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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione La questione Molyneux: il cieco che vede Parte prima Ricostruzione storico-filosofica Capitolo primo Il cubo e la sfera: la questione Molyneux nel Settecento 19 1. Introduzione 21 2. Locke alle prese con Molyneux: qual è la posta in palio? 31 3. Berkeley e Condillac: la soluzione del primato sensoriale 32 3.1 Berkeley: dal primato del tatto al primato della vista 36 3.2 Condillac: dal primato della vista al primato del tatto 42 4. Leibniz, Diderot e la soluzione geometrica 43 4.1 Leibniz: la geometria tra idee e immagini 45 4.2 Diderot: la geometria tattile di Saunderson 49 5. Un terzo paradigma: Herder e il sensorio comune 56 6. Una posizione liminare: Reid e il senso comune Capitolo secondo L'Ottocento: la "sconfitta vincente" di Berkeley e il cieco che vedi colori 63 1. L'Ottocento: la "sconfitta vincente" di Berkeley 65 2. L'autogol di Adam Jmtth 68 3. Abbott e la disfatta del tatto 71 4. Bailey e Abbott: la questione Molyneux è risolta 75 5. Il cubo e la sfera: un caso chiuso? 78 6. Il secondo volto di Locke: l'audizione colorata Capitolo terzo Il Novecento: sensi e natura umana nell'antropologia filosofica 91 1. Il Novecento: dalla questione metafisica al problema genetico 95 2. L'intuizione di Scheler: il cieco che vede e la natura umana 100 3. L'eredità di Herder: Gehlen e l'animale disinibito 110 4. Merleau-Ponty e l'animale sinestetico 114 5. Gerarchia animale e sinestesia umana Parte seconda Discussione dei dati empirici Capitolo quarto Molyneux e la scimmia: la plasticità filogenetica dell'animale umano 123 1. Introduzione 124 2. Deprivazione sensoriale ed esposizione precoce 130 3. La testuggine di Blade Runner 137 4. I primati non umani 144 5. Scimmie olfattive e scimmie visive: una storia di gerarchie 148 6. Il primate nudo: dal tatto alla sinestesia 161 7. L'errore di Uexküll: la sinestesia come fondamento del tempo storico 167 8. Il rapporto tra centri sottocorticali e corticali: l'inibizione Capitolo quinto Molyneux e la culla: la plasticità ontogenetica dell'animale umano 183 1. La percezione sinestetica nei neonati 185 1.1 Lo sviluppo come differenziazione 187 1.2 Lo sviluppo come unificazione sensoriale 191 1.3 Lo sviluppo come organizzazione della complementarietà sensoriale 200 2. L'ontogenesi della sinestesia: un processo di amalgama 210 3. La primavera extrauterina: l'essere umano come animale prematuro Capitolo sesto La vista che torna: i limiti della plasticità umana 219 1. Introduzione 221 2. Il Novecento: Von Senden, Sacks e il cieco in esilio 224 3. Sono davvero ciechi? Qualche problema metodologico 227 4. Due casi a confronto 227 4.1 Un primo caso: Virgil 229 4.2 Un secondo caso: H.D. 231 5. Tatto e vista: tutt'altro che monoliti 233 5.1 Il tatto: senso duplice 233 5.1.1 La percezione spaziale manuale (aptica) 235 5.1.2 La percezione spaziale corporea (somestesica) 236 5.2 La vista: vedere "dove" non significa vedere "cosa" 239 6. I limiti della plasticità umana I: i ciechi operati 244 7. I limiti della plasticità umana II: le sostituzioni sensoriali Capitolo settimo La sinestesia come esigenza di linguaggio 265 1. Di che colore è lo squillo della tromba? 269 2. Il cieco e i colori: verbalismo ed esonero 275 3. Sinestesia e metafora: un animale a corto di moduli 281 3.1 La sinestesia fonda la metafora 289 3.2 Corrispondenze intrinseche: perché la /i/ è più chiara della /u/ 298 3.3 Corrispondenze estrinseche: Rimbaud e la scimmia 303 4. La sindrome sinestetica: udire colori, colorare sapori 310 4.1 La sindrome sinestetica: un modulo in più? 313 4.2 Wittgenstein e le vocali colorate: la sinestesia di secondo ordine 317 4.3 Il sinesteta come "fossile cognitivo" 323 4.4 Il cieco di Molyneux e il cieco di Locke 327 Bibliografia 365 Indice di nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 9Introduzione
La questione Molyneux: il cieco che vede
Girando per la città, capita di notare persone che, armate di bastone bianco o accompagnate da un cane, camminano seguendo percorsi invisibili. Lungo una traiettoria lenta e precisa, il cieco si muove con uno stile facilmente riconoscibile: punta alla meta certo ma circospetto, si muove dubbioso e spavaldo. A chi, almeno per un istante, non è balenato un pensiero ingenuo, quasi inevitabile: e se quella persona tornasse a vedere, cosa succederebbe? Se i suoi occhi cominciassero a funzionare, che impressioni avrebbe, quanto cambierebbe la sua vita? Il libro prende spunto da questo interrogativo. Più di trecento anni fa, William Molyneux, forse turbato per la cecità che affliggeva la moglie, pone a un suo celebre corrispondente, il filosofo inglese John Locke, l'interrogativo seguente: "Se un giorno un cieco ritrovasse la vista, riuscirebbe a riconoscere con gli occhi due oggetti come un cubo e una sfera che fino a quel momento aveva percepito col tatto?". Il carattere vagamente astratto della questione riscuoterà un'attenzione che, a un primo sguardo, sembra avere dell'incredibile poiché finirà col tracciare le coordinate di un dibattito filosofico e scientifico che, si può dire senza interruzioni, arriva fino ai nostri giorni. La cosiddetta "questione Molyneux" ha successo perché mette il dito su un problema teorico decisivo che, in prima approssimazione, può