droghe, anche solo di quelle leggere (con qualche eccezione, in Norvegia ad esempio), le Nuove destre ribadiscono il loro tradizionalismo culturale con la paradossale richiesta di una rafforzata tutela degli agricoltori e del mondo rurale, benché in larga parte urbano sia il loro elettorato. | << | < | > | >> |Pagina 35C'è poi il caso di An, che, quanto a contorsioni, non ha probabilmente rivali. Se per un verso celebra lo Stato, per un altro si preoccupa di non ricadere nello statalismo d'impronta fascista. Così contestualmente si proclama a favore della competitività e dell'impresa e tributa espliciti omaggi al suo passato corporativo allorché detta i compiti dell'impresa stessa e ne sottolinea la funzione sociale. Il risultato è un groviglio propositivo in cui le imprese vengono definite «premesse indispensabili per sostenere e sviluppare gli impegni sollecitati dall'imperativo della solidarietà e dalla lotta alla disoccupazione», mirando però a conciliare la loro attività con «una nuova concezione del welfare, fondata sulla centralità della famiglia e sul protagonismo della società civile organizzata, del "privato sociale" e del Terzo settore, secondo il modello del welfare di comunità (welfare community o welfare society), che vede il motore della solidarietà in quelle appartenenze comunitarie che sono il vero collante della società civile».| << | < | > | >> |Pagina 655.
Le Nuove destre e l'antipolitica
Se però il populismo costituisce un terreno alquanto scivoloso, che è opportuno evitare, il problema di identificare le Nuove destre rimane. La cura con cui esse alternano complesse elaborazioni programmatiche e brutali discorsi pubblici, insieme alla loro disponibilità (a quanto ne sappiamo finora) a sottomettersi al verdetto degli elettori, impedisce di ridurle troppo semplicisticamente al fascismo e ai suoi epigoni. Che non vada ricercato allora nell'ambiguo rapporto che esse intrattengono con i princìpi democratici e la politica - ovvero nell'«antipolitica» - il loro tratto più tipico e anche il più utile a definirle? Il termine antipolitica ha fatto il suo ingresso nel lessico politico corrente attraverso la frontiera che separava l'Europa dell'Ovest da quella dell'Est. In Cecoslovacchia, in Ungheria e in Polonia negli anni ottanta s'indicava in tal modo, in alternativa alla formula della società civile, la ripresa d'iniziativa politica da parte di taluni settori sociali - dai circoli intellettuali agli operai - sottrattisi a una prolungata condizione di rassegnazione e torpore e postisi in contrasto con la politica ufficiale degli apparati statali e di partito. Non era un termine originale. Tant'è che adesso che è entrato nel linguaggio corrente, così come in quello scientifico e in quello politico, c'è chi ne ha ricostruito la genealogia, né recente, né ignobile. Il limite dell'antipolitica è che serve anch'essa a denominare troppe cose, spesso interconnesse, ma pur sempre diverse, non senza suscitare qualche dubbio sulla piena fruibilità di un concetto di nuovo conteso fra più linguaggi. Proviamo a fare un po' d'ordine. In una prima, più larga e forse più consolidata accezione, l'antipolitica è diventata sinonimo di malessere democratico. Ovvero, vengono designate in tal modo le forme di disaffezione, scontento e ostilità, nei riguardi della politica - quale principio regolativo, come professione, come azione collettiva - che sono in gran copia fiorite negli ultimi decenni. Ciò detto, conviene quanto meno distinguere tra atteggiamenti e comportamenti antipolitici. Rientrano tra i sentimenti antipolitici lo scetticismo, la rassegnazione o il rifiuto di chi non si considera all'altezza della politica, di chi sul piano cognitivo non la capisce e si sente escluso, ma anche il rancore di chi giudica la politica irrimediabilmente estranea alle sorti dei cittadini. Quanto ai comportamenti antipolitici, essi corrispondono alla protesta attiva contro la politica, nelle piazze, o al riparo della cabina elettorale, vuoi votando i partiti non convenzionali, vuoi non votando, vuoi erraticamente mutando le proprie scelte di voto. In una seconda accezione, per antipolitica s'intende una folla di discorsi e retoriche, non privi di qualche assonanza col populismo, ma specificamente critici nei confronti della politica. Molto opportunamente, e puntigliosamente, qualcuno li ha riordinati, distinguendoli in due categorie principali, ciascuna delle quali è a sua volta divisa in più sottotipi. Da un lato vi sarebbero le retoriche che definiscono la politica superflua, e perciò da sopprimere, o da ridurre al minimo; dal lato opposto vi sono le retoriche per le quali la politica è da sottomettere, o da rinnovare radicalmente. Per la prima categoria di retoriche, lo spazio della politica può essere vantaggiosamente svuotato. Sono da ascrivere ad essa le dottrine individualistiche estreme e quelle dell'ordine spontaneo; le dottrine che rifiutano il pluralismo e predicano l'uniformità; quelle che sostengono l'impossibilità per la politica di correggere le leggi naturali che regolano la società, mentre buone ultime vengono le dottrine che contestano la possibilità d'istituire una qualche forma d'ordine sociale per il tramite della politica. La seconda categoria di retoriche antipolitiche propone invece di assoggettare la politica