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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 7 di Gianni Silvestrini PREMESSA 13 O. ABRUPT CLIMATE CHANGE 21 0.1 Introduzione: fenomenologia 21 0.2 I cambiamenti climatici 28 0.3 L'effetto serra 32 0.4 Il dibattito scientifico sul clima 35 0.5 Il nuovo paradigma 40 0.6 Dalla stabilità all'instabilità climatica. La causa "antropica" 46 0.7 L'iniziativa politica 51 0.8 La rivoluzione energetica 55 1. LA STORIA PASSATA 61 1.1 La vicenda nucleare italiana 61 1.2 Dopo Chernobyl 64 2. L'ENERGIA NUCLEARE: ELEMENTI ESSENZIALI 67 2.1 Nuclidi e isotopi 67 2.2 Radioattività — radiazioni ionizzanti 68 2.3 Reazioni nucleari 70 2.4 Uranio naturale 76 2.5 Condizioni di criticità. Moderatore 77 2.6 Arricchimento dell'uranio 78 2.7 Reattori autofertilizzanti. Reattori veloci 80 2.8 I reattori "provati" 81 2.9 Ritrattamento del combustibile 86 2.10 Lo smantellamento dei reattori 87 2.11 I rifiuti radioattivi 89 2.12 La questione della sicurezza 100 3. L'ENERGIA NUCLEARE È PULITA? 111 3.1 Introduzione 111 3.2 Il ciclo del combustibile nucleare: lavorazioni a rischio salute 113 3.3 Effetti biologici e rischi sanitari connessi con le radiazioni 117 3.4 Il "protocollo" Icrp 122 3.5 Tumori infantili e trasparenza delle istituzioni 125 4. ALLORA: QUANTO COSTA IL KWH NUCLEARE? 129 5. QUALE FUTURO PER L'ENERGIA NUCLEARE? 137 5.1 La situazione 137 5.2 Una prospettiva di energia abbondante 142 5.3 I reattori innovativi 144 5.4 Generation IV 151 5.5 Proliferazione e terrorismo 162 5.6 Un'esperienza industriale in declino 163 6. CONCLUSIONI: ALLORA, CHE COSA FARE? 171 6.1 Se non il nucleare, che cosa? 171 6.2 La strategia comunitaria 172 6.3 Una prospettiva industriale di qualità 176 6.4 Scelte alternative 178 6.5 Il club nucleare. Si farà il nucleare in Italia? 180 6.6 Rivoluzione energetica e green economy. Il sol dell'avvenire? 186 6.7 La scelta per la sostenibilità 190 UN LIBRO NEL LIBRO 199 SAPERE SCIENTIFICO E MOVIMENTO POPOLARE: BREVE STORIA DEL MOVIMENTO ANTINUCLEARE ITALIANO La preparazione 199 Il comitato per il controllo delle scelte energetiche 205 Il movimento 212 Chernobyl, 26 aprile 1986 227 POSTFAZIONE 239 di Marcello Cini RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 245 |
| << | < | > | >> |Pagina 7INTRODUZIONEI destini delle rinnovabili e del nucleare si sono incrociati più volte nella storia italiana. Dopo lo stop all'atomo seguito ai referendum del 1987 l'Italia ha perso un'occasione storica: cambiare radicalmente la propria strategia energetica puntando sul solare e l'eolico, tecnologie che iniziavano proprio allora ad affermarsi in diversi paesi, dalla California alla Danimarca, dal Giappone alla Germania. Se un paese con poche risorse fossili come il nostro avesse abbracciato questa scelta, oggi avremmo un'industria verde in grado di primeggiare nel mondo.
Ma ancora più grave e incomprensibile è l'errore dell'ultimo governo
Berlusconi. Proprio quando l'onda verde si stava espandendo in tutto il pianeta,
con investimenti nella produzione elettrica da rinnovabili ormai superiori a
quelli per gli impianti convenzionali, viene proposto un anacronistico ritorno
al nucleare. Con il rischio di distrarre risorse economiche
e intelligenze che sarebbero necessarie a recuperare il ritardo accumulato nella
produzione di tecnologie solari ed eoliche. E tutto ciò per puntare su una
scelta priva di prospettive che rischia di farci affondare nelle
sabbie mobili di proteste locali, scontri istituzionali,
querelles
giuridiche...
Ma torniamo alla rivoluzione energetica in atto per evidenziarne l'ampiezza.
Nel periodo 2004-2009, la potenza eolica e solare installata nel mondo è stata 14 volte superiore alla nuova potenza nucleare. Tenendo presenti poi le variazioni nette nel quinquennio considerato, contando quindi anche gli impianti atomici chiusi definitivamente, il rapporto diventa di 43 a 1. Se si concentra l'attenzione sull'Europa il cambiamento in atto emerge in tutta la sua evidenza: lo scorso anno il 63% della nuova potenza elettrica installata infatti era green, con l'eolico al primo posto, il gas al secondo, il fotovoltaico al terzo. Analizzando infine gli scenari ufficiali al 2030 elaborati dalla Commissione europea nell'agosto 2010, si evidenzia una forte crescita della quota di elettricità verde – dal 19 al 36% – e la contemporanea riduzione del nucleare dal 28 al 24%. In questo quadro in forte movimento l'Italia negli ultimi anni è riuscita a ribaltare la posizione di fanalino di coda nelle nuove rinnovabili. Nel 2009 è risultata seconda al mondo per la potenza fotovoltaica installata e sesta per quella eolica. Con una politica intelligente, le nostre imprese potrebbero ritagliarsi uno spazio a livello internazionale nella componentistica degli aerogeneratori; in tecnologie avanzate come il solare a concentrazione, nell' Italian soler design per l'edilizia fotovoltaica. Il programma Industria 2015 lanciato dal precedente governo andava proprio in questa direzione ed è un peccato che ora sia fatto languire. La scelta del nucleare appare invece del tutto velleitaria e ideologica. Mancano completamente le strutture e le competenze che sarebbero necessarie per il suo rilancio. Basti dire che l'Agenzia per la sicurezza nucleare che doveva essere attiva dal novembre 2009, a causa dei conflitti interni al governo ha visto sbloccarsi la nomina di Umberto Veronesi a suo presidente solo nell'ottobre 2010. Inoltre per avere qualche possibilità di successo una tecnologia così complessa e controversa dovrebbe contare su un certo grado di consenso tra la popolazione e le istituzioni locali. Ma i sondaggi indicano un'opinione pubblica spaccata mentre molte Regioni, anche di centro-destra, hanno apertamente manifestato il proprio dissenso. Del resto si riscontra una diffusa diffidenza anche all'estero. Secondo le ultime rilevazioni dell'Eurobarometro solo il 17% dei cittadini della Ue vorrebbe un aumento della produzione nucleare, mentre il 34% preferirebbe una riduzione del suo contributo. Inoltre il 50% degli europei considera il nucleare un'opzione rischiosa, mentre solo il 36% valuta questa soluzione come portatrice di benefici. In Italia queste ultime percentuali sono rispettivamente del 52 e del 22%. Tornando alla scelta dell'opzione nucleare viene spontaneo chiedersi come ci si voglia lanciare in questa avventura se non si è finora stati in grado di identificare un sito per i rifiuti a bassa e media radioattività (non parliamo di quelli la cui pericolosità si estenderà per decine di migliaia di anni). Si tratta di una scelta etica di non poco conto. Lasceremmo alle generazioni future per le prossime centinaia e migliaia di anni un'eredità velenosa. E il fatto che non ci sia un solo paese al mondo che, a oltre mezzo secolo dall'inizio del funzionamento di centrali nucleari, abbia realizzato un cimitero per le scorie ad alta radioattività la dice lunga sulla superficialità con cui ci si è lanciati nello sfruttamento dell'atomo. Infine c'è un elemento decisivo, quello economico, su cui va fatta chiarezza. Uno degli elementi che vengono sbandierati con maggiore forza è la riduzione delle bollette che si otterrebbe grazie a questa tecnologia. Il messaggio che si vuole fare passare è che l'obiettivo del governo (25% nucleare e 25% di rinnovabili al 2030) consentirebbe di eliminare l'attuale gap tra le tariffe elettriche italiane e quelle europee. "Prezzi dell'elettricità europei e quindi più bassi del 25-30%", "Con il nucleare 11 miliardi di risparmi", questi alcuni titoli dei giornali. È evidente che per portare le nostre tariffe sui livelli europei, il 25% da fonte nucleare non dovrebbe costare niente; anzi dovrebbe avere un prezzo negativo, considerando che nella tariffa elettrica si conteggiano anche i costi di trasmissione e distribuzione, le tasse ecc. Il nucleare ha invece un costo, molto elevato e crescente. Le ultime stime dell' Energy Outlook 2010 elaborate dal governo Usa indicano per i nuovi reattori in funzione nel 2020 costi dell'elettricità pari a 85 euro/MWh, superiori a quelli dell'eolico, del gas e del carbone. Usando questo valore, il nucleare porterebbe quindi a un aumento e non a una diminuzione delle nostre bollette. In realtà circolano stime anche più alte. Secondo la stessa Associazione italiana nucleare i costi per i reattori attualmente in progetto si collocano tra i 75 e 110 euro/MWh. L'azione di disinformazione presso il grande pubblico passa spacciando con disinvoltura i costi di reattori ammortizzati da trent'anni che si riferiscono solo alle spese di funzionamento dell'impianto con quelli delle nuove centrali che hanno bisogno di enormi capitali per essere costruite. In effetti, il tema degli economics è proprio quello su cui è necessario un corretto approfondimento. Una cosa poco nota, per esempio, è che il nucleare, proprio per gli alti costi, ha sempre goduto di incentivi diretti o indiretti. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia gli aiuti per gli impianti esistenti nel mondo equivalgono a un terzo del costo dell'elettricità nucleare prodotta. Il sostegno sarà ancora più importante per i nuovi reattori, più complessi e più costosi. Un'altra verità spesso sottaciuta che accomuna esperienze molto diverse tra loro come il nucleare francese e quello statunitense riguarda l' escalation dei costi. In Francia l'incremento a moneta costante tra i primi e gli ultimi impianti è stato di 3,5 volte. E il reattore francese Epr in costruzione a Olkiluoto, con costi che sono lievitati dai previsti 3 miliardi euro a 5,3 miliardi euro, conferma questa tendenza. Negli Usa la crescita fuori controllo dei costi è stata ancora più incredibile, con un rapporto tra le prime centrali e le ultime di 1 a 6. Questa dinamica perversa ha portato al blocco negli ultimi 25 anni della realizzazione di nuove centrali e ha portato a quello che è considerato il più grande disastro industriale della storia. Questa paradossale learning curve che vede un aumento e non una diminuzione dei costi è attribuibile al costante aumento della complessità della tecnologia.
Si tratta di una tendenza opposta a quella delle tecnologie delle fonti
rinnovabili che hanno visto una drastica riduzione dei costi nell'ultimo
ventennio.
Gli scenari futuri vedranno dunque il confronto tra il nucleare, che prevedibilmente avrà sempre maggiori difficoltà, e un mix di tecnologie verdi con costi decrescenti ed efficienze sempre più elevate. In uno scenario nel quale i paesi industrializzati si devono attrezzare per ridurre dell'80% le emissioni climalteranti entro il 2050 queste dinamiche incideranno pesantemente nelle strategie da sviluppare. Non stupisce dunque che nel corso del 2010 siano stati pubblicati diversi studi che fino a qualche tempo fa sarebbero stati considerati eretici: come soddisfare la domanda elettrica europea entro metà secolo con le sole rinnovabili. Alcuni paesi si stanno peraltro già attrezzando con propri programmi a lungo termine. Così la Germania punta a coprire l'80% della domanda elettrica al 2050 con le energie verdi, mentre, la Danimarca intende diventare totalmente fossil free entro la metà del secolo. La tumultuosa crescita prevista per le rinnovabili evidenzia un altro elemento di potenziale conflitto con la presenza di centrali nucleari che per loro natura non sono modulabili e introducono quindi un forte elemento di rigidità al sistema elettrico. In effetti, la Danimarca non ha centrali atomiche, mentre Germania e Spagna puntano a una forte penetrazione delle tecnologie verdi e alla contemporanea progressiva uscita dal nucleare. La stessa Merkel ha sì approvato il prolungamento della vita delle centrali atomiche, ma ha definito questa opzione come "tecnologia di transizione". Alla luce di queste considerazioni appare paradossale che un paese come il nostro, dotato di un potenziale enorme di fonti rinnovabili, punti a rientrare nel nucleare.
Basta analizzare qualche numero per comprendere la vacuità dei programmi
italiani. Nel Piano nazionale d'azione sulle rinnovabili inviato lo
scorso luglio a Bruxelles si ipotizza una copertura del 29% della domanda
elettrica con l'energia verde entro il 2020. Nel decennio successivo
questa quota dovrebbe aumentare di 5-10 punti percentuali. Quindi al
2030 ci troveremmo con il 37-42% della domanda elettrica coperta dalle
rinnovabili. Un valore ben superiore a quanto ipotizzato dal governo
(25%). È chiaro che il 25% di nucleare indicato dal governo Berlusconi
si potrebbe ottenere o comprimendo fortemente la crescita delle rinnovabili o
sottoutilizzando gli impianti termoelettrici esistenti.
In conclusione, la scelta del nucleare, che al suo annuncio aveva creato grandi aspettative tra gli industriali italiani come soluzione salvifica, è destinata a dimostrare la sua dirompente carica conflittuale a ogni passaggio istituzionale, a ogni coinvolgimento dei territori. E se per caso la costruzione degli impianti riuscisse a fare qualche passo in avanti si evidenzierebbe come, al contrario di tutte le affermazioni ufficiali, sarebbero necessarie forti incentivazioni che determinerebbero un ulteriore conflitto con le rinnovabili. Del resto; la campagna di stampa che sta montando nei confronti dell'eolico e del fotovoltaico sembra preludere a un attacco al sostegno economico a queste tecnologie per fare spazio alla new entry atomica. Occorre dunque preparare un'accurata azione di controinformazione che consenta ai cittadini di avere elementi adeguati a contrastare la vasta campagna già annunciata dal governo per spiegare come il nucleare sia sicuro e poco costoso. Questo libro, pubblicato da Edizioni Ambiente nell'ambito di una collaborazione con il Kyoto Club, consente di inquadrare l'inefficacia dell'opzione nucleare come risposta alla sfida climatica, di approfondire la base scientifica dello sfruttamento delle reazioni atomiche, di evidenziare i rischi sanitari connessi al funzionamento e alla gestione delle scorie e infine di ricordare il percorso del movimento antinucleare italiano che ha portato al referendum del 1987. Gli autori sono Gianni Mattioli e Massimo Scalia, da più di trent'anni in prima fila nelle lotte antinucleari e nello sforzo di definire strategie energetiche alternative. Gianni Silvestrini Direttore scientifico Kyoto Club | << | < | > | >> |Pagina 13PREMESSAPeriodicamente si riapre in Italia il dibattito sulla possibilità e sugli aspetti positivi del ricorso al contributo dell'energia nucleare, che fu cancellato nel 1990 come conseguenza del referendum che seguì all'incidente di Chernobyl. Da tempo, ormai, entrano nel dibattito le grandi questioni dello sconvolgimento climatico e della geopolitica sanguinosa dell'energia e così non mancano coloro che virtuosamente si stupiscono perché non venga, proprio dal fronte di chi si preoccupa per la salute del pianeta, un ragionevole sostegno alle centrali nucleari. Che poi, spesso, accesi sostenitori dell'atomo siano anche piuttosto scettici rispetto alla gravità dello sconvolgimento climatico e alla responsabilità antropica presente nelle sue cause attiene a un fenomeno culturale interessante, ancor più se si osserva che quasi sempre il carnet culturale misteriosamente si completa con il sostegno all'uso alimentare di organismi geneticamente modificati e con lo scetticismo sugli effetti sanitari dei cellulari o degli elettrodotti. La tematica dei cambiamenti climatici è una grande questione, una prospettiva drammatica non per un futuro lontano, ma nella quale siamo già dentro: quell' Abrupt Climate Change individuato, forse nel modo più chiaro e rigoroso, dal rapporto del 2002 del National Research Council degli Stati Uniti. Bisogna in tempi drasticamente rapidi ridurre le emissioni di anidride carbonica e dunque cambiare il bilancio mondiale dell'energia, così dominato dal ricorso ai combustibili fossili. La stessa perentoria indicazione proviene dall'avvicinarsi minaccioso del picco della curva di Hubbert, relativa all'andamento della produzione del petrolio, e successivamente si profila la situazione analoga per il gas, mentre, secondo le previsioni dell'International Energy Agency (Iea), i consumi di elettricità sono destinati a raddoppiare o triplicare da qui al 2050. Questa tematica comincia a entrare nelle motivazioni di quanti sostengono la necessità di un "rinascimento nucleare" e noi non ci sottrarremo a queste motivazioni, anzi dedicheremo il capitolo 0 proprio al drammatico scenario dei cambiamenti climatici, per metterne in evidenza gli elementi essenziali e la necessità di progettare un futuro energetico alternativo. Purtroppo però l'alternativa non passa attraverso l'energia nucleare, come questa si presenta oggi per la maturità sin qui conseguita: senza un salto di ricerca fondamentale, di nuove conoscenze di fisica, il suo contributo appare molto limitato e apre problemi più gravi di quanti non ne risolva. Di questo parleremo nelle pagine che seguono, ma vogliamo subito dare al lettore la misura della vacuità dell'argomentazione "climatica" a sostegno del nucleare: se un impegno straordinario portasse al raddoppio delle centrali nucleari – con gli enormi problemi che esamineremo nei prossimi capitoli – la riduzione delle emissioni di CO2 non supererebbe il 5%. | << | < | > | >> |Pagina 611. LA STORIA PASSATA1.1 LA VICENDA NUCLEARE ITALIANA
Solo l'Italia, unico tra i paesi dell'Occidente industrializzato,
all'indomani dell'incidente di Chernobyl, effettuò, sotto la spinta della
subalternità della politica all'emotività di massa, la scelta sciagurata di
bloccare il nucleare: questa sentenza non corrisponde alla realtà dei fatti e
tuttavia è stata così ripetuta all'opinione pubblica da essere ormai considerata
vera. È forse utile, allora, partire con qualche racconto.
In realtà, la vicenda nucleare si giocò in Italia all'inizio degli anni '60, quando il nostro paese era tra quelli maggiormente impegnati in questo settore, così come nel settore delle grandi macchine di calcolo. Non senza significato era stato il fatto che la firma nel 1957 del trattato che aveva sancito la nascita dell'Euratom, la Comunità europea dell'energia atomica, fosse avvenuta proprio a Roma. Ma, solo qualche anno dopo gli Usa, il grande paese amico e alleato, permisero sì la nascita del primo governo di centro-sinistra, ma una condizione non scritta fu che l'Italia abbandonasse velleità importanti in ambedue i settori indicati. Così, l'Olivetti Grandi Macchine viene ceduta alla Generai Electric (Olge) e, in campo energetico, l'Italia diviene grande paese raffinatore di petrolio, uscendo dai primati che aveva nel campo nucleare, ma anche geotermico e idroelettrico. | << | < | > | >> |Pagina 641.2 DOPO CHERNOBYLA seguito di Chernobyl, il nucleare viene bloccato in tutti i paesi dell'Ocse: non si procederà a nessun nuovo ordinativo di reattori – proprio come già si era verificato negli Usa, dove, come abbiamo visto, a partire dal 1978 non era stata commissionata nessuna nuova installazione e un centinaio di progetti erano stati accantonati. "L'impegno attuale in quel Paese – registra Guido Cosenza – per quanto riguarda gli impianti nucleari, è quasi esclusivamente diretto a protrarre la vita degli apparati dai quarant'anni programmati a sessanta". (B.1.1).
La situazione di stallo nella realizzazione di nuovi impianti nei paesi Ocse
dura a tutt'oggi, con la sola eccezione del Giappone. Austria (1978,
referendum), Svezia (1980, referendum) e Spagna hanno chiuso i programmi
nucleari prima dell'Italia e analoga scelta è stata effettuata, più
recentemente, dalla Germania, con la definizione della
exit strategy
dalla produzione di energia elettronucleare entro il 2020.
Dunque, questo blocco generale dello sviluppo dell'energia nucleare, che non parte nella modesta Italia, ma negli Stati Uniti e si estende poi agli altri paesi avanzati, è la tappa di questa tecnologia, che si tende a cancellare nel dibattito disinformato. Eppure basterebbe confrontare la realtà attuale – alcune centinaia di reattori in tutto il mondo – con la prospettiva di migliaia di centrali che, sotto l'egida di "Atoms for Peace", si prometteva che avrebbero donato ai popoli della terra energia elettrica quasi gratis. In realtà, l'egida citata "Atoms for Peace" appare una vera provocazione quando si osserva (paragrafo 2.7) come nel corso del funzionamento di questi reattori si produce plutonio adatto alla utilizzazione militare che viene estratto con appropriate tecniche (paragrafo 2.9). C'erano, inoltre, i complessi e costosi impianti realizzati per l'arricchimento dell'uranio necessario per la fisica della bomba (paragrafo 2.6): cosa meglio che utilizzarli per effettuare la fabbricazione di un combustibile appropriato alla produzione di energia elettrica? E questo spiega come il maggior sviluppo del ricorso all'energia nucleare — con il massiccio coinvolgimento della ricerca e degli apparati industriali — si ritrovi nei paesi maggiormente impegnati nella realizzazione di armamenti nucleari — Usa, Francia, Russia — e si allarghi poi nelle reciproche aree di influenza geo-politica.
"La costruzione di reattori nucleari civili — ricorda Guido Cosenza — ha
avuto un periodo iniziale di grande sviluppo che è culminato nel 1989; a quella
data risultavano in funzione 423 impianti. Da quel momento si è pressoché
arrestata la costruzione di nuove centrali nucleari. Attualmente (anno 2007) ne
risultano in funzione 439" (B.1.1).
In Europa l'unico reattore in costruzione da qualche anno è Olkiluoto 3, in Finlandia – primo reattore commissionato nell'Europa Occidentale dal disastro di Chernobyl – ma, nonostante i forti sussidi finanziari ricevuti (prestito per 1,95 miliardi di euro a tasso agevolato dalla tedesca Bayerische Landesbank, garanzie sul prestito di 610 milioni dall'istituto francese Coface) e la sfida che voleva rappresentare, i tempi previsti per la consegna si sono allungati di oltre tre anni e i costi di costruzione sono aumentati del 70% (B.1.2).
Quanto alla Francia – esaurita la motivazione strategica della
force de frappe –
non ha proceduto al rinnovo degli impianti relativi al trattamento del
combustibile, ha chiuso – come si chiarirà nel capitolo 2 – la
sua filiera legata all'utilizzazione dell'uranio 238, mentre la realizzazione di
un nuovo impianto Epr
(european pressurized reactor) –
un prototipo di terza generazione "avanzata" – sta incontrando difficoltà e
ritardi, anche per gli interventi dell'autorità di controllo per la sicurezza
nucleare, del tutto analoghi a quelli che hanno fatto una pessima reclame
al reattore finlandese.
L'Italia, dunque, fece nel 1988 (governo De Mita) quello che stavano facendo gli altri: non procedette più alla realizzazione di nuovi impianti. Si dirà: avrebbe potuto portare a compimento Montalto di Castro. Orbene: l'uso dell'energia nucleare non è solo il funzionamento dei reattori, ma sono necessari i servizi complessi e costosi del ciclo del combustibile (arricchimento, riprocessamento, scorie), per il passato commissionati, in parte, ad altri paesi. Con quale razionalità si poteva dunque completare un reattore e per ciò doversi dotare dei servizi del ciclo? Nelle mutate condizioni strategiche, come si è detto, la Francia si ritrovava ora un programma nucleare sovradimensionato rispetto alla domanda di base (cioè di flusso continuo di energia elettrica, cui si aggiunge in alcune ore della giornata, la cosiddetta domanda "di picco"). Anzi: esso esponeva lo stato a un grosso indebitamento. Da qui il corteggiamento all'Italia perché le sue importazioni di energia elettrica avessero la caratteristica di forniture non interrompibili.
Va da sé che riconoscere ai kWh francesi questa caratteristica permetteva
all'Italia di spuntare un prezzo più basso.
Ma quanto costa in realtà quel kWh? Per dare una risposta a questo interrogativo, bisogna comprendere bene la complessità di una centrale nucleare, anzi, più in generale la complessità del ciclo del combustibile nucleare: alla base di questa complessità, sta, da una parte, la questione della radioattività e del suo impatto sanitario e ambientale e, dall'altra, la questione militare, il problema, cioè, della proliferazione degli armamenti atomici. Per parlare di costo del kWh, dobbiamo dunque affrontare la problematica delle radiazioni, che spesso riesce a scomparire dal discorso sull'energia nucleare. Alcuni richiami essenziali di merito sono tuttavia necessari per comprendere la problematica che vogliamo affrontare. Nel capitolo 2 si farà cenno ad alcuni elementi di fisica nucleare; nel capitolo 3 si presenterà la questione dell'impatto sanitario della radioattività, in condizione di funzionamento "normale" degli impianti e nel successivo capitolo 4 si fornirà una breve panoramica dei reattori nucleari "provati". | << | < | > | >> |Pagina 1294. ALLORA: QUANTO COSTA IL KWH NUCLEARE?Si perviene così alla questione del costo del kWh nucleare, continuamente agitata nel dibattito italiano dai sostenitori dell'atomo, che indicano nella sciagurata scelta referendaria che seguì all'incidente di Chernobyl la causa del maggior costo dell'energia elettrica in Italia. In realtà, la questione "radiazioni" rappresenta, come abbiamo visto, un tale rischio sanitario da richiedere per questi impianti standard di qualità molto più esigenti e perciò controlli più restrittivi. Tutto ciò si traduce non solo in costi molto elevati, ma anche in procedure che allungano i tempi introducendo costi ulteriori. Ma su tutto questo le esperienze effettuate permettono ormai una "statistica" di previsione dei costi o, quantomeno, come vedremo nel prossimo capitolo, una stima definita del rischio di esposizione finanziaria. Ciò che invece resta ancora difficile da precisare è quanto incida sul costo del kWh la chiusura del ciclo del combustibile nucleare. In realtà, è questo il punto più paradossale per effettuare valutazioni affidabili, poiché per le altre fonti energetiche utilizzate per la produzione di elettricità è possibile assegnare il relativo costo del kWh. Ecco, per esempio, le valutazioni proposte dal Cirps, un centro interuniversitario dedicato alla ricerca sulla sostenibilità e particolarmente attento alle questioni energetiche, che ha sede nella Facoltà di Ingegneria de "La Sapienza" (2007): energia elettrica prodotta con carbone: 0,07 euro/kWh, se adottati i dispositivi di mitigazione del danno sanitario (non i dispositivi per la cattura della CO2, oggi non industrialmente maturi e affidabili); con olio combustibile: 0,05 euro/kWh; con gas naturale: 0,04 euro/kWh; con impianti miniidro: 0,04 euro/kWh, da fonte eolica: 0,03-0,05 euro/kWh. Ma questa valutazione non è oggi possibile per l'energia elettrica prodotta dalla fonte nucleare. La risposta al problema dipende infatti dal grado di intervento dello Stato nella chiusura del ciclo del combustibile nucleare, che, come è noto, ha rilevanti aspetti di natura militare (per esempio, la gestione del plutonio comunque prodotto negli attuali tipi di reattori) oppure presenta aspetti per i quali addirittura non si può parlare di tecnologie mature e commerciali, come nel caso della sistemazione delle scorie o dello smantellamento del reattore. Lo smaltimento delle scorie, per esempio, come abbiamo visto al paragrafo 2.11.2, è tuttora materia di ricerca fondamentale: l'obiettivo finale è, come si è visto, quello dello stoccaggio in formazioni geologiche appropriate, caratterizzate da bassissima permeabilità e situate in zone geologicamente stabili. Per paradossale che possa apparire, a mezzo secolo dall'inizio di questa attività industriale e con oltre 400 centrali in funzione, non c'è un solo paese che abbia realizzato un sito per la sistemazione definitiva per le scorie di terza categoria. Due sono gli ordini di problemi: da una parte, come si è detto, l'individuazione di un sito appropriato e, dall'altra, gli enormi costi per la messa a punto del deposito e per il successivo stoccaggio dei rifiuti.
[...]
In ogni caso è l'amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, a toglierci ogni dubbio su chi dovrà affrontare i costi del back end del nucleare ricordandoci che è impossibile nell'Occidente la costruzione di impianti nucleari senza prezzi minimi garantiti e senza mettere lo smantellamento delle centrali e la gestione delle scorie a carico dello Stato (B.4.5). In conclusione, nella composizione del costo del kWh nucleare alcune componenti sono decisamente opache, altre neanche definibili (i costi della ricerca fondamentale ancora aperta): esso potrà anche risultare meno costoso, ma non c'è dubbio che si tratta di un prezzo politico dell'energia. In queste condizioni, è priva di significato ogni ulteriore analisi del costo del kWh nucleare. Quanti tuttavia hanno avanzato proiezioni di costo del kWh nucleare (per esempio Eia/Doe: "Annual Energy Outlook 2004 and Projections to 2025"; MIT: "The future of nuclear power", 2003; ed altri), che cercano di tener conto di elementi come il costo della gestione dei rifiuti radioattivi, pervengono comunque a stime dell'ordine dei 0,06-0,07 euro/kWh, da confrontare con i costi delle altre fonti, sopra esposti. Alla stessa stima – 0,08-0,11 dollari/kWh, tenendo conto del rapporto euro/dollaro – perviene un ampio studio più recente su tutto il nucleare; nella parte della valutazione economica da un lato si sottolinea come cruciale la questione dell'aleatorietà finanziaria e dall'altro si ricorda che la differenza tra prezzo e costo è tutta a carico del contribuente (B.4.6). Un indicatore significativo del "costo vero" del kWh nucleare si può trarre dal confronto delle vicende americana e francese. Come abbiamo visto le imprese elettriche americane abbandonano il nuovo nucleare nel 1978, mentre l'atomo cresce ancora in Francia per oltre un decennio, nello stretto intreccio tra force de frappe e nucleare civile. [...] Per tutti i motivi accennati si capirà come focalizzare la questione dei costi del nucleare sul costo del kWh è fuorviante, non sarà davvero la sua sbandierata e non dimostrata economicità a sostenere il rilancio del nucleare. Anzi, l'insistenza su questo tasto, non ingenua, sembra intesa a voler mettere in ombra il vero problema economico del nucleare: il finanziamento degli elevati capitali richiesti dagli investimenti e i tempi molto lunghi – oltre vent'anni – per il ritorno dei capitali investiti. Questi due fattori hanno causato negli Stati Uniti l'uscita, oltre trent'anni fa, del nucleare dal mercato dell'energia – lì per davvero libero –; e già nel 1985 la rivista Forbes (quella che fa ogni anno le classifiche dei più ricchi del mondo) aveva attribuito al nucleare la maglia nera del più grande fallimento commerciale di un'industria in quel paese. E, tanto per restare negli Usa, l'Ufficio federale di statistica per l'energia lo valuta come il più costoso per gli impianti che entreranno in funzione nel 2020 (B.4.5).
Questi due fattori si ripresentano, immutati, al giorno d'oggi. Per
un'analisi approfondita degli aspetti economici e finanziari si vedano B.4.6 e
B.4.7; sul piano degli accadimenti concreti guardiamo l'Epr "Olkiluoto-3" in
costruzione in Finlandia. È stato finanziato con un prestito di 1,95 miliardi
di euro dalla Bayerische Landesbank e di 610 milioni di euro dalla francese
Coface, con tassi ultra agevolati; altri finanziamenti dalle industrie
finlandesi tramite un patto costruttori – grandi utenti di energia elettrica,
che riserverebbe a quest'ultimi tariffe immutate per vent'anni (se l'autorità Ue
per la libera concorrenza non avrà da ridire). Sta viaggiando con tre
anni e passa di ritardo e un extra costo del 70% rispetto a quello preventivato
di 3,2 miliardi di euro; al punto di indurre Areva e Siemens, le due
aziende impegnate nella realizzazione, a entrare in causa con l'ente elettrico
finlandese nel tentativo di scaricare su di esso una parte dei maggiori costi.
Allungamento dei tempi, aumento dei costi: è la litania del nucleare.
Un allungamento determinato, per esempio, dall'agenzia di controllo
finlandese Stuk, che, tra le altre cose, ha respinto il vessel fatto costruire
in India perché non rispettava le specifiche garantite dal progetto. E
separazione di fatto tra le due società proponenti: la Siemens infatti ha ceduto
il suo 34% all'inizio del 2009 (B.4.8) per seguire il richiamo fascinoso di
Putin; forse in Russia, in un mercato mondiale sempre più asfittico (capitolo 6)
ci sarà qualche chiodo, nucleare, da battere.
Ma quanto costa allora l'Epr-1600 che il governo italiano vorrebbe imporre, è il caso di dirlo (capitolo 6), nel nostro paese? Dalla forcella iniziale – 2,8-3,4 milioni di euro – la sarabanda dei costi è levitata sopra i 4 milioni per megawatt. Ma anche questa, come tutte le cifre fornite dall'Enel, è al ribasso. La verità è apparsa senza veli nel luglio 2009, quando il governo canadese ha indetto una gara per nuove centrali nucleari. Areva offre il suo Epr a 7,4 milioni di dollari a megawatt, cioè circa cinque milioni di euro, al netto di eventuali sovra costi causati dall'allungamento dei tempi; il governo canadese rinuncia. Con l'occhio all'intesa Sarkozy-Berlusconi, quella cifra vuol dire che i quattro reattori dell'accordo (6.400 megawatt) verrebbero a costare a oggi oltre 32 miliardi di euro. Non un euro di più, sia ben chiaro, nell'Italia dove lo stesso numero di chilometri della Tav è costato quattro volte di più che in Francia. E mentre l'Enel ancora ci tranquillizzava a gennaio 2010 affermando che un Epr non sarebbe costato più di 4,5 miliardi di euro, Areva aveva già perso nel dicembre 2009 un'altra gara d'appalto ad Abu Dhabi, dove aveva offerto quattro Epr a 6,5 miliardi di euro l'uno. E la sconfitta non era stata determinata solo dal prezzo, ma dalla brutta figura di 0lkiluoto. Nubi nere si addensano addirittura dall'Eliseo su Areva, sempre meno credibile come protagonista del rilancio nucleare, tranne che per Berlusconi e sodali. | << | < | > | >> |Pagina 147Guardando poi, magari un po' provincialmente ma non troppo, agli Epr da 1.600 MW che il governo Berlusconi ha promesso agli italiani – e, sotto la sferza di Enel, EdF e Areva, si è mosso con celere impegno per fornire il quadro normativo per farle, le centrali –, che dire dei loro aspetti di sicurezza?Le tre agenzie europee per la sicurezza nucleare, la britannica Hse'sNd, la finlandese Stuk e la stessa agenzia francese Asn sottolinearono, addirittura in un comunicato congiunto del novembre 2009 - fatto del tutto inusuale –, l'inadeguatezza in condizioni incidentali del software dell'Epr di Areva. E la Nrc, l'ente che si occupa di sicurezza nucleare negli Stati Uniti, non ha licenziato né l'Epr né l'Ap-1000 della Westinghouse (altro reattore di generazione III+ che si è già affacciato nel nostro paese). Ma questo, si dirà, attiene alle normali cautele che presiedono a tutte le procedure del licensing da parte delle autorità di controllo. Senza dubbio, ma evidenzia, dove mai ce ne fosse bisogno, che queste cautele sono particolari perché si sta parlando di prototipi industriali: a tutto il 2010, a trent'anni da Three Mile Island, non c'è in funzione nel mondo un solo reattore Epr o Ap-1000! Nel marzo 2010 poi, il Réseau "Sortir du nucléaire", entrato in possesso di alcuni documenti confidenziali dell'EdF, li fa analizzare da un gruppo di esperti e produce un rapporto che sottolinea un grave rischio di malfunzionamento dell'Epr, a causa del volerne legare la progettazione a precisi aspetti di calcolo economico: modulare la potenza del reattore sulla richiesta in rete per ottimizzare la vendita del kWh. Quale lo scenario incidentale ipotizzato, del quale l'autorità di sicurezza, la Asn, è stata volutamente tenuta all'oscuro? "Secondo i calcoli di Edf e di Areva – recita il rapporto di 'Sortir du nucléaire' – il controllo del reattore in modo Rip (ritorno istantaneo di potenza) e la disposizione dei cluster di comando del reattore possono causare un incidente d'espulsione dei cluster stessi a debole potenza e comportare la rottura dell'involucro del meccanismo di comando di questi... Dopo le espulsioni dei cluster di comando a debole potenza (Edg), il reattore Epr potrebbe non mettersi in 'arresto automatico'". La descrizione dell'ipotetico incidente non è chiarissima, solo un po' meglio quella fornita da Greenpeace. Cerchiamo di capire. Innanzi tutto il sistema definito "cluster di comando" è costituito da aste che comandano le barre di controllo, passando in canali che attraversano la parte superiore del contenitore del vessel (vedi lo schema di un Pwr al paragrafo 2.8.1). Perché queste aste potrebbero essere espulse a seguito di una ripresa istantanea di potenza, generando una situazione incontrollabile che darebbe il via a un incidente dagli esiti disastrosi? Per governare la reazione a catena, oltre alle barre di controllo, si usa l' acido borico presente nell'acqua del vessel. L'acido, che è fortemente corrosivo, può attaccare i canali in cui scorrono le aste ed eroderli: allora, in corrispondenza a un Rip, la pressione presente nella parte superiore del contenitore del vessel (circa 150 atm) può espellere le aste, in modo incontrollato a causa dell'erosione subita dai canali, danneggiare tutto il sistema di controllo della reazione e compromettere lo stesso arresto automatico del reattore (che richiede, appunto un sistema di controllo efficiente). Perché EdF e Areva, avendo individuato un albero incidentale che porta a un incidente "severo" o addirittura incontrollabile, e consapevoli di non essere riusciti a trovare una soluzione ai rischi possibili nella modalità di funzionamento Rip, non ne informano, come sono tenuti a fare, l'autorità di controllo? Questione di soldi, sostiene il Réseau. Infatti, la caratteristica progettuale dell'Epr di adattare la potenza istantanea del reattore alla richiesta in rete – che, seppur regolata da prescrizioni, è la maggior indiziata per i rischi di questo tipo – sembrerebbe avere motivazioni di carattere strettamente economico: il differenziale tra gli attuali costi dell'elettricità di base in Francia e quelli stimati a causa dell'aumento dei costi del reattore – 0,55 euro/kWh, ma Citigroup prevede già 0,65-0,70 euro/kWh – comporta per il tornaconto economico l'utilizzo di una potenza variabile che consenta la produzione per i picchi della richiesta elettrica, quando il kWh costa assai di più di quello di base. Non è improprio rilevare che l'inizio dell'incidente catastrofico di un reattore ben diverso, quello di Chernobyl, fu proprio quella ripresa rapida di potenza, che era una delle caratteristiche di progetto dei Rbmk-1000. La denuncia del Réseau evidenzia che l'Epr-1600 è stato progettato – per motivi primariamente economici, sostiene il Réseau – in barba alla sicurezza, attenuando o rinunciando a quell'aspetto passivo che caratterizza i "vecchi" Lwr: quando il nocciolo del reattore si surriscalda la reazione a catena decresce e, conseguentemente, il calore prodotto e la potenza erogata (paragrafo 2.12.2). E sorge naturale l'osservazione che la promozione dell'Epr avviene in assenza dei già citati risk assessment (paragrafo 2.12.3). Su quei rapporti ci fu molto interesse e un esteso dibattito: non parliamone neanche del dibattito, ma almeno dovè l'analogo rapporto di sicurezza per la generazione III+? In definitiva, i reattori III+ che vengono oggi proposti hanno il sapore di una tardiva risposta – trent'anni! – alle carenze progettuali alla base dell'incidente di Tmi. E la valutazione sul percorso degli "insegnamenti di Harrisburg" ha questo elemento centrale: si è proceduto non lungo la strada della sicurezza intrinseca, mai in effetti praticata, ma con miglioramenti puramente ingegneristici, dai quali non ci si può aspettare più di tanto. Con questo ribadiamo che pompe, valvole, vasche di smaltimento della sovrappressione, moltiplicazione e autonomia dei sistemi di raffreddamento per l'emergenza, piattaforme per il contenimento e il raffreddamento di materiale fissile fuoriuscito dal vessel in caso di parziale fusione del nocciolo, computerizzazione del controllo e via elencando sono gli elementi di una doverosa sicurezza attiva, che affida però alle macchine o all'uomo, e non alla fisica del reattore, gli interventi per l'arresto dell'operatività in caso di incidente. "I miglioramenti sono marginali, non vanno a intaccare il cuore del problema", afferma Carlo Rubbia (B.5.9) e aggiunge: "Noi stiamo parlando di una tecnologia che risale agli anni '60, ai tempi dei primi sottomarini nucleari. Ma veramente vogliamo tenerla in vita fino al 2050, quando avrà quasi un secolo di storia sulle spalle?". | << | < | > | >> |Pagina 1635.6 UN'ESPERIENZA INDUSTRIALE IN DECLINOAbbondanza della risorsa, compatibilità ambientale, basso costo, risoluzione di tutte le questioni aperte continuano a essere solennemente affermati in tante occasioni di informazione sull'energia nucleare rese all'opinione pubblica dalla stampa e dalla televisione per sostenerne il rilancio. L'inconsistenza di questi elementi fa dichiarare al Premio Nobel Carlo Rubbia, nel corso della sua audizione in Senato del 21 febbraio 2007: "Hiroshima, Chernobyl e le scorie radioattive. Questi tre aspetti, a mio avviso, scoraggiano la costruzione di impianti per la produzione di energia che si basi sulle attuali tecnologie nucleari". Dunque proliferazione, sicurezza e scorie: in altra sede, poi, Rubbia esprimerà, come abbiamo già riportato, il suo scetticismo anche nei confronti dei progetti di Generation IV. La vicenda dell'energia nucleare è in primo luogo una vicenda militare: i reattori per la produzione di energia elettrica, sia pure presentati come Atoms for peace, permettevano, come si è visto, di produrre le grandi quantità di plutonio per armare le testate e, in secondo luogo, per ridurre la spesa militare con la vendita dell'energia elettrica. Non si tratta di una tecnologia pensata per il tempo delle opere tranquille, ma per il tempo della guerra e si comprende allora perché la principale preoccupazione non sia davvero la sistemazione delle scorie o i rilasci di radiazioni. Possiamo anche dimenticare la guerra e fare ogni sforzo di ricerca per utilizzare una fonte energetica di così alta densità. Ma bisogna essere consapevoli che addomesticare per usi civili una tecnologia nata con tutt'altre finalità possa richiedere molta ricerca e molto tempo. E la riprova viene dalla marginalità del nucleare nel contesto delle fonti primarie, ancor di più dal punto di vista dei consumi finali (paragrafo 5.2). Ma, allora, marginale anche nel combattere l'effetto serra: pochi percento di riduzione della CO2 richiederebbero un raddoppio dell'attuale potenza elettronucleare entro vent'anni, raddoppio del quale però non c'è nessuna traccia nelle decisioni concrete. Certo, gli "ordinativi" (di nuove centrali atomiche) non si negano a nessuno; e vivono la loro vita, per la maggior. parte virtuale, in modo che i sacerdoti dell'atomo possano salmodiare che entro il 2020 saranno aperti 200 nuovi cantieri — santo cielo, ci sono gli "ordinativi"! —, dimentichi che i 160.000 MW di ordinativi, con i quali all'alba del giorno dopo la prima crisi energetica (1973) la sola Cee riempiva i "portafogli" dell'elettromeccanica nucleare mondiale, solo cinque anni dopo si erano più che dimezzati. E una seria documentazione analitica, svelando un nucleare ai minimi storici, conferma quanto sia virtuale non solo l'ordinativo, ma, addirittura, la stessa lista Iaea dei reattori classificati "in costruzione". | << | < | > | >> |Pagina 1716. CONCLUSIONI: ALLORA, CHE COSA FARE?6.1 SE NON IL NUCLEARE, CHE COSA? È la domanda che si fa avanti in tanti dibattiti. Speriamo, ormai alla fine di questo libro, che sia chiaro come sia una domanda mal posta: guarda infatti al 2% e non al 98% dei consumi finali. Non ci possiamo oggi aspettare dalla fissione nucleare la risposta alle scelte urgenti che siamo chiamati a effettuare in tema di energia e sconvolgimento climatico. In queste condizioni, possiamo chiederci quale significato possa avere per l'Italia concentrare uno sforzo rilevantissimo – alternativo ad altre possibili scelte – per rientrare in un settore in declino per il quale sappiamo: • che utilizza come combustibile una risorsa scarsa e perciò destinata a divenire sempre più costosa e oggetto di competizione internazionale, da acquisire comunque sul mercato estero; • che utilizza una tecnologia complessa per fronteggiare, non completamente, gravi rischi sanitari, non solo in condizioni incidentali, ma anche nel semplice funzionamento di routine; • che non ha risolto il problema della chiusura in sicurezza del ciclo del combustibile e dunque, pur potendo garantire pochi anni di disponibilità, aprirebbe per il futuro problemi irrisolti e gravi; • che annuncia costi di produzione del kWh elettrico difficilmente definibili (smantellamento, scorie), comunque più elevati – già attualmente o in un prevedibile futuro – rispetto ad altre fonti energetiche pulite e rinnovabili.
Ma allora, che cosa fare di fronte allo scenario sempre più preoccupante dei
cambiamenti climatici e sempre più sanguinoso della geopolitica
dell'energia? Quale strategia per l'Italia?
6.2 LA STRATEGIA COMUNITARIA L'Unione europea ha deciso un'altra alternativa, con vincoli precisi già per il 2020: 20% di riduzione della CO2, 20% di risparmio sui consumi finali e, sui consumi restanti, 20% di fonti pulite e rinnovabili, ridotte per l'Italia al 17%, forse in omaggio alla strenua (e squalificante) opposizione fatta dal governo Berlusconi alla definizione della decisione comunitaria. È realistica questa alternativa? Riportiamo qui le conclusioni che si ricavano da un'ampia analisi della letteratura (B.0.8): "Considerando le tendenze dei prossimi anni, in valori assoluti, le nuove installazioni solari ed eoliche supereranno nettamente l'incremento di potenza nucleare installata. Naturalmente, a parità di potenza, l'elettricità generata è 2-7 volte superiore per il nucleare. Malgrado ciò, analizzando la produzione nel periodo 2008-12, il nuovo eolico dovrebbe generare una quantità di elettricità pari a due volte e mezzo quella del nuovo nucleare mentre l'elettricità dal fotovoltaico dovrebbe raggiungere un quarto di quella prodotta dalle nuove centrali atomiche. Considerando poi che nel 2008 e nel 2009 è prevista la chiusura di 11 centrali nucleari, nel periodo 2008-12 la produzione addizionale di elettricità eolica e solare, e quindi il contributo alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti di queste tecnologie, dovrebbe essere almeno 4 volte superiore rispetto al contributo netto del nucleare... Un recente rapporto del Department of Energy (Usa – Doe 2008) analizza la possibilità che il vento possa soddisfare con 300 GW il 20% della domanda statunitense nel 2030, una percentuale analoga all'attuale contributo del nucleare. Passando al fotovoltaico, le industrie del settore stimano una potenza di 1.270 GW al 2030, che consentirebbe di coprire il 6-9% della domanda mondiale". La strada su cui procedere è dunque quella a cui ci impegna la strategia decisa in sede europea. Si tratta di obiettivi, dal punto di vista quantitativo, assai più rilevanti del programma nucleare del governo, il quale, con l'accordo Sarkozy-Berlusconi, prevede di coprire col nucleare il 2% dei consumi totali con una spesa di oltre 30 miliardi di euro, a carico dei cittadini! Un governo che addirittura bara quando programma di coprire il 25% dei consumi elettrici con le fonti rinnovabili: il 25% sembra infatti più grande del 20% europeo, che però si riferisce ai consumi totali. Il conto è presto fatto. Poiché i consumi elettrici italiani sono un po' più del 20% dei consumi totali, il governo sta programmando di coprire con le fonti rinnovabili poco più del 5% (il 25%, cioè un quarto di venti), diciamo pure il 6% dei consumi totali. La differenza tra questo 6% e il 17%, l'obbligo vincolante per l'Italia, sarà pagata dai contribuenti italiani sulla bolletta energetica. Con gli impegni europei, si tratta invece, come si è detto, di sostituire i combustibili fossili con risparmio e fonti rinnovabili per circa il 40% dei consumi complessivi. In questa sede non entriamo nel dettaglio delle tecnologie per l'uso più efficiente dell'energia e per l'impiego delle fonti pulite, alternative ai combustibili fossili. Basterà qui osservare come l'obiettivo definito dall'Unione europea poggia la sua coerenza sul decollo accelerato di queste tecnologie che si registra ormai in molti paesi e che è nei programmi annunciati da Obama, ma anche dalla Cina. Si va: • dai parchi eolici, ai pannelli solari termici per l'acqua calda, ai pannelli fotovoltaici per l'elettricità; • al ricorso al solare termodinamico collegato con l'immagazzinamento del calore ad alta temperatura in serbatoi salini ad alta capacità termica; • alla pluralità degli interventi che si possono realizzare nel comparto dell' edilizia. A partire dalla riqualificazione energetica degli edifici, che nel solo settore pubblico è in grado, come mostra lo studio ad hoc di Enea presentato nel febbraio 2009, di consentire oltre al risparmio energetico un ritorno economico di 19 miliardi di euro, più 14 di valore aggiunto per le modifiche apportate e 150.000 nuovi posti di lavoro, a fronte di 8,2 miliardi di euro di investimento. Altro che "piano casa" di Berlusconi! • agli interventi di adeguamento delle reti di trasporto per servire persone e merci con sistemi e tecnologie a minore impatto ambientale: non si tratta dunque soltanto di produzioni materiali, seppure altamente tecnologiche, come i veicoli ibridi ed elettrici alimentati da nuovi carburanti e da celle a combustibile, o le microcentrali eoliche o solari per fornire idrogeno, ma anche di sistemi operativi e informatici ad altissima sofisticazione, dedicati alla riduzione del traffico, alla gestione del car sharing e car pooling, alla riorganizzazione dei sistemi di trasporto nella produzione e commercializzazione delle merci per risparmiare mobilità; • ai progetti per la produzione di idrogeno con l'impiego del sole, del vento e la utilizzazione di questo con le celle a combustibile e nei motori;
• a tutti gli impieghi termici alimentati da fonti rinnovabili (oltre che
solare, geotermia, biomasse; B.6.1).
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