esser formulato così: "Quale fondamento ha il privilegio attribuito, dalla tradizione occidentale, alla percezione visiva? È corretto cercare di comprendere l'esperienza umana analizzando le modalità sensoriali (vista, udito, tatto, gusto e olfatto) una alla volta, trascurando le forme della loro intersezione?". Per questa ragione, la questione Molyneux costituisce la lente di ingrandimento (a volte chiarificatrice, altre distorcente) attraverso la quale esaminare la capacità percettiva che dà titolo al libro, la sinestesia, cioè la possibilità di percepire simultaneamente uno stesso oggetto per mezzo di sensi diversi. Sia chiaro: la questione, dopo più di tre secoli, è ancora aperta. Quello che il filosofo e scienziato irlandese aveva formulato come un esperimento di pensiero implausibile ("Se un giorno per avventura un cieco riacquistasse la vista...") ha attraversato epoche e correnti diverse della storia della riflessione filosofica come la migliore pietra di paragone per le varie teorie sul rapporto tra sensorialità, cognizione e linguaggio nell'essere umano. Non ha trovato risposte conclusive neppure da quando, prima Cheselden e poi altri oftalmochirurghi, hanno portato il quesito dall'empireo delle discussioni filosofiche al terreno mondano e replicabile delle esperienze scientifiche. Al contrario, la sua storia si è ulteriormente complicata. Da un lato, dalla fine del Settecento in poi, la questione del rapporto tra forme di sensorialità e possibilità cognitive si è allargata ad altre formulazioni filosofiche ed empiriche tracciando un complesso ordito ("ma allora, come apprendono i neonati a riconoscere ciò che vedono e toccano, quali sono gli aspetti cognitivi della sensorialità animale non umana?"). Dall'altro lato, essa sembra avere in certi momenti un andamento carsico: scompare all'improvviso, poi ricompare inattesa. Lacune casuali, labilità di una storia che non è veramente tale? Secondo questo libro, non è così: la questione Molyneux ha una storia in senso forte che essa spartisce dall'Ottocento in poi con un Döppelganger, per l'appunto la sinestesia. Come Castore e Polluce, quando una delle due si mostra alla luce, l'altra è avvolta dalle tenebre (cap. 2, § 6; cap. 7). Mentre il cieco che ritrova la vista cade in disgrazia, trova fortuna un altro cieco, ancora una volta citato da Locke: un non vedente curioso che cerca di immaginare come possa essere lo scarlatto e, quando pensa di averlo compreso, esclama che quel colore assomiglia allo squillo di una tromba. Il problema delle corrispondenze tra i sensi (in che modo i colori sono paragonabili alle note musicali? A cosa è associabile la multiformità del tatto?) dà il cambio alla questione Molyneux in una staffetta ideale ma sistematica: quando uno dei due corridori ha il fiato corto, l'altro ne continua la corsa. Il problema, all'apparenza più specifico del recupero di una modalità sensoriale si alterna, mescola e sovrappone a quello più generale costituito dall'intreccio tra i diversi sensi: alla fine dell'Ottocento esplode la discussione del caso rappresentato dai sinesteti, soggetti limite che mettono in relazione tra loro in modo anomalo e automatico due o più sistemi sensoriali. Solo più tardi la sinestesia si svincola, almeno in parte, dalla nozione peggiorativa di sindrome e diventa termine neutro indicante l'interazione tra i sensi che contraddistingue, questa una delle tesi centrali del libro, l'esperienza percettiva della nostra forma di vita. Mentre in alcuni casi, rari e importanti (tra tutti quello di Merleau-Ponty: cap. 3, § 4), i due temi trovano esplicita congiunzione, nel resto del Novecento la staffetta prosegue. Non solo, dunque, questa storia ha un andamento non immediatamente lineare all'interno della riflessione filosofica, ma su di essa si gioca anche il rapporto tra filosofia e scienze empiriche: a chi tocca rispondere alla domanda di Molyneux? Alle scienze empiriche e a un nuovo experimentum crucis ancora da ideare e realizzare, in un qualche domani, o all'antropologia filosofica, con la filosofia della mente e del linguaggio, qui e ora? Un'altra tesi del testo è che le scienze empiriche hanno già dato gli elementi per una risposta, non netta, ma articolata e parziale, e che ora la mano torna alla filosofia. Seguiremo dunque con attenzione questa storia, nelle sue svolte e nei suoi intrecci, considerando anche le altre questioni che essa coinvolge nel suo percorso, analizzando nel dettaglio i risultati delle ricerche empiriche. Alla fine (cap. 6, § 7), tenterò di dare una risposta a Molyneux. Se non si tratterrà semplicemente di un'altra tra le tante, ciò avverrà perché ci saremo interrogati innanzitutto sulle ragioni profonde del perché dopo 330 anni sia ancora aperta. La prima lezione da trarre da questa lunga storia è che non si può rispondere alla domanda di Molyneux soltanto con un sì o con un no. Attenzione: non si può rispondere così, solo perché la questione è stata posta a proposito degli esseri umani. Se – certo incongruamente – Molyneux si fosse interrogato su uno squalo cieco che ritrova la vista, la risposta sarebbe effettivamente un secco "No", perché i sensi degli squali maturano precocemente in un periodo critico e restano sempre incapsulati in rigide sequenze. Gli squali non sono "neotenici" (non hanno, cioè, la capacità biologica di conservare i caratteri non specializzati, immaturi della specie) e non possono quindi avere sinestesia. Inoltre, per gli squali sfere e cubi semplicemente non esistono: non hanno linguaggio verbale. Per tutto ciò essi vivono in un ambiente estremamente definito. Se – ancora incongruamente – si tosse interrogato su un gatto cieco, dovremmo dire di nuovo "No". Neppure i gatti sono neotenici: anche i loro sensi maturano in un periodo critico limitato, dopo il quale sono acquisiti o perduti. Benché i loro sensi siano meno incapsulati, e possano esserci forme di percezione intersensoriale, anch'essi vivono in un ambiente, che l'animale umano riesce ad allargare un poco grazie a un parziale addomesticamento (cani e cavalli sono in una simile situazione, ma più sensibili all'addestramento da parte degli umani). Se – meno incongruamente – Molyneux si fosse interrogato su uno scimpanzé cieco che ritrova la vista, la risposta sarebbe diversa, un "No" condizionato: "Certo, alcuni scimpanzé più giovani, di eccezionale intelligenza, se guidati nel recupero, potrebbero forse riuscirci, con enorme sforzo". Gli scimpanzé sono neotenici e hanno una percezione intermodale più sofisticata degli altri mammiferi; i sapiens possono insegnare ad essi brandelli di linguaggio verbale, con i quali riescono, per un momento, ad afferrare con la mente sfere e cubi (cap. 5). Ora, la risposta per gli animali umani è: "Sì, qualunque uomo cieco ci può riuscire, almeno in parte, ma non immediatamente, bensì dopo un po' di tempo e con un certo sforzo, la cui quantificazione precisa varia di caso in caso". Si badi che queste specificazioni, goffe e inevitabili, sono il frutto più interessante della ricerca perché illuminano e chiariscono il Sì iniziale (cap. 6). Il tempo e lo sforzo sono dovuti al fatto che il cieco deve disaggregare l'assetto percettivo e cognitivo con cui ha imparato a stare nel mondo, riorganizzarlo per far posto a un nuovo senso che sopraggiunge. Può farlo, a differenza degli altri animali, perché questo assetto si produce per ogni individuo nel corso dell'ontogenesi come risultato dell'interazione fra un patrimonio genetico che consente la fuoriuscita dall'ambiente e l'accesso al mondo, una struttura bio-culturale in cui incontrare non solo stimoli materiali naturali o artificiali, ma innanzitutto altri esseri umani e le loro pratiche sociali. Grazie ad essi, il non vedente può lavorare a un successivo sforzo di ricalibratura della propria esistenza che dura tutta la vita e che, per questa ragione, è sempre a rischio e mai definitivo. L'infanzia cronica che caratterizza l'ontogenesi umana (iperneotenia) permette, soprattutto nei primi due anni di vita, un continuo rimpasto sensoriale. Ciò non significa che alla nascita la mente del piccolo sapiens sia una sorta di tabula rasa: esistono linee di amalgama sensoriale (ad esempio tra vista e tatto, tra tatto e gusto, tra gusto e olfatto) che subiscono però un processo di ricalibratura, fusione e trasformazione talmente costante che, nella maggior parte dei casi, è impossibile scorgere in queste "corsie preferenziali" i tratti tipici dell'istinto. Il nostro sviluppo, lento e lungo, fa sì che le modalità di senso umane possano più volte rimettersi in gioco. L'amalgama sensoriale è alla base di una percezione che invece di essere modale, cioè confinata in rapporti rigidi e predefiniti tra i sensi, si rivela sinestetica, caratterizzata dalla corrosione costante e reciproca tra i diversi sistemi percettivi. Già a livello sensoriale la cognizione umana si distingue da quella delle altre specie poiché non possiede uno specifico dominio di riferimento ancorato a una precisa successione, funzionale e genetica, tra le modalità percettive. La mancanza di un dominio sensoriale specializzato costituisce il fondamento paradossale di una mente sinestetica, sin dall'inizio metaforica perché in grado di trovare parallelismi tra diversi sistemi percettivi, di rilevare non solo la differenza tra rosso e blu o tra caldo e freddo ma di cogliere il calore del rosso o quanto algido sia il blu (cap. 5, § 4). Su queste basi il linguaggio verbale sembra costruire la propria genesi, facoltà al centro di un processo duplice (cap. 7). Per un verso, le parole sono protagoniste di un'evasione: dalla monosensorialità tipica degli ambienti animali alla sinestesia propria della nostra forma di vita. Per un altro, costituiscono il perno principale di ciò che, in prima battuta, potremmo chiamare una "divisione del lavoro percettivo". La scarsità di gerarchie sensoriali predefinite pone il problema della loro costruzione storico-sociale. La predilezione occidentale per la vista ne costituisce uno straordinario esempio: si tratta di un privilegio fondato, poiché si è rivelato tecnicamente efficace (un caso per tutti, la scrittura), ma non per questo necessario in ogni mondo possibile. Infatti, è proprio grazie non solo alle parole ma anche al tatto che i ciechi imparano a conoscere entità geometriche come sfere e cubi. Ma allora, e infine, non c'è nessun essere vivente cieco, che ritrovando la vista, possa riconoscere immediatamente cubi e sfere? Solo un puro spirito, per cui ogni sensorialità sia equivalente e quindi non abbia realmente sensorialità. Un angelo cieco che ritrovi la vista riconoscerebbe immediatamente sfere e cubi, ma solo perché, per far questo, non gli servono né tatto né vista (e il suo corpo, se ne ha uno, non lo condiziona come il nostro corpo condiziona noi): conoscendo sfere e cubi direttamente dalla mente di Dio, potrebbe ritrovare in un momento la vista. Gli animali umani non sono angeli, non nascono "imparati", devono sforzare il loro corpo per costruire le loro provvisorie e incerte conoscenze. La seconda lezione da trarre da questa lunga storia è che la filosofia è riuscita a formulare un quesito potente, su cui per secoli hanno lavorato le scienze empiriche, ottenendo risultati parziali e incerti che ora ritornano alla interpretazione della loro fonte originaria. Solo una teoria epistemologica che metta in rapporto forme di sensorialità, di comunicazione e di mente, un'antropologia filosofica (dell'animale umano come corpo sinestetico, dell'essere umano in quanto ha linguaggio) che faccia i conti con le scienze che prendono l' Homo sapiens a oggetto può mostrare l'adeguatezza dei loro risultati. La variabilità e la mancanza non è nell'uno o nell'altro di quegli esperimenti ma nella natura stessa della nostra specie. La sfera toccata dal cieco non è d'avorio, come vorrebbe Molyneux, ma di cristallo: riflettendo la nostra immagine non fornisce risposte preconfezionate, ma costringe a interrogarsi su ciò che ci rende umani. | << | < | > | >> |Pagina 1678. Il rapporto tra centri sottocorticali e corticali: l'inibizioneQuesto breve cenno alla storia naturale dei sensi e alle dinamiche neuronali proprie della percezione multimodale permette di comprendere, seppur a grandi linee, il processo che può aver portato un cambiamento tanto decisivo come il passaggio dalla monosensorialità alla sinestesia. Prima di chiudere con questa parte, è necessario prendere in considerazione un problema cruciale che rincontreremo anche nel capitolo successivo. Nel capitolo terzo ho sostenuto che l'ambiente animale può assumere due forme percettive tra loro intrecciate: la monosensorialità e l'intersensorialità. Nei paragrafi precedenti ho cercato di ricostruire il passaggio della monosensorialità alla sinestesia e abbiamo visto che esse rispondono a due logiche profondamente diverse. La questione da affrontare ora è capire se per l'intersensorialità valga lo stesso discorso. Di fronte a noi sfilano due risposte possibili. Da un lato è possibile concepire la sinestesia semplicemente come una forma di percezione intersensoriale estesa e particolarmente ramificata poiché non coinvolge solo qualche modalità sensoriale ma tutta la vita percettiva dell'organismo. Dall'altro è possibile sostenere che la sinestesia costituisce una vera e propria alternativa alla percezione intersensoriale. L'opzione più coerente con quanto detto finora è naturalmente la seconda: mentre nel primo caso la sinestesia si aggiunge all'intermodalità, nel secondo caso la soppianta poiché ne sradica i presupposti. Ancora una volta però, una posizione del genere crea il problema di capire come sia avvenuto il passaggio dall'intersensoriale al sinestetico, cioè di comprendere come sia stato possibile un salto che si suppone evolutivamente decisivo. Per di più, nel paragrafo precedente ho implicitamente affermato che è possibile rintracciare un elemento di continuità tra i due sistemi a livello neuronale. È vero: i cosiddetti neuroni multimodali seguono una logica alternativa a quella propria delle cellule nervose unimodali poiché la loro reattività non è direttamente proporzionale all'intensità dello stimolo che li raggiunge quanto piuttosto alla varietà della stimolazione. Il problema che dobbiamo affrontare è che i neuroni multimodali non costituiscono una caratteristica propria solo degli esseri umani: come abbiamo visto, ad esempio, gli studi di Stein e Meredith riguardano i gatti. In altre parole, ci troviamo di fronte a un elemento di continuità tra ambiente animale e mondo umano con il quale è necessario fare i conti. La multimodalità neuronale trova infatti due sbocchi completamente diversi: nel regno animale è confinato all'interno di un comportamento istintuale rigido e predeterminato; negli esseri umani invece realizza la plasticità delle sue potenzialità percettive. Come mai? È possibile trovare una risposta adeguata, ancora una volta, nella scarsità di specializzazione che caratterizza il genere umano. È questa genericità biologica che ci consente di sfruttare a pieno, cioè al massimo del suo potenziale, un principio che nelle altre specie animali si congela lungo percorsi obbligati e secondo direzioni a senso unico. Quel principio neuronale che possiamo trovare non solo nelle scimmie ma anche nei serpenti (Newman, Hartline, 1981) e molto probabilmente in specie ancora più semplici, nell'animale umano trova libera espressione: un'espressione tanto libera che ha bisogno del linguaggio verbale per organizzarsi (cfr. cap. 7). Per chiarire il rapporto tra intermodale e sinestetico è necessario comprendere meglio in che senso l'essere umano sia plastico e non specializzato. Occorre, in altre parole, rimetter mano ai tre principi cardine della nozione di mondo di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente (cap. 3, § 5) e capire come il primo (anello sinestetico) sia legato agli altri due (inibizione dissociativa e plasticità). In che senso l'animale umano non è specializzato ed esposto a quella che Gehlen (1978, p. 84) definisce una "cronica indigenza"? È chiaro che la scarsità di specializzazione umana non può essere assoluta: l'unica forma vivente assolutamente non specializzata può essere costituita forse dal batterio, l'animale più semplice del nostro pianeta, quello dal quale la vita sembra aver avuto inizio. Nonostante alcune affinità tra i batteri e gli esseri umani (su questo rimando a Mazzeo, 2004a), le differenze non possono che essere decisive: in un caso la non specializzazione dà luogo a un ambiente, nel secondo apre le porte alla nuova dimensione della Welt. Detto in altri termini, l'animale umano ha alle spalle, a differenza delle prime formazioni batteriche, una storia evolutiva lunga e complessa che dura da circa quattro miliardi di anni e che la sua mancata specializzazione non può certo cancellare di colpo. Gehlen (1978, p. 46), non a caso, specifica che la non specializzazione umana è relativa e non va intesa in termini assoluti. Una chiave per comprendere la nostra genericità è proprio l'aumento dimensionale che ha caratterizzato alcune linee evolutive dei primati poiché è uno dei fattori che ha consentito l'associazione, tutta umana, tra non specializzazione e plasticità. Mentre la non specializzazione dei batteri dà come risultato un ambiente ai minimi termini, esteso ma rigidissimo, nell'essere umano invece ha un esito opposto. In che senso, allora, l'animale umano è un essere plastico? Su questo punto Gehlen (ivi, p. 396) fornisce alcune coordinate essenziali poiché elenca almeno sei accezioni (complementari tra loro) che possono tratteggiarne i contorni e rendere questo concetto meno ambiguo: Per prima cosa [il termine "plasticità"] intende l'assenza di istinti discreti, originariamente fissati, in secondo luogo la capacità di evoluzione delle pulsioni, cioè la loro capacità di stabilire o di troncare collegamenti, di rinvenire orientamenti nuovi e di esserne all'altezza, di distribuirsi sul simile o sull'inerente e addirittura di insorgere ex novo: talché, anche nel tardo tragitto della vita, possono affiorare nuovi e originari bisogni. In terzo luogo, il termine intende l'essere le pulsioni "aperte al mondo", in quarto luogo il loro trovarsi esposte alla presa di posizione e la loro capacità di essere inibite, condotte, sovraordinate e subordinate. Significa, in quinto luogo, che tutte le pulsioni sono suscettibili di uno sviluppo superiore e di sublimazione, sicché, presupposte determinate inibizioni, si ha un delinearsi di bisogni condizionati e disciplinati. E, infine, plasticità significa anche vulnerabilità, suscettibilità delle pulsioni di degenerare. | << | < | > | >> |Pagina 170Dopo aver considerato il tatto, prendiamo in esame l'altra componente morfologica decisiva segnalata da Gehlen, il cervello umano (cfr. cap. 3, § 3). Un problema molto complesso e al contempo interessante è costituito dalla sua verticalità, cioè dall'insieme delle relazioni sinaptiche che esistono tra corteccia e le sue aree filogeneticamente più antiche. Liebermann (1991, pp. 16 sgg.), a tal proposito, propone di riprendere la suddivisione del cervello umano in tre zone sovrapposte proposta da P.D. Maclean a cominciare dagli anni Settanta. La prima parte, la meno recente, è formata dai gangli della base ed esprime una relazione ancestrale con i rettili; la seconda appare con i primi mammiferi ed è costituita dalla corteccia del cingolo (il sistema limbico); la terza è la neocorteccia ed è propria dei mammiferi superiori. La posizione di Liebermann e Maclean non presenta questa stratificazione come un semplice processo di accumulazione di parti successive. La crescita dimensionale del cervello non è paragonabile all'aumento di volume di un cumulo di sabbia poiché tra le diverse parti si stabiliscono relazioni tali che le diverse porzioni si collegano e influenzano vicendevolmente. Questa visione del cervello, definita di solito "connessionista", è fatta risalire da Liebermann (ivi, p. 15) proprio a uno degli autori più vicini alla posizione difesa in questo libro, Norman Geschwind, il neuroanatomista citato nel paragrafo 3. L'idea di fondo è che il cervello costituisca un sistema: non un semplice agglomerato di elementi funzionalmente indipendenti e strutturalmente autonomi ma una rete nella quale il valore di ogni parte nasce dalle interazioni con le altre. Per questa ragione le zone più antiche del cervello umano non mantengono lo stesso valore funzionale assunto nei rettili o nei mammiferi più semplici: danni ai gangli basali, infatti, hanno come effetto non solo difficoltà nel controllo delle attività motorie come negli animali ma anche deficit linguistici e cognitivi. L'agrammatismo, ad esempio, una forma di afasia che colpisce prevalentemente le capacità sintattiche e sintagmatiche, non è causato solo da danni che coinvolgono zone della corteccia (l'area di Broca) ma anche da processi degenerativi che coinvolgono il putamen, una delle strutture che costituisce i gangli della base (ivi, p. 87). Diversa è anche la rilevanza strutturale di alcuni siti sottocorticali: proprio i gangli alla base hanno una grandezza sproporzionata rispetto a quella assunta nei mammiferi più primitivi poiché sono "14 volte quello che dovrebbero essere se noi avessimo il cervello di un insettivoro di ampie dimensioni" (ivi, p. 101). Il sistema cerebrale risente così di due fattori incrociati: da un lato la comparsa di nuove parti, dall'altro la crescita delle dimensioni totali sia del cervello che del corpo.È possibile comprendere il primo di questi due aspetti prendendo in esame due strutture che Liebermann inserirebbe a metà strada tra il cervello dei rettili (i gangli della base) e quello dei primati (la neocorteccia) e alle quali ho accennato in precedenza (§ 5, 7): il collicolo superiore e inferiore. Il primo, in particolar modo, è coinvolto nei meccanismi di puntamento dello sguardo e della testa e costituisce una struttura importante perché è responsabile di complessi processi di integrazione sensoriale tra stimoli visivi, uditivi e somestesici. Questa struttura, un segmento del mesencefalo che ha il suo corrispettivo rettile nel tetto ottico, è stata studiata in diverse specie di mammiferi (roditori, gatti e scimmie) e costituisce un caso esemplare, perché particolarmente problematico, per la presente ricerca. Se il collicolo è una struttura multimodale ed è presente sia nei mammiferi che nell'essere umano, come può la sinestesia non costituire un semplice processo di espansione della intermodalità animale? Per rispondere a questa domanda è necessario muoversi secondo due linee argomentative. La prima concede qualcosa all'intermodalità: alcuni meccanismi di connessione íntersensoriale persistono anche nell'animale umano. Nella nostra organizzazione senso-motoria permangono degli schemi automatici e involontari come i sistemi neurovegetativi che ci consentono di non morire asfissiati nel sonno. Quando ad esempio un corpo si avvicina velocemente ai nostri occhi, un sistema di evitamento scatta automaticamente facendo spostare la testa per evitare il colpo e abbassare le palpebre per proteggere il bulbo oculare. I movimenti saccadici degli occhi, così come la coordinazione tra postura e sguardo, costituiscono casi dello stesso tipo: coordinazioni cablate tra differenti modalità sensoriali. Proprio perché permangono alcuni caratteri vegetativi e istintuali, è giusto raffigurare il processo evolutivo che porta all'animale umano come una piramide rovesciata: affermare che l'essere umano è un animale "povero di biologia" (Gehlen, 1978) non significa che ne sia privo. Una visione "verticale" del cervello permette di vedere la retroazione delle strutture filogeneticamente più recenti sulla funzionalità delle più antiche e consente di capire quale sia la sorte del residuo composto da riflessi e meccanismi automatici. È qui che emerge di nuovo (cfr. cap. 3, §§ 2 e 3) l'importanza del principio dell'inibizione dissociativa. Come vedremo (cap. 5, § 3), proprio perché il neonato umano matura molto più lentamente degli altri mammiferi, la sua corteccia ha bisogno di maggiore tempo per potersi sviluppare. Nel frattempo, la vista e le altre modalità sensoriali devono assicurare un minimum funzionale: a garantirlo sono proprio strutture sottocorticali come il collicolo superiore. In un secondo momento, questi centri subcorticali perdono parte della loro importanza perché l'attività della corteccia non si limita a integrarli ma li inibisce (Tees, 1994, p. 126). A un'ora dalla nascita, ad esempio, i neonati preferiscono fissare facce schematiche le cui caratteristiche sono posizionate correttamente piuttosto che stimoli nei quali occhi, bocca e naso sono messi a caso. Questo comportamento, gestito proprio dal collicolo superiore, scompare verso le 4-6 settimane e passa sotto il controllo dei centri corticali visivi (Vallortigara, 2000, pp. 114-115). Come sottolineano Stein e Meredith (1986, p. 656), i centri sottocorticali non sono identici in tutte le specie poiché hanno caratteristiche differenti adatte ai rispettivi habitat. Quelli dei gatti, ad esempio, sono prevalentemente visivo-uditivi, mentre nei roditori sono visivo-tattili perché in queste specie il ruolo delle vibrisse assume maggiore importanza nell'orientamento spaziale (Stein, 1981, p. 177). Il collicolo dei macachi si caratterizza per una maggiore reattività agli stimoli visivi che riguardano movimenti traballanti o linee d'ombra, mentre i neuroni del gatto mostrano una forte preferenza direzionale (Cynader, Berman, 1972, p. 198). Nella specie umana, invece, il collicolo non svolge alcun ruolo di adattamento a una nicchia ambientale poiché assume una funzione percettiva prima suppletiva e poi subordinata ai centri corticali. È per questa ragione che durante lo sviluppo sensoriale umano (cfr. cap. 5, § 2) si assiste a dei veri e propri momenti di "crisi" che causano la decadenza di una funzione multimodale prima attiva e poi una ripresa che non solo ne consolida le prestazioni ma le aumenta drasticamente. Un sistema temporaneo intermodale viene smantellato e al suo posto ne viene stabilito uno sinestetico. Questo processo di smantellamento ha un andamento dissociativo poiché inibisce alcune connessioni innate e permette un controllo più fine e sofisticato di percezione e movimento. Un esempio molto perspicuo di un simile processo riguarda il controllo senso-motorio della mano. Fino a qualche decennio fa, tra i neuroscienziati era diffusa l'idea che il controllo manuale da parte della corteccia seguisse un andamento discreto e lineare: un certo luogo della regione somatosensoriale doveva essere responsabile di una parte del movimento articolatorio e ogni dito doveva essere gestito da un'area specifica. Secondo questo modello, muovere un solo dito avrebbe dovuto significare compiere un gesto più semplice dello spostamento della mano intera poiché il primo caso avrebbe coinvolto una zona cerebrale, mentre il secondo ne avrebbe attivate molte. Lo studio più accurato delle aree della corteccia motoria primaria ha dimostrato che il funzionamento dei neuroni corticali segue una logica differente. Pazienti con lesioni corticali ad esempio perdono solo alcune funzionalità manuali: ma, al contrario di quanto previsto, questi soggetti dimostrano difficoltà a muovere le dita individualmente mentre mantengono la capacità di piegare e stendere tutte le dita insieme. Per mezzo dell'elettrostimolazione è stato scoperto che il controllo motorio della mano non segue un processo meramente accumulativo, come vorrebbe il modello più intuitivo e lineare (Schieber, 1990; Schieber, Hibbard, 1993). L'attività neuronale aumenta in relazione al movimento dell'arto secondo un rapporto non quantitativo (tante più parti si muovono, tanti più neuroni si accendono) ma di tipo, potremmo dire, qualitativo: la maggior parte dei neuroni motori è più attiva quando i muscoli che controllano sono impegnati in prese di precisione piuttosto che in movimenti che richiedono maggiore forza ma minore destrezza. Per la stessa ragione, l'attività neuronale è maggiore quando si tratta di mantenere fermo il polso e non quando si tratta di muoverlo. Questi dati sono spiegabili solo all'interno di una visione verticale del cervello che consideri evolutivamente decisiva la capacità di inibire e riassemblare "sinergie rudimentali" (Schieber, 1990, p. 444): Per produrre movimenti individuali, la corteccia motoria deve imporre il proprio controllo in parte su centri sottocorticali filogeneticamente più antichi e in parte direttamente sui motoneuroni spinali, in modo da poter dirigere correttamente i movimenti di tutte le dita. Per esempio, se si promuove l'estensione delle falangi distali del pollice e dell'indice mentre si vogliono flettere le altre tre dita, la corteccia motoria deve rimodellare una presa a mano intera in un pizzico di precisione. Lo studio delle attività neuronali nel nostro cervello mostra, ancora una volta, che l'evoluzione non procede secondo una dinamica accumulativa (partire dal processo più semplice per arrivare a quello più complesso) ma segue percorsi intricati, ben esemplificati dall'opposizione tra strutture specializzate e non specializzate. Mentre la mano della scimmia può accontentarsi di sinergie rudimentali che le consentano di passare da un ramo all'altro, problemi come costruire e gestire un attrezzo sofisticato richiedono che le dita possano muoversi indipendentemente: devono trovare una risposta diversa, antagonista alla prima (ivi, p. 440; Clark, 1997, pp. 112-114). Proprio per questa ragione chi concepisce la natura umana come il semplice accumularsi di istinti sempre più complessi, ne fornisce un modello inadeguato non solo dal punto di vista filosofico ma anche neurobiologico. Quel che si verifica non è una sommatoria di meccanismi via via più complessi ma la disattivazione di sinergie rigide a vantaggio di correlazioni più flessibili. Come vedremo meglio nelle conclusioni, il linguaggio verbale non costituisce di conseguenza un superistinto, l'unico istinto che ci distingua dalle altre specie animali (cfr. ad es. Pinker, 1994; Cimatti, 2002). Al contrario esso è, per definizione, la dimensione grazie alla quale possiamo inibire e modificare molte delle connessioni precablate che rimangono nella nostra specie, così come istituire usi, riti, regole che colmino il vuoto lasciato dalla limitatezza di un repertorio istintuale ridotto all'osso. Per comprendere quindi la rivalità tra strutture corticali e sottocorticali, istruzioni istintuali e moto pulsionale la nozione chiave è l'inibizione. | << | < | > | >> |Pagina 265Capitolo settimo
La sinestesia come esigenza di linguaggio
1. Di che colore è lo squillo della tromba? Nei due capitoli iniziali, ho cercato di fornire una ricostruzione della questione Molyneux centrata su tre paradigmi principali. Il modello che ho chiamato della "gerarchia sensoriale" cerca di rispondere al quesito posto a Locke (un cieco che ritrova la vista può riconoscere un cubo e una sfera?) sostenendo la priorità di un senso sull'altro: il primo Berkeley e il secondo Condillac insistono sul potere percettivo del tatto, il secondo Berkeley e il primo Condillac su quello della vista. Un altro paradigma, "geometrico-linguistico", sottolinea invece l'importanza della mediazione per mezzo di parole e calcolo geometrico tra le diverse modalità sensoriali. Seppur con posizioni diverse, sia Diderot che Leibniz insistono sul fatto che il cieco può conoscere forme e spazio grazie all'astrazione geometrica. Herder incarna un terzo modello per il quale la capacità di percepire attraverso diversi sensi simultaneamente è un carattere specifico della natura umana. Nel capitolo 3, abbiamo visto che l'antropologia filosofica, una linea di ricerca che di Herder fa il suo principale capostipite, individua nelle capacità sinestetiche uno degli spartiacque tra ambiente animale e mondo umano. Nei capitoli successivi, questa idea è stata messa alla prova attraverso la disanima delle varianti contemporanee della questione. Nel quarto è emerso che apparteniamo alla specie più sinestetica del regno animale poiché la meno specializzata e la più generica: anche gli scimpanzé, la forma di vita a noi geneticamente più prossima, mostrano capacità multisensonali molto inferiori alle nostre. La quinta sezione ha messo in evidenza che lo scarto tra animali umani e non umani è percettivo e prelinguistico: gli Homo sapiens, già prima di parlare, sono in grado di compiere trasferimenti sinestetici più complessi di quelli degli altri primati. La neotenia, la nostra cronica immaturità, garantisce una plasticità biologica tale da consentire una ristrutturazione sensoriale ripetuta nel corso dell'ontogenesi. I limiti di una plasticità ampia ma non illimitata sono emersi nel capitolo 6 a proposito del cieco che ritrova la vista e delle sostituzioni sensoriali: sottolineare il carattere intrinsecamente sinestetico della percezione umana non significa negare che ogni senso abbia un proprio margine di autonomia. Alcuni di coloro che insistono sulla plasticità dell'animale umano (Bach-y-Rita per esempio) finiscono col concludere che le deprivazioni sensoriali sono qualcosa che, tutto sommato, può essere superato. L'idea che il cieco veda attraverso il suo bastone o per mezzo di protesi più sofisticate è il corollario inevitabile di questa idea. Mentre i primi cinque capitoli hanno sottolineato il rapporto di dipendenza reciproca delle diverse modalità sensoriali, il sesto si è concentrato sulla loro autonomia. Il contrasto tra i due concetti è solo apparente: il fatto che la vita percettiva umana sia scandita dalla corrosione continua tra sensi non impedisce che ciascuno di essi abbia la sua specificità, leggi proprie (...). Dopo aver concluso nel capitolo precedente il lavoro di ricostruzione storiografica delle varianti più classiche della questione Molyneux, in quest'ultima sezione cercherò di comprendere più a fondo il significato teorico del rapporto tra sinestesia e linguaggio nel tentativo di recuperare alcune delle idee portate avanti sia da Leibniz che Diderot, da coloro che sottolineano l'importanza della parola per la percezione. Non si tratterà più, però, di una fondazione a senso unico (la parola legame tra i sensi). La logica della loro relazione è simile piuttosto a quella che vige tra le diverse modalità percettive: la sinestesia è condizione di possibilità per il linguaggio ma, allo stesso tempo, la parola rafforza e amplia la tipologia delle connessioni sinestetiche. Ancora una volta, la dipendenza non esclude l'autonomia. Per comprendere e approfondire quest'ultimo passaggio teorico, sarà necessario spaziare tra diversi autori del Novecento alla ricerca dei suggerimenti più interessanti. Particolarmente utili saranno gli spunti di riflessione forniti da due personaggi che, seppur di sfuggita, hanno affrontato il tema della sinestesia: il linguista russo Roman Jakobson (1896-1982) e il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1953). | << | < | > | >> |Pagina 277Si tratta, in fin dei conti, di tirare le somme di quanto detto finora. A differenza degli altri animali, l' Homo sapiens abita un mondo perché è sprovvisto di nicchia ecologica. La nozione di "mondo" ha tre caratteristiche: plasticità genetica (ultraneotenia), capacità disinibente e percezione sinestetica. Di queste proprietà l'ultima spiega più da vicino il carattere contestuale del linguaggio verbale, la sua aspecificità di dominio. Si tratta di una dimensione chiave della facoltà del linguaggio umana poiché legata alla onniformatività. Come ricorda il linguista danese L. Hjelmslev (1943) le lingue, a differenza degli altri codici (dal linguaggio delle api che può trattare solo della posizione del cibo ai codici matematici che trattano solo rapporti tra grandezze), possono avere come oggetto semantico qualunque campo d'esperienza.La mancanza di un dominio specifico costituisce un punto teorico decisivo per comprendere il rapporto tra linguaggio e natura umana. Questa aspecificità rappresenta uno dei problemi più gravi per chi sostiene la tesi, opposta a quella sostenuta in questo libro, che la natura umana consista in una particolare ricchezza istintuale e che la facoltà del linguaggio non sia altro che un istinto particolarmente potente (cfr. cap. 4, § 8). Si tratta di un'idea ancora molto diffusa in un paradigma oggi influente, le scienze cognitive: per questa ragione simili difficoltà meritano una breve digressione in grado di definire meglio il rilievo teorico del problema. Per comprendere quale sia la portata della posta in palio, l'opera di Jerry Fodor La mente modulare resta un punto di riferimento imprescindibile. Fodor (1983, p. 75) distingue fra tre sistemi cognitivi: i trasduttori, i moduli e i processatori centrali. I trasduttori sono solo semplici interfacce tra organismo (o il robot) e l'ambiente: corrispondono all'incirca agli organi di senso di cui è dotata una specie. I moduli, o sistemi di input, vengono paragonati dal filosofo americano a una specie di "riflessi" (ivi, p. 94): processi veloci e determinati geneticamente che, di fronte a uno stimolo specifico, rispondono in modo automatico. Mentre i trasduttori conservano l'informazione cambiandole solo formato (dalla stimolazione meccