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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 5 di Rossana Rossanda |
| << | < | > | >> |Pagina 5Come parlare di un uomo i cui libri sono un mosaico, fatti di mille tessere tutte problematiche, relative al passato e al presente, pieni di interrogativi inquietanti? Predrag Matvejevic ci ha abituato a questa sua scrittura senza pacificazione, che ha una forma bellissima ma non se ne accontenta, incalzato come è da domande inesorabili sul perché e sul che cosa. Tutto lo incanta, ma nessuna bellezza lo acquieta, è uomo di domande cognitive ed etiche. Solo due temi tra i molti. Primo, l'«ex». «Ex» di che cosa? Di territori, nazioni, stati che in un secolo cambiano tre volte di statuto e di confini e sono traversati da radicali convulsioni, se non rivoluzioni, sociopolitiche? Anche io sono una «ex» in questo senso. Sono nata a Pola, e nel passaporto non sanno se scrivere: «Pola, Italia» o «Pola, Croazia», e dubitano della mia nazionalità. Come Matvejevic, non ho più potuto avere l'estratto dell'atto di nascita, la guerra - la seconda guerra mondiale - avendo mandato all'aria municipio e registri. Per certificare che sono nata, cinque persone molto più giovani hanno giurato davanti a un giudice che ero venuta al mondo nel 1924: la burocrazia è geniale. Mio padre era istriano, parlava italiano, tedesco e quello che chiamava serbo-croato: si laureò in legge a Vienna parlando latino, perché era un irredentista (Cesare Battisti e Nazario Sauro nel cuore). Fece la guerra sparando attentamente in modo da non colpire nessuno. Quando arrivò l'Italia, al posto dell'ordinato, tollerante e un po' stupido impero austroungarico, fu prima l'Italietta sciattona e poi l'Italia fascista arrogante. Seguì la crisi del 1929, nella quale perse assolutamente tutto, per cui si sentì «ex» per tutta la vita, senza aver qualcosa di cui sentire nostalgia. Anche mia madre era di Pola, figlia di un ufficiale della marina austriaca. Ma come succede alle donne, più prese da quel che sono che da quel che erano, non si sentì troppo «ex», era più curiosa del presente. Tutti e due parlavano tedesco, che era la lingua dei grandi di fronte ai bambini. I nostri amici erano di quelle parti, tra Pola, Trieste e Fiume, dunque italiani, austriaci, croati, sloveni, ungheresi: i loro volti e i loro nomi abolirono in me qualsiasi identità nazionale, e quando a scuola la sentii agitare dai fascisti, mi fece infastidire o ridere. Non sento il bisogno di identità nazionali né religiose, fino al '38 non abbiamo mai distinto chi fosse ebreo e chi no, forse lo eravamo in parte tutti. Splendidi bastardi di un «ex» Centro Europa, ai miei occhi la più simpatica identità-non identità possibile. Predrag Matvejevic scrive con ragione, riferendosi a un amico, che per Mitteleuropa si intende questa razza - forse due o tre generazioni - di sudditi indocili degli Asburgo, assolutamente uniti dal non poter avere una nazioncina-stato, che immaginavamo avrebbe avuto tutti i difetti e nessuna delle qualità del grande impero in decadenza, contro il quale si era però energicamente protestato. Quanto ai miei, credo che gli piacesse quella triestinità da «ex» grande porto, snodo, passaggio fra Nord e Sud, Est e Ovest, plurilingue e «diverso» dal resto d'Italia. Insomma non ho sentimento nazionale, sono lieta che i tedeschi non mi abbiano messa al muro anche per non dover gridare: «Viva l'Italia». Ho fatto la Resistenza, credo, perché erano nazisti e fascisti, non perché tedeschi. Se mi posassero in Groenlandia, credo che diventerei groenlandese senza sforzo (salvo il clima). Come Predrag Matvejevic sono, se mai, mediterranea e adriatica. Ma è una nazione? È un colore, un passaggio tra pietre e mare, il transito fatto geografia. Forse solo di questo sentirei una Sehnsucht, se non dovessi vederlo mai più. Ma non ne sono certissima. Ho il sospetto che la condizione di «ex» è quella nella quale anche Predrag Matvejevié vuole stare. Vorremmo essere altro? Farei l'elogio della condizione apolide, mi convince che dopo il ritorno a Itaca Ulisse sia ripartito, senza più dar notizia di sé, non riuscendo a stare nella stessa isola, stesso cielo, stesso mare. Noi siamo di quelli che traversano i confini più volentieri che non cambiano scarpe. Davvero dobbiamo farci compiangere? Anche qui, e concludo, è diverso essere un intellettuale o un musulmano di Bosnia, contadino, cacciato in nome della pulizia etnica. Terra e nazione sono altro per chi ha i privilegi che noi abbiamo. Altra cosa, quella che Predrag Matvejevic un po' abusivamente mescola all'«ex» nazionalità, è l'esser «ex» di sé stesso, delle proprie speranze o illusioni o compromessi e alla fine tradimenti. Questa è una condizione non specifica del Novecento ma diffusa nel Novecento. Mi chiedo se sia un effetto e una responsabilità degli altrui poteri, o della fragilità delle scelte che ognuno di noi ha fatto. Certo, le scelte sono state per noi più pericolose e impegnative, più a rischio assoluto, che per altre generazioni: ma dobbiamo dolerci forse di averle fatte e disfatte con troppa facilità, trovando pretesti per l'una e l'altra cosa, incapaci di vivere scegliendo davvero e tenendo fede a una scelta, cioè - come Predrag Matvejevic dice felicemente della propria nazione - assumendone e condannandone tutti gli errori. Non tanto per coerenza quanto per decenza. Per un'idea non domestica di responsabilità. Bisogna tentare di far la cosa giusta, e non miagolare se ci si sbatte il muso. Può essere una tragedia, ma gran parte degli «ex» del comunismo, delle nazionalità o altro, sono - diciamocelo una volta per tutte - o voltagabbana o tediosissimi. Mai in grado di «voltare una pagina dopo averla letta», secondo la bellissima espressione che Predrag Matvejevic cita. Eppure, quando si viene da un secolo e da errori come i nostri, leggerla sul serio è il solo ma decisivo dovere verso quelli che verranno dopo. Per ultimo. mi chiedo se non si debbano protrarre fino in fondo le conseguenze del fatto che in ogni senso della nazione c'è in radice un nazionalismo. Forse un tempo si poteva avere il senso della nazione, che era qualcosa di più di un territorio: penso all'idea di repubblica nella Francia del dopo 1789. Se ne poteva derivare un vivo interesse e più che una semplice tolleranza per le altre nazioni, anche se per lo più è l'intolleranza o il dominio che ne sono derivati. Ma oggi? Se è vero, e Predrag Matvejevic lo ricorda, che in ognuno di noi c'è più di una persona, siamo interconnessi ormai su scala mondiale, che cosa è una nazione? Che cosa è una cultura nazionale? Se fosse come un bellissimo museo da visitare e conservare, invece che un appiglio per l'identità? Va da sé che sono incline a questa avventura. | << | < | > | >> |Pagina 11Il dopo guerra fredda ha visto una parte del mondo vivere un'esistenza in qualche modo postuma: un ex impero, numerosi ex stati ed ex patti di alleanza tra stati, tante ex società ed ex ideologie, ex cittadinanze ed ex appartenenze, e anche ex dissidenze. È legittimo domandarsi cosa significhi, in realtà, essere «ex» o dirsi «ex». Essere stato cittadino di un'ex Europa finalmente affrancata, di una ex Unione Sovietica disgregata, di una ex Iugoslavia distrutta? Essere diventato un ex socialista o ex comunista, ex tedesco dell'Est, ex cecoslovacco, membro di un ex partito o partigiano di un ex movimento, o chissà cos'altro? Non essere più - o non voler più essere - ciò che si è stati o ciò che si presumeva essere? Lo statuto di «ex» è più grave di quanto non sembri a tutta prima: quell'«ex» è visto come un marchio, talvolta come delle stimmate. E di volta in volta un legame, involontario, o una rottura, voluta. Può trattarsi di un rapporto ambiguo, quanto di una qualità ambivalente. Il senso di quanto può essere definito come «ex» e l'atteggiamento adottato nei suoi riguardi variano da un caso all'altro: tra deplorare la caduta di una ex Unione Sovietica e compatire la tragedia della Bosnia nella ex Iugoslavia, ci sono ben poche cose in comune. Ciò vale anche per gli abitanti dei paesi in questione. Essere «ex» è, da una parte, avere uno statuto mal determinato e, dall'altra, provare un sentimento di disagio. Tutto ciò concerne tanto gli individui quanto la collettività, tanto la loro identità quanto le modalità della loro esistenza: una specie di ex istanza, a un tempo retroattiva e sovrapposta. Il fenomeno è nello stesso tempo politico (o geopolitico se si preferisce), sociale, spaziale e psicologico. Pone più di una questione morale e mette in causa una morale precedente. Incontro molti ex compatrioti che trovano ancora difficoltà a pronunciare la parola ex Iugoslavia (la loro lingua si inciampa in quel fastidioso prefisso); altri invece lo articolano con un piacere di vendetta o correggono quelli che osano storpiarlo. (Adesso comprendo meglio quei membri della mia famiglia paterna che, nell'URSS di Breznev, temevano di essere sovietizzati al punto di diventare ex russi o ex ucraini. È stato appena inventato il verbo ex urssificare, nel senso di esorcizzare o di purificare. Siamo forse condannati a vivere un ex destino, a ritroso?) Alla fine di un secolo è normale fare dei bilanci. A che serve fare un ex bilancio? Si è già imparato tutto sulla questione, più per via pratica che teorica. L'Est non ha diritto esclusivo allo statuto di «ex». In Occidente e altrove, si conoscono bene degli ex stalinisti, degli ex colonialisti, degli ex sessantottini, tutta una ex sinistra diventata nuova destra, una vecchia destra convertita al «neoliberalismo», una ex democrazia cristiana suddivisa tra destra e sinistra, che ha impoverito il cristianesimo senza arricchire per contro la democrazia; una ex socialdemocrazia imbastardita, sulla quale si sono innestati dei partiti comunisti pentiti; un ex socialismo occidentale che si è tagliato via dalle sue stesse radici; un ex gaullismo che trova difficoltà a riagganciarsi al suo passato; un ex gorbaciovismo che non ha né passato né avvenire nel proprio paese; ogni sorta di ex revisionismi o di ex deviazioni viste adesso come una forma di ortodossia, ossia una «linea difficile». Probabilmente, domani si parlerà di una ex Europa, precedente all'Unione Europea che finalmente diventa effettiva, rinnegando un vecchio continente inerte e indeciso, colpevole per molti motivi. C'è un odore di ancien régime in Europa, un odore d'infezione o di avaria. La morale sembra si adatti alle mille e una maniere di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore come una sopravvivenza. Entriamo in un tempo del dopo. Non si nasce «ex», lo si diventa. Tanti rinnegamenti, rimaneggiamenti del passato o del presente sono in atto, autogiustificazioni o aggiustamenti di percorso, fughe in avanti o all'indietro, modi di rifare o di disfare se non la propria vita almeno l'autobiografia. Certi «nuovi intellettuali» dell'ex Europa dell'Est, che pure furono pilastri della società di ieri, eccellono in questo gioco di recupero o di rimpiattino. I membri della vecchia nomenklatura - ex dignitari o ex officianti, ex direttori d'imprese o di coscienze - sono tornati in scena dopo un'uscita temporanea. Il vecchio regime, è vero, non ha avuto alcun presentimento della sua prossima fine. L'ex apparato assapora la vittoria di cui s'appropria. La questione del senso o della finalità della storia è l'ultima preoccupazione degli esegeti. Lo shock per quanto è accaduto, nell'ex Europa cosiddetta dell'Est, è stato tanto violento quanto imprevisto. Le transizioni, per quanto male assicurate, prevalgono ancora sulle trasformazioni. Queste ultime hanno difficoltà a imporsi o, quando si realizzano, paiono talvolta grottesche. La democrazia proclamata appare più spesso con le caratteristiche di una «democratura» (ho coniato questo termine qualche anno fa per definire un ibrido tra democrazia e dittatura). Un populismo penoso è sempre stato pronto a sostenere regimi di questo tipo. La laicità è stata poco popolare in questa parte del mondo. Il «giocattolo nazionale» non ha mai perso la sua attrattiva. La cultura nazionale si converte facilmente in ideologia della nazione e sbocca su progetti nazionalisti. Un'utopia grandiosa, nata nel cuore dell'Europa occidentale e bruscamente trapiantata nell'Est, ha generato ben più che un fallimento: anche i valori che l'hanno ispirata si sono squalificati. L'idea di emancipazione scompare dall'orizzonte. Non si tratta soltanto dei segni di uno stato di cose stravolto: tutto un mondo diventa un ex mondo, un tempo si fa il tempo del dopo. I suoi stessi abitanti, anche quando lo abbandonano o emigrano, non smettono di portarne l'impronta. Io tento di testimoniarne una specie di confessione. I nostri discorsi sono quasi inevitabilmente sfasati, il loro centro di gravità sembra spostato. La parola critica oscilla tra tradimento e oltraggio, in particolare in un contesto plurinazionale: criticare la propria nazione equivale a tradirla; criticarne un'altra vuoi dire offenderla. Trovarsi fra tradimento e oltraggio estenua la critica, o finisce addirittura per annullarla. Nella misura in cui uno riesce a prendere le distanze da un ex spazio o da un ex ambiente determinato, il discorso non smette di ritrovarsi in una posizione altrettanto poco confortevole: tra asilo ed esilio corre il rischio di essere alienato oppure ridotto al silenzio. La saggezza nella maggior parte dei casi gli è di ben scarso soccorso. Gli esempi da citare non mancherebbero. Quanto a quella parte, abbastanza ridotta, dell'intellighenzia che il nazionalismo non ha accecato, i suoi aderenti trascinano i loro «ex» come altrettanti insuccessi o disillusioni. Ho l'abitudine di allinearli sotto forma di litania: i regimi totalitari sono stati abbattuti, e noi restiamo tuttavia ossessionati dal totalitarismo; abbiamo creduto di conquistare il presente, e non siamo capaci di controllare il passato; abbiamo denunciato la storia, e continuiamo a essere invasi dallo storicismo; abbiamo visto nascere delle libertà e non sappiamo che farcene o rischiamo di abusarne; abbiamo difeso un retaggio nazionale, e adesso dobbiamo difenderci da esso; abbiamo voluto salvaguardare la memoria, e la memoria sembra che adesso ci punisca;
si impongono le spartizioni, e non c'è più niente da spartire.
Il mondo «ex» e il tempo del dopo sono pieni di eredi senza eredità, di svariate mitologie che si escludono reciprocamente: riedizioni del passato e del presente, immagini disparate, rimesse insieme alla leggera, schermi frapposti in fretta o griglie di lettura mal applicate, paradigmi messi in questione dalla loro stessa definizione. Le utopie e i messianesimi si vedono sistemati tra gli accessori di un passato irrecuperabile. Un aggiornamento della fede e della morale è perseguito solo in ambienti ristretti. Un postmodernismo cerca, senza troppa fortuna, di imporsi sull'arte e sul pensiero per rimpiazzare ciò che poco tempo fa era stato acclamato come «moderno»: un ex modernismo criticabile, certamente, ma non insignificante. Le avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli, sono ormai «classificate». Le fonti della grande letteratura, generatrice di simboli, sembrano esaurite. Forme di decostruzione tendono, senza molta speranza, a sostituirsi a sintesi poco soddisfacenti. Una nuova storia rifiuta di sottoporre la lunga durata, come faceva la precedente, al vaglio degli avvenimenti. La vecchia università non riesce a riformarsi. L'invocazione dell'«immaginazione al potere» è ormai dimenticata. Tutta una ex cultura non riesce, se non con gravi difficoltà, a impadronirsi di quelle innovazioni che sono offerte o richieste dalla tecnologia di punta. In ognuno di questi casi, siamo messi a confronto con una realtà già scaduta che non cessa tuttavia di trascinarsi: è difficile da sopportare, è impossibile liberarsene. Molte epoche hanno conosciuto uno stato di cose analogo, passato e presente insieme. È uno dei tratti dominanti della nostra, che sembra concludersi sotto il segno dell'«ex» e del dopo. Cento anni fa, una fin de siècle, prolungandosi, determinava il modo di vivere. La nostra postmodernità rifiuta gli stili preesistenti senza incarnarne nessuno. Con «ex» designiamo in primo luogo fatti di ordine politico o sociale, qualche volta anche storico. L'uso della particella «ex» è incerto: è anteposta o posposta non senza che questa scelta abbia qualche riferimento alle gerarchie. Prefisso o suffisso, con o senza virgolette, sottolineata o messa in evidenza, in tutti i modi in cui viene scritta questa particella si presenta ora sotto forma di aggettivo designante un processo già chiuso, ora come un avverbio che riflette una maniera di chiudere. È anche un nome: un «ex», degli «ex». (Io sono uno di quelli.) | << | < | > | >> |Pagina 19Ho soggiornato in Russia, in Bielorussia e in Ucraina dopo la caduta del regime sovietico. Ho attraversato diversi paesi dell'Europa dell'Est, fermandomi nelle capitali, avventurandomi nelle province. Seguendo il Danubio sono sceso fino al mar Nero e ho visitato Odessa, città natale di mio padre. L'ho riconosciuta appena: non assomiglia più a sé stessa. Ho navigato sul Volga, guardando le sue rive segnate dalla miseria e dal disordine. Ho rivisto Praga e Varsavia: Varsavia mi ha deluso, Praga mi ha incoraggiato. Sono rimasto indifferente a Budapest, triste a Bucarest. Ho annotato le mie impressioni, non ho voluto dissertare sulle trasformazioni avvenute in quei paesi dopo «l'evento». Raramente sono entrato nelle biblioteche: ho cambiato spesso tavolo di lavoro. La storia del comunismo, ci sono altri che la scrivono: a me interessavano gli ex comunisti, tanto nell'Europa dell'Est quanto in quella dell'Ovest. A seguito della distruzione del muro di Berlino la gioia è stata di breve durata, subito sostituita dalla preoccupazione. La strada dal comunismo al postcomunismo si è rivelata più ardua di quanto si sarebbe potuto credere: nessuno aveva previsto un crollo così rapido dell'Unione Sovietica, nemmeno coloro che lo auspicavano più ardentemente. La maggior parte dei comunisti sono diventati degli «ex». Ne avevo conosciuti sotto il vecchio regime, ne ho incontrati altri dopo, nel nuovo. Ho confrontato quello che avevano fatto con quello che stavano facendo: le parole, i gesti, le azioni. Ci sono quelli che dimenticano cosa sono stati e desiderano che gli altri lo dimentichino: sono i più numerosi. Rari sono quelli che non rinnegano i loro comportamenti, né sé stessi. (Ho visto diversi tipi di comunisti e di ex comunisti all'Est e all'Ovest, soprattutto in Russia, Bielorussia e Ucraina.) La scelta del comunismo non ha avuto, si sa bene, lo stesso significato in ogni paese e in ogni epoca: dove e quando qualcuno è diventato comunista e perché si è staccato dal partito? Ci sono sempre stati «rinnegati», «dissidenti», «eretici», chiamati con nomi differenti. Alcuni lasciavano il movimento comunista di propria iniziativa, altri ne erano esclusi. Ciò che distingue gli uni dagli altri è prima di tutto la loro appartenenza al potere oppure all'opposizione. Finché esisteva l'Unione Sovietica, tutti erano messi, a confronto con «l'edificazione della società comunista» in quel paese, sia che la sostenessero sia che la contestassero. Ci furono in passato avvenimenti che provocarono rotture ma nessuna potrebbe essere paragonata a quest'ultima, forse definitiva: quella del dopo. L'immaginario del comunismo è stato creato da idee, da personalità e da fatti importanti: Marx e il Manifesto, Lenin e l'Ottobre, l'Aurora, la Lega di Spartaco, le Brigate internazionali in Spagna, la vittoria dell'Armata Rossa e la bandiera con la falce e il martello sventolante sul Reichstag, la Resistenza al fascismo in Europa, la Lunga marcia di Mao e il Grande balzo in avanti della Cina, il conflitto fra Tito e Stalin, Fidel Castro, la Granma e l'assalto alla Sierra Maestra, Ho Chi Minh e l'epopea vietnamita, i Quaderni dal carcere di Gramsci, il Diario del Che nelle foreste della Bolivia. In ogni paese esistono altri eventi esemplari, più particolari. La letteratura e l'arte hanno contribuito al fascino dell'idea: La madre di Maksim Gor'kij e Madre Coraggio di Brecht, L'armata a cavallo di Babel', La corazzata Potëmkin, Majakovskij e il suo futurismo, le avanguardie russe degli anni Venti e anche altrove numerose opere di genere diverso, in tutte le lingue. L'idea comunista e il mito del comunismo si identificano, senza un esame preventivo, spontaneamente o per forza. Il «realismo socialista» ha trasformato il rivoluzionario in carne e ossa in «eroe positivo», svuotato di contenuto. Rilevo la testimonianza di un filosofo in esilio, ex comunista ed ex dissidente al tempo stesso, che affermava di non avere mai incontrato durante la sua vita in URSS «una sola persona che credesse agli ideali del comunismo. Se ce ne sono stati, di fanatici simili, sono stati eliminati all'epoca di Stalin» (A. Zinov'ev). Eppure esistevano proprio, tanto all'Est quanto all'Ovest. Alcuni tra loro hanno dato prova di audacia e di spirito di sacrificio eccezionali. Ne restavano troppo pochi sulla scena quando la «cortina di ferro che si stendeva da Stettino a Trieste» è finalmente crollata sulla scena insieme con tutte le quinte. Anche l'ex comunismo ha il suo immaginario, in negativo: Kronstadt, i processi politici e le «purghe» degli anni Trenta, l'assassinio di Trockij a Coyoacán, il gulag, la foresta di Katyn, Budapest nel '56, Praga nel '68, Goli Otok (Isola Calva) nell'Adriatico, il muro di Berlino, Pol Pot e i Khmer rossi, la rivoluzione culturale, il massacro della piazza della Pace Celeste a Pechino. La letteratura ha testimoniato quegli avvenimenti, li ha persino annunciati: I demoni di Dostoevskij e Noi di Zamjatin, le opere degli ex comunisti Koestler e Orwell, Suvarin e Gilas; I leoni meccanici del mio amico Danilo Kis, Arcipelago Gulag di Solzenicyn. La realtà del comunismo ha tradito il sogno comunista. Quello che abbiamo visto era davvero il comunismo o solo il suo spettro? La domanda è inevitabile. La risposta, qualunque essa sia, non potrà costituire una giustificazione. La fine del comunismo cambia il giudizio su di esso nell'insieme, sul suo corso, fino a toccarne addirittura la sorgente. Alcuni lo paragonano, nell'ex URSS, a un fiume scomparso nelle crepe del suolo: il suolo della storia è pieno di crepe. I comportamenti dei vari comunisti differiscono l'uno dal- l'altro nel passato come nel presente. Il trockista Isaac Deutscher ha descritto quelli che «dopo aver smesso di difendere il comunismo, difendono l'umanità dal comunismo: si credono infallibili proprio come prima consideravano infallibile il loro partito». Non è più necessario oggi difendere l'umanità dal comunismo: gli stessi partiti comunisti hanno ammesso il fallimento dei regimi che avevano servito, non si identificano più nel loro passato; la maggior parte di essi ha perfino cambiato nome. (Il mondo è pieno di vecchi comunisti che non vogliono più essere chiamati tali, tanto all'Est quanto all'Ovest.) | << | < | > | >> |Pagina 119Siamo abituati a perdere. Ogni giorno qualcuno intorno a noi si allontana o sparisce, un'amicizia o un amore impallidisce o si estingue, la morte si porta via uno dei nostri. Perdere fa parte del destino. Però è raro perdere un paese. A me è capitato. Non parlo di uno stato o di un regime, ma proprio del paese dove sono nato e che, ancora ieri soltanto, era il mio. Non c'è più. Ho amato la Iugoslavia intera, indivisa, unita. Senza peraltro essere un nazionalista iugoslavo. Come avrei potuto esserlo, avendo origini croate, russe, ucraine e altro ancora? Ero affezionato ai luoghi, ai loro abitanti, a tante cose che mi erano vicine. Ho fatto miei in uno stesso tempo l'Adriatico e il lago di Ohrid in Macedonia, le Alpi slovene e le rupi montenegrine. Ho considerato serbi e croati come fratelli, in particolare quelli tra loro che, come me, si opponevano allo sciovinismo serbo e croato. Non perdonavo a costoro di disprezzare i bosniaci, di volerli asservire o convertire. Mi sentivo a casa mia in Vojvodina, in mezzo a tante minoranze nazionali, e ho avuto degli amici nel Kosovo, tra gli albanesi. Mi davo da fare quanto potevo per essere di sostegno a un piccolo gruppo di italiani rimasti in Istria dopo un tragico esodo, così come ai nostri zingari, dispersi in ogni parte. Gli zingari furono numerosi nel mio paese: qualche volta mi facevo passare per uno di loro. Affermo, signori giurati, di non aver auspicato la disgregazione della Iugoslavia. I nazionalisti hanno un bel rimproverarmi uno iugoslavismo che qualificano «unitarista». Confesso di non amare la maggior parte delle parole che finiscono in «ismo»: preferisco quelle in «tà», come fraternità, o libertà, e altre come forse iugoslavità, nel senso che alla parola davano un tempo i migliori dei nostri antenati e, ancora recentemente, i più valorosi dei resistenti. Signori croati, sappiate che io non sono meno buon croato di voi, per il fatto di essere cosmopolita e amico degli altri iugoslavi. Signori serbi, io amo il vostro popolo, pur denunciando quei caporioni nazionalisti che tanti tra voi hanno applaudito. Aborrisco tanto gli ustascia quanto i cetnici, senza chiedervene scusa. Onoratissimi prelati di ogni confessione, devo pregare anche voi di assolvermi dal peccato di aver creduto che le chiese ortodosse e cattoliche, che invocano un unico Cristo, avrebbero potuto fare di più per avvicinare i loro fedeli e condannare l'odio per il prossimo che li anima. Non ho nient'altro da ammettere davanti ai giudici dei nostri tribunali nazionali né da confessare ai nostri direttori di coscienza. Non intendo più lottare per la restaurazione di una nuova Iugoslavia. Come potrei farlo, anche se lo volessi? Con chi e con quali mezzi? Dopo Vukovar, Sarajevo, Mostar, Srebrenica e tanti altri luoghi di sterminio, so bene che sarà necessaria più di una generazione per ricostituire i legami tra di noi, e che forse mai più la nostra unità sarà ricostituita. Molto probabilmente, l'avvenire sarà più favorevole per voi, vincitori, che per noi che abbiamo perso. Devo riconoscere, per completare la mia deposizione dinanzi ai nuovi tribunali, che nessuno mi ha costretto a lasciare il mio paese, o ciò che resta di esso. Ho scelto con piena consapevolezza uno status, poco confortevole, «tra asilo ed esilio». Avrei potuto restare, adattarmi, mantenendo il silenzio. (Ci sono silenzi che finiscono per diventare eloquenti.) Dopo aver difeso, sotto il regime che è crollato, certi prigionieri che adesso reggono le redini del potere, non avevo niente da temere. Uno di loro avrebbe persino voluto offrirmi una carica nella gerarchia. Mi sembrava più dignitoso l'esempio dei vecchi marinai pronti ad affondare con la loro nave in pericolo. Ho affrontato questo pericolo levando le ancore. In effetti, nel caso specifico, non si tratta semplicemente di una patria perduta (l'idea di «patria» talvolta è ambigua, il suo passato non è sempre senza macchia). Come numerosi miei contemporanei, ho creduto che la nostra civiltà fosse capace di fondare e preservare comunità dove potessero coesistere varie nazioni, differenti culture, diverse religioni. Con il mio paese ho perso anche quella fede. (Su questo starò zitto, per paura di sembrare sentimentale o di lamentarmi.) Non posso far altro che disapprovare il comportamento di certi intellettuali tradizionali - serbi, croati, sloveni o altri - che sostengono il nuovo regime esattamente come servivano il vecchio.
(Ecco perché già da tanto tempo ho scelto la via della dissidenza.
E non intendo cedere su questo punto.)
Cosa resta a chi decide di uscire da un simile circolo vizioso e di andarsene? Dietro di lui una vita, come si dice. Sono due strumenti e due metafore dell'esistenza di un rifugiato: si parte su una zattera e si porta un fagotto. Sulla zattera c'è poco spazio, nel fagotto c'è poco posto. Quest'ultimo contiene le cose più elementari: indumenti essenziali, alcuni documenti necessari, foto di famiglia, a volte un oggetto più personale, legato a un ricordo. Sono rari quelli che fanno scivolare da qualche parte un libro, a meno che non si tratti di un breviario per le preghiere o di un manuale per apprendere la lingua del paese di destinazione. Certe esperienze contano più di altre. Avevo ormai perso i miei genitori e la maggior parte dei miei cari. Le nuove «democrature», a differenza dei regimi comunisti, permettono ogni tanto di tornare. È un vantaggio considerevole, a condizione di beneficiarne senza che se ne esiga una contropartita. (Ma, per quanto mi riguarda, qualsiasi gratitudine è esclusa.) | << | < | > | >> |Pagina 147«Famiglie, io vi odio», è stato ripetuto spesso nella letteratura europea. Qualche volta è il caso di farlo. Tra l'altro, i nazionalismi ci hanno abituati a «lavare i panni sporchi solo in famiglia». Si raccomanda anche «di trattare la nazione come fosse una vera famiglia». Fa parte di un'educazione patriottica.
Sappiamo inoltre quanto si rischi a rivelare cose poco gradevoli per i
nostri compatrioti. Sono stato tentato di firmare questo scritto con uno
pseudonimo quando ne uscì una versione più breve e attenuata in alcuni giornali
europei. Certe affermazioni portano male. Alcune confessioni ispirano vergogna.
L'appartenenza si esprime difficilmente per negazione. Il patriottismo non
accetta la critica.
«Una tragedia shakespeariana nella guerra iugoslava?» Da questo punto di vista tante cose restano da completare. Non pretendo di spiegarle tutte. Ben poche meritano giustificazioni. Bisogna però ricordare che alcuni particolari possono assumere tutt'altra proporzione se organizzati in un insieme. Quando vengono uniti tra loro o messi in scena significano qualcosa di più e di diverso. I suicidi e le ragioni che ci portano ad attentare alla nostra stessa vita sono differenti da un caso all'altro. L'uomo è spinto a quell'atto estremo talvolta dalla malattia o dalla sventura, dall'onore o persino dalla virtù. Anche i più forti possono ritrovarsi sul bordo del baratro, pronti a precipitarvisi. (Io stesso ho provato più volte una tentazione del genere.) I più risoluti affrontano quel passo e si lanciano dall'altra parte, come i più disperati. Chi, tra di noi, non ha mai visto davanti a sé l'abisso? Ho sempre ammirato i capitani che affondavano con la loro nave. Ne sono rimasti pochi. E tante di quelle navi sono state inghiottite dai flutti. La più grande delle tragedie non sta nella propensione a mettere volontariamente fine alla propria esistenza effimera: è molto più tragico quando coloro che soffrono di una tale disposizione o di una simile eredità trascinano altri con sé, li spingono verso l'abisso o, soprattutto, li incitano a gettarsi per primi, o quando proprio coloro che portano questi segni, ereditari o acquisiti, diventano dirigenti politici e capipopolo. È ciò che è capitato a noi: l'abbiamo visto sui palcoscenici, politici e nazionali, nel teatro di crudeltà dell'ex Iugoslavia. Per maggiore chiarezza, l'autore esporrà questo materiale in quattro atti (nel senso teatrale del termine), considerando come una specie di prologo quanto scritto finora. Nella lista degli attori compaiono diversi personaggi, noti o anonimi: presidenti e vicepresidenti, dignitari di vari gradi, ufficiali e officianti, i loro capi e i loro servitori. Lo spazio in cui si svolge l'azione è «un mondo ex», più precisamente i Balcani.
Circostanze particolari: un armistizio che tiene luogo di pace.
Atto primo Certi elementi dell'intrigo sono già conosciuti: il padre di Slobodan Milosevic era un teologo ortodosso; si è dato la morte con un colpo di pistola ben prima che suo figlio diventasse l'uomo forte della Serbia; la madre del suddetto Milosevic si è impiccata; così pure uno dei suoi zii. In quell'epoca Slobodan (detto «Sloba») era attivista della Gioventù comunista. La sua adolescenza dev'essere stata segnata da quelle prove. Tuttavia non ne resta traccia visibile sul viso dell'uomo adulto. Un comportamento apparentemente sicuro di sé ed energico - anche astuto e abile - gli ha permesso di imporsi ai generali dell'Esercito popolare iugoslavo (così si chiamava prima), incitandoli a puntare i loro cannoni sui popoli della Iugoslavia, soprattutto in Croazia e in Bosnia, a Vukovar e a Sarajevo, a Srebrenica e finalmente sul Kosovo. In una lettera aperta pubblicata a Belgrado nel 1990, alla vigilia della guerra, gli avevo proposto di dimettersi, per non essere poi costretto a «ricorrere a sua volta al suicidio». I presidenti non seguono i consigli degli scrittori. Più tardi ho aggiunto in un libro, purtroppo non pubblicato nella mia lingua, che nemmeno il suicidio sarebbe stato sufficiente.
Ma questa è un'altra storia, ha poco a che fare con il teatro.
Atto secondo Il padre del presidente croato Franjo Tudjman si è suicidato dopo aver ammazzato la moglie. Accadeva in seguito alla seconda guerra mondiale. Franjo Tudjman era allora maggiore o colonnello dell'esercito iugoslavo e risiedeva a Belgrado. A quell'epoca, parlando con i suoi compagni della guerra partigiana, attribuiva quel «doppio omicidio» ai croati, cioè ai crociati ustascia, benché l'istruttoria svolta a suo tempo avesse dato spiegazioni di segno diverso. Negli anni Ottanta, quando era già al potere in Croazia, tentò di presentare quel tragico episodio familiare come un oscuro assassinio perpetrato dai suoi ex compagni comunisti. Citò anche un testimone, un vecchio partigiano di origine croata, ma quest'uomo onesto negò categoricamente quell'«invenzione» malgrado le vessazioni e le angherie alle quali fu sottoposto. In realtà, è poco credibile che la polizia titoista abbia eliminato, senza alcuna ragione, un membro delle più alte istituzioni antifasciste della Liberazione, per di più padre di un alto ufficiale che si preparava a diventare generale dell'esercito di Tito. Nel 1995, l'attuale presidente croato si è permesso di dichiarare, forse imprudentemente, che già nel 1942 era pronto lui stesso a suicidarsi, deluso sin dall'inizio da quello stesso comunismo che avrebbe accettato di servire con molto zelo per più di due decenni ancora. Ha addirittura mimato alla televisione un gesto suicida, senza portarlo a termine, e senza rendersi conto della sconvenienza di un simile spettacolo da operetta.
Gli ho proposto di dare le dimissioni con un'altra
lettera aperta,
scritta in occasione della distruzione del Vecchio Ponte di Mostar, la mia città
natale. Ma i presidenti non seguono i consigli degli uomini di lettere, nemmeno
in Croazia. Comunque pubblicai questa lettera, non solo all'estero ma anche
in Croazia, prima della morte del personaggio.
Atto terzo Il generale Ratko Mladic è, come si sa, ricercato dal tribunale penale internazionale dell'Aja per «genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Malgrado la destituzione, sembra conservare in alcuni luoghi nascosti tutta la sua autorità, in violazione flagrante degli accordi di Dayton. Sua figlia, messa a confronto con il male incarnato dal padre, ha scelto nobilmente di togliersi la vita, quando ancora i cadaveri sotterrati in fretta vicino a Srebrenica non erano del tutto irrigiditi.
L'odio che Ratko Mladic manifesta verso i croati e i bosniaci è collegato
forse meno con la propaganda della «Grande Serbia», sostenuta da numerosi
«intellettuali liberali» di Belgrado, o con una letteratura nazionalista non
accessibile alla sua educazione militare, che non con un altro fatto doloroso:
suo padre fu ucciso dagli ustascia durante la seconda guerra mondiale. Comunque,
non sappiamo se l'ordine di fucilare tutti quei bosniaci musulmani vicino a
Srebrenica (Seimila? Settemila? Diecimila? Non si sa con certezza) venisse dalla
sua propria iniziativa o anche dagli altri generali dello stato maggiore
sottoposti a Milosevic. In ogni modo la dottoressa Biljana Plavsic, ex
presidente della repubblica serba, dichiarò pubblicamente che i musulmani della
Bosnia erano «serbi degenerati» e che essa stessa, in quanto biologo di
professione, poteva provarlo. Vojislav Seselj, comunista di un tempo ed ex
inneggiatore di Tito che diventò
vojvoda
(duce) cetnico e vicepremier federale del regime di Milosevic, considera che
tutti questi musulmani non sono nient'altro che «un cascame genetico» della
serbità.
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