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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA 7 PRIMA PARTE 11 Uno sguardo all'educazione attuale dalla prospettiva della biologia della conoscenza A che cosa serve l'educazione? Razionalità ed emozione Origine dell'umano: il linguaggio Evoluzione e competizione Le emozioni Fondamento emozionale del sociale Biologia dell'educazione Che cosa è educare? SECONDA PARTE 42 Linguaggio, emozioni ed etica nel fare politico La conoscenza e il linguaggio La spiegazione e l'esperienza L'oggettività tra e senza parentesi Oggettività e relazioni umane Razionalità ed emozioni La corporeità Le spiegazioni scientifiche Linguaggio e azione Emozioni e interazioni umane: l'amore Relazioni sociali e non sociali Etica Costituzione politica e convivenza TERZA PARTE 95 Domande e risposte QUARTA PARTE 107 Epitome Linguaggio Emozioni Etica Cospirazione EPILOGO 116 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Prefazione all'edizione italianaSe osserviamo il nostro attuale modo di vivere, ci vediamo dolorosamente intrappolati in due tipologie comportamentali prevalenti. Da un lato ci sono i fondamentalismi, i quali sostituiscono comportamenti etici con moralismi religiosi o politici che, nel momento stesso in cui vengono posti, negano la possibilità di riflettere sui loro fondamenti. Dall'altro lato c'è la cecità educativa, cioè non comprendere che il compito più importante per l'integrità di una comunità umana o di una unità sociale è la formazione dei suoi componenti da parte dei membri già esistenti. Gli atteggiamenti fondamentalisti portano inevitabilmente alla discriminazione, al risentimento e all'aggressività. La cecità nell'educazione porta alla disgregazione sociale, all'emarginazione, alle droghe e alla delinquenza. L'educazione è quel processo che fa entrare i giovani (i nostri bambini e le nostre bambine) in una convivenza auspicabile per il loro benessere e per il benessere degli adulti che rendono possibile la loro vita. L'inserimento dei giovani nella vita degli adulti, come comportamento animale, non è un'invenzione dell'uomo. Anzi. L'umano sorse, nella storia evolutiva che ci ha dato origine, quando i nostri antenati cominciarono a trasmettere come aspetto del convivere quotidiano, attraverso l'inserimento dei giovani nel fluire della convivenza degli adulti, l'espansione della convivenza amorosa nella cooperazione, nella condivisione del cibo, nel gioco e nelle carezze. Quando nella convivenza accadde questo, e quando questo modo di convivere si conservò da una generazione all'altra tramite l'apprendistato dei giovani, nacque il nostro lignaggio come modo di convivere nella reciproca cura, nel piacere di stare insieme, nella vicinanza fisica, nell'intimità sessuale e nel gioco. Questo modo di convivere in piccoli gruppi trasmettendo il piacere della vicinanza fisica e della collaborazione costituì la famiglia ancestrale del nostro lignaggio, come ambito duraturo nel quale poté nascere la convivenza nel linguaggio come convivenza nel continuo fluire di coordinazioni di coordinazioni di atti consensuali sorretto dal benessere della reciproca vicinanza. Il linguaggio deve essere nato, fin dall'inizio, intrecciato con le emozioni della convivenza, nella dinamica di coordinazioni ricorsive di atti ed emozioni che oggi chiamiamo conversare. Parlare-conversare devono essere nati insieme come un modo di convivere che integra giovani e adulti, in uno stato di benessere, nella coordinazione degli atti di tale convivenza, nel piacere della condivisione e della partecipazione. Vale a dire che il nostro lignaggio deve essere sorto nella trasmissione da una generazione all'altra di un modo di convivere nel conversare, in quanto lignaggio biologico-culturale di primati bipedi centrato sul piacere della vicinanza, sulla partecipazione e la condivisione. Tuttavia, poiché la dimensione culturale del lignaggio biologico umano è più duttile della sua dimensione biologica, e cambia più rapidamente di quest'ultima nel corso del divenire delle generazioni (giacché può farlo da una generazione all'altra), possiamo parlare di lignaggi culturali come modi di convivere che si conservano nell'apprendistato dei giovani nel loro farsi adulti. E infatti, nel nostro divenire culturale, noi esseri umani possiamo adottare e conservare qualsiasi modo culturale di vivere che non elimini gli adulti prima che tale modo di vivere sia appreso dai giovani della generazione successiva. Questo è il dilemma principale che stiamo vivendo come umanità nel nostro divenire culturale. Per la biosfera, la terra, il cosmo, è indifferente se viviamo o non viviamo, se si conserva o non si conserva il lignaggio umano. Al tempo stesso, per la biosfera, la terra, il cosmo, è indifferente quale lignaggio culturale viviamo, se viviamo nell'amore, nella collaborazione e nel benessere, o se viviamo nella sottomissione, nella paura o nella interminabile sofferenza della continua negazione culturale. È a noi esseri umani che non può essere indifferente se viviamo e conviviamo in un modo o nell'altro, perché esistiamo in reti di conversazioni nelle quali possiamo riflettere e chiederci se ci piace o non ci piace la convivenza che viviamo. Quali che siano le nostre risposte a tali domande, quello che faremo nel corso della nostra vita sarà determinato momento per momento da queste risposte, e genereremo, in modo consapevole o inconsapevole, il mondo che nasce con il nostro vivere. Tutto il nostro vivere come esseri umani è in quanto tale politico, perché genera mondi, e i mondi che generiamo con il nostro vivere e convivere nascono dalle emozioni che fondano le risposte consapevoli o inconsapevoli che forniamo a tali domande. Al tempo stesso, tutto ciò che facciamo nel nostro vivere e convivere come esseri umani sarà di per sé anche educazione, perché opererà sempre come formatore dei sentimenti dei giovani che direttamente o indirettamente convivono con gli adulti, il cui vivere e convivere inevitabilmente li induce ad accettarli o respingerli. Come dicevamo all'inizio di questa prefazione, siamo immersi in due tipi di comportamenti che ci riducono a una vita dolorosa: i fondamentalismi che ci spingono alla discriminazione, al risentimento, all'aggressività; e il non riconoscere (per ignoranza, negligenza o avidità) che la nostra cecità di fronte al fatto che il convivere quotidiano degli adulti è di per sé l'atto primario dell'educazione, ci porta a gettare i nostri giovani tra le braccia della disgregazione sociale, dell'emarginazione, della delinquenza e delle droghe. Il futuro dell'umanità non sono i giovani ma gli adulti, con i quali i giovani si trasformano consapevolmente o inconsapevolmente nella convivenza prossima e remota. Questi adulti siamo noi, cosicché, a dire il vero, il futuro dell'umanità siamo noi e non loro. Come ha scritto qualche tempo fa un giovane delinquente in una lettera al ministro dell'Interno cileno: Non sono nato delinquente, sono diventato delinquente nella vita che mi è toccata vivere. Humberto Maturana R. e Ximena Dàvila Y., Instituto Matríztico, 13 settembre 2006 | << | < | > | >> |Pagina 13[...] Una volta, all'inizio dei miei studi universitari, noi studenti del primo anno ci riunimmo per dichiarare la nostra appartenenza politica. Quando questo accadde, quello che mi sembrò assai positivo fu che, nella diversità delle nostre identità politiche, c'era un proposito comune: restituire al paese quello che stavamo ricevendo da lui. Vale a dire che vivevamo la nostra appartenenza alle differenti ideologie come modi diversi di assolvere alla nostra responsabilità sociale, in una promessa esplicita o implicita di realizzare il compito fondamentale di porre fine alla povertà, alla sofferenza, alle disuguaglianze e ai soprusi.La situazione e le preoccupazioni degli studenti di oggi sono cambiate. Oggi gli studenti si trovano di fronte al dilemma di scegliere tra quello che si chiede loro, cioè che si preparino a competere sul mercato professionale, e l'impulso dettato dalla loro empatia sociale che li porta a voler cambiare un sistema politico-culturale che produce disuguaglianze eccessive, che a loro volta generano povertà e sofferenza materiale e spirituale. La differenza tra prepararsi per restituire al paese quanto si è ricevuto, operando per porre fine alla povertà, e prepararsi a competere sul mercato del lavoro è enorme. Si tratta di due mondi del tutto differenti. Come ho già detto, quando ero studente desideravo restituire alla comunità quanto ricevevo, senza contraddizioni, perché la mia emozione e la mia sensibilità nei confronti dell'altro e il mio proposito cosciente rispetto al paese coincidevano. Ma attualmente tale coincidenza tra proposito individuale e proposito sociale non si verifica perché, nel momento in cui una persona si forma come studente per entrare nella competizione professionale, fa della propria vita studentesca un processo preparatorio finalizzato all'ingresso in un complesso di interazioni che si definisce nella negazione dell'altro, usando l'eufemismo: libero mercato e sana competizione. La competizione non è né può essere sana, perché si costituisce sulla negazione dell'altro. La sana competizione non esiste. La competizione è un fenomeno culturale e umano e non è costitutiva del biologico. Come fenomeno umano la competizione si costituisce nella negazione dell'altro. Osservate le emozioni contenute nelle competizioni sportive: qui non esiste la sana convivenza, perché la vittoria dell'uno scaturisce dalla sconfitta dell'altro, e la cosa grave è che, nel discorso che esalta la competizione come valore sociale, non si avverte l'emozione che costituisce la prassi del competere e che è quella che sta alla base delle azioni che negano l'altro. | << | < | > | >> |Pagina 22Evoluzione e competizioneL'evoluzione è un processo conservatore. Quando si parla di esseri viventi, e della diversità degli esseri viventi, e si pensa alla spiegazione evolutiva che propone un antenato comune per tutti, ci si meraviglia dei cambiamenti che si sono dovuti verificare dall'origine degli esseri viventi fino alla nostra epoca. Questo stupore, tuttavia, non deve nascondere l'elemento fondamentale: perché tale storia abbia luogo, deve esserci la conservazione del nuovo nella conservazione del vecchio. La biologia moderna si è concentrata sulla genetica e sulla ereditarietà per spiegare tale conservazione, assimilando ogni carattere o tratto fissabile negli esseri viventi a un determinante molecolare negli acidi nucleici. Così, per la biologia moderna la specie è definita come una configurazione genetica che si conserva attraverso la storia riproduttiva di una popolazione o di un sistema di popolazioni, e l'evoluzione come il cambiamento nella configurazione genetica conservata in tale popolazione o sistema di popolazioni. Io non la penso così. Io penso che ciò che definisce una specie è un modo di vita, una configurazione di relazioni mutevoli tra organismo e ambiente che ha inizio con il concepimento dell'organismo e ha fine con la sua morte, e che si conserva generazione dopo generazione come un fenotipo ontogenetico, come un modo di vivere in un ambiente, e non come una configurazione genetica particolare. Il cambiamento evolutivo avviene, secondo questo approccio, quando si costituisce un nuovo lignaggio con il mutamento del modo di vita, che si conserva in una successione riproduttiva. Per questo, nella misura in cui il cambiamento evolutivo avviene attraverso la conservazione di nuovi fenotipi ontogenetici, l'elemento centrale del fenomeno evolutivo risiede nel cambiamento del modo di vita e nella sua conservazione nella costituzione di un lignaggio di organismi congruenti con la situazione e non in contraddizione con essa. In ragione di ciò, il fenomeno della competizione che avviene nell'ambito culturale umano e che implica contraddizione e negazione dell'altro, non si dà in ambito biologico. Gli esseri viventi non umani non competono, si spostano gli uni accanto agli altri in reciproca congruenza, conservando la loro autopoiesi e la conformità a un ambiente che include la presenza di altri e non li nega. Se due animali si scontrano di fronte a un cibo e uno lo mangia e l'altro no, questa non è competizione. Non lo è perché non è fondamentale per l'esistenza di quello che mangia che l'altro non mangi. In ambito umano, invece, la competizione si costituisce culturalmente quando il fatto che uno abbia quello che l'altro non ha diventa fondamentale come modalità di relazione. La vittoria è un fenomeno culturale che si costituisce nella sconfitta dell'altro. La competizione si vince quando l'altro fallisce rispetto all'uno, e si costituisce quando il fatto che ciò accada è culturalmente desiderabile. Nell'ambito biologico non umano questo fenomeno non si dà. La storia evolutiva degli esseri viventi non comprende la competizione. Per questo, nell'evoluzione dell'essere umano non entra la competizione, ma la conservazione di un fenotipo ontogenetico o modo di vita, nel quale l'uso del linguaggio può sorgere come una variazione congiunturale alla sua realizzazione quotidiana che non richiede niente di speciale. Tale modo di vita si realizzò nelle coordinazioni comportamentali del condividere il cibo, passandoselo gli uni con gli altri all'interno di interazioni ricorrenti della sensualità personalizzata, indotte dal rapporto sessuale frontale e dalla partecipazione dei maschi all'allevamento dei figli, già presente nei nostri antenati di tre milioni e mezzo di anni fa. In altre parole, sostengo che è nella conservazione di un modo di vita in cui condividere il cibo, nel piacere della convivenza e nell'incontro e reincontro sensuale ricorrente, nel quale i maschi e le femmine si trovano a convivere intorno all'allevamento dei figli, che poteva darsi, e si sarebbe dato, quel modo di vita in coordinazioni di coordinazioni di azioni consensuali che avrebbe costituito il linguaggio. Infine, penso anche che tale modo di vita, nel quale le coordinazioni di coordinazioni comportamentali consensuali sorgono nell'intimità della convivenza, nella sensualità e nella condivisione, dando origine al linguaggio, appartenga alla storia del nostro lignaggio da almeno tre milioni di anni. E dico questo in considerazione del grado di coinvolgimento anatomico e funzionale che il nostro cervello ha con il linguaggio orale. | << | < | > | >> |Pagina 26Fondamento emozionale del socialeL'emozione fondamentale che rende possibile l'ominazione è l'amore. So che quanto dico può risultare scioccante, ma insisto, è l'amore. Non sto parlando da un punto di vista cristiano. Devo anzi dire che, malauguratamente, la parola amore è stata snaturata, e a furia di ripetere che l'amore è qualcosa di speciale e difficile, si è svigorita anche l'emozione che connota. Lamore è costitutivo della vita umana, ma non è niente di speciale. L'amore è il fondamento del sociale, ma non tutta la convivenza è sociale. L'amore è l'emozione che costituisce l'ambito di comportamenti in cui ha luogo l'operatività dell'accettazione dell'altro come altro legittimo nella convivenza. Ed è questo modo di convivenza quello che intendiamo quando parliamo del sociale. Per questo dico che l'amore è l'emozione che fonda il sociale: senza accettazione dell'altro nella convivenza non c'è fenomeno sociale. In altri termini, dico che sono sociali soltanto le relazioni che si fondano sull'accettazione dell'altro come altro legittimo nella convivenza e che tale accettazione è ciò che costituisce un comportamento di rispetto. Senza una storia di interazioni sufficientemente ricorrenti, coinvolgenti e prolungate, in cui ci sia accettazione reciproca in uno spazio aperto alle coordinazioni di azioni, non possiamo sperare che nasca il linguaggio. Se non vi sono interazioni nella reciproca accettazione, si produce separazione o distruzione. In altre parole, se nella storia degli esseri viventi c'è qualcosa che non può nascere all'interno della competizione, questo è il linguaggio. | << | < | > | >> |Pagina 39A che scopo educare, dunque?A volte parliamo come se non ci fosse alternativa al mondo di lotta e competizione che ci circonda, come se dovessimo preparare i nostri figli e i giovani a questa realtà. Un simile atteggiamento si basa su un errore e produce illusioni. Non è l'aggressività l'emozione fondamentale che definisce gli esseri umani, ma l'amore, la coesistenza nell'accettazione dell'altro come altro legittimo nella convivenza. Non è la lotta il modo fondamentale di relazione umana, ma la collaborazione. Parliamo di competizione e lotta, creando una vita intrisa di competizione e lotta, non solo tra noi, ma anche con l'ambiente naturale. Per questo si sente dire che noi esseri umani dobbiamo lottare e vincere le forze della natura per sopravvivere; come se questa fosse stata e fosse la forma naturale del vivere. Non è così! La storia dell'umanità segnata dalla guerra, dalla dominazione che sottomette e dall'appropriazione che esclude e nega l'altro, ha origine con il patriarcato. In Europa, che è la nostra fonte culturale, prima del patriarcato si viveva in armonia con la natura, nel piacere della conformità con il mondo naturale, nello stupore della sua bellezza, e non in lotta con la natura. A che scopo educare? Per recuperare questa fondamentale armonia che non distrugge, che non sfrutta, che non abusa, che non pretende di dominare il mondo naturale, ma che vuole conoscerlo nell'accettazione e nel rispetto, affinché il benessere umano si produca nel benessere della natura nella quale si vive. Per questo dobbiamo imparare a guardare e ascoltare senza timore di lasciar essere l'altro, in armonia, senza assoggettamento. Voglio un mondo nel quale si rispetti la natura che ci alimenta, un mondo nel quale si restituisca quello che la natura ci presta per vivere. In quanto esseri viventi siamo esseri autonomi, ma nel vivere non lo siamo. Voglio un mondo nel quale non si usi più l'espressione «risorsa naturale», nel quale si riconosca che ogni processo naturale è ciclico e che se tale ciclo viene interrotto, finisce. Nella storia dell'umanità, i popoli che non lo hanno capito hanno distrutto se stessi, esaurendo le cosiddette risorse naturali. Il progresso non sta in una continua e sempre più complessa trasformazione tecnologica, bensì in una comprensione del mondo naturale che consenta di recuperare l'armonia e la bellezza dell'esistere al suo interno. Ma per osservare il mondo naturale e accettarlo senza pretendere di dominarlo dobbiamo prima imparare ad accettare e a rispettare noi stessi come individui. | << | < | > | >> |Pagina 111Personalmente non considero la democrazia come un'opportunità di lotta ideologica. Credo che la lotta ideologica neghi la democrazia e, al tempo stesso, penso che le ideologie siano assolutamente essenziali perché sono differenti modi di guardare che permettono di vedere cose diverse. Le varie ideologie implicano conversazioni distinte, vale a dire distinte reti di coordinazioni emozionali e di azioni, il che si realizza in differenti distinzioni nel perseguimento di un progetto comune.
Le conversazioni di lotta non appartengono alla democrazia. La lotta
costituisce il nemico, perché ne ha bisogno, e offusca le condizioni che gli
danno origine. Nella lotta ci sono vincitori e vinti, non scomparsa di nemici.
Lo sconfitto tollera il vincitore nella speranza di una opportunità di
rivincita. La tolleranza è una negazione dell'altro temporaneamente sospesa. Le
vittorie che non sterminano il nemico preparano la
guerra successiva. Nella democrazia non c'è lotta. Se vogliamo
la democrazia, e nei fatti siamo all'interno della passione in
grado di costruirla, vuol dire che siamo all'interno delle conversazioni che la
costituiscono come un progetto comune di convivenza, nell'accettazione e nel
rispetto reciproci; delle conversazioni che permettono la collaborazione nella
configurazione di un mondo nel quale la povertà e il sopruso non
siano presenti come modi legittimi di vivere. Se siamo all'interno della
passione per la democrazia, siamo nelle conversazioni che rendono le diverse
ideologie modi differenti di scoprire distinti errori nella realizzazione del
progetto comune. Se siamo all'interno della passione per la democrazia, possiamo
ascoltare l'altro e collaborare. Se siamo nella lotta, l'altro deve
sparire, perché, prima o poi, ci distruggerà.
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