ad altre sfere. Ad essa appartengono il discorso tecnocratico, la concezione «amorale», secondo cui la politica è solo perseguimento strategico di fini privati, l'antipolitica «morale» propria dei fondamentalismi religiosi e quella «estetica», che nega la politica come linguaggio, come argomentazione e «deliberazione», per amputarla a mero spettacolo. | << | < | > | >> |Pagina 107Particolare rilievo assumeva la funzione informativa e pedagogica assolta - certo in maniera imperfetta e venata di paternalismo - dai partiti. Se l'uomo è un animale sociale, non necessariamente è un animale politico. Non è istintivamente propenso a occuparsi della cosa pubblica, come non è naturaliter capace di apprezzare un'opera artistica e letteraria. Anche la politica è un codice a sé, che richiede un discreto livello di competenza, non solo perché lo si condivida e lo si utilizzi, ma anche perché ci si senta autorizzati ad adoperarlo. Conviene ripeterlo: quello del cittadino consapevole e responsabile, che ha chiare preferenze, che soppesa le diverse alternative che gli vengono offerte, è solo un modello ideale, che assai ambiguamente le versioni divulgative della democrazia come mercato hanno accreditato. Al più è un modello applicabile a una quota assai ridotta degli elettori, ovvero a coloro che dispongono di livelli d'istruzione sufficienti, che sono stati socializzati ai codici della politica, o che si trovano inseriti in reti sociali che riconoscono al voto un qualche valore.Lo strumento principe per essere socializzati ai codici della politica è ovviamente la scuola: seppur quella che propone idee generali e suscita attitudine alla critica e alla riflessione, e non quella che si contenta di somministrare, magari a prezzi di mercato, know-how spendibili sul mercato medesimo. Per gli strati meno istruiti erano invece i partiti a svolgere un'azione di supplenza, riducendo la propensione a estraniarsi di alcune categorie sociali, o le difficoltà che esse incontravano a partecipare al gioco democratico. Nessuno - o quasi - da ultimo assolve più tale compito, contentandosi dell'azione informativa dei media. Allorché gli elettori non controllano i codici della politica, e quando mancano reti di relazioni che li includano e li orientino, è legittimo quindi supporre che non solo malessere e insoddisfazione si accumulino, e aumentino le probabilità di distacco e di astensione, ma che insorgano anche altri inconvenienti. Se il clima elettorale è riuscito comunque a mobilitare tali elettori, è più probabile che al momento del voto prevalgano la deferenza clientelare, l' appeal mediatico del candidato, la conformistica accettazione degli stereotipi più ovvi (l'identificazione dell'immigrazione con la criminalità, o con la disoccupazione, per esempio), oppure ancora l'attrazione del successo, donde la preferenza accordata ai ricchi, ai potenti e alle vedette dello spettacolo e dello sport. Al generalizzato declino dei partiti non si sottraggono neppure, magari solo provvisoriamente, quelli d'opposizione, incapaci ormai di drenare il malcontento circolante nel sistema politico e di renderlo politicamente fecondo. Ebbene, dando pure per scontato che il mutamento sociale e la secolarizzazione culturale, con l'ausilio delle nuove, e dispendiosissime, tecniche di conduzione delle campagne elettorali attraverso i media, abbiano imposto un'evoluzione nella fisionomia e nella pratica dei partiti, doveva essa avvenire proprio in questo modo? Dovevano i partiti per forza sottomettersi al clima antipolitico suscitato intorno ad essi, rinunciando alla loro azione integrativa e «identificante», per contentarsi di quella «efficiente»? Dovevano essi soffocare ogni passione nel più opaco pragmatismo e dovevano per forza svalutare la militanza, disincentivando l'adesione dei cittadini e privando la democrazia del loro apporto? Ed è, a sua volta, proprio certo che il collasso delle ideologie e degli orizzonti di senso da esse schiusi implicasse l'anoressia della politica e la revoca d'ogni investimento sul futuro, seminando a piene mani incertezza, ma anche disincanto e rassegnata accettazione dello status quo, quando non addirittura cinismo?
Ammesso che il destino dei partiti - come quello di tutte le invenzioni
umane - fosse segnato, non era affatto indispensabile che la loro fine avvenisse
in questo modo. Né era indispensabile che, assoggettandosi al nuovo senso comune
democratico, gli attori politici convenzionali rinunciassero a ogni tentativo di
approntare tecniche meno approssimative di rappresentanza e di coinvolgimento
dei cittadini. Le nuove forme di partecipazione, più civile che politica, che in
tanti attualmente praticano, non sono prive di pregi e meritano rispetto.
Ma c'è il problema che rischiano di trasformarsi in meccanismi di esclusione.
E comunque esse non bastano a impedire che tanti elettori si sentano emarginati,
e che tanti altri non trovino di meglio che profittare delle formule
semplificanti approntate dalle Nuove destre e delle opportunità di ribellione
che esse offrono. Senza trascurare, da ultimo, le nuove e avvelenate passioni
che le Nuove destre, riesumando il nucleo primordiale della politica -
l'opposizione fra amico e nemico - riescono da qualche parte ad accendere.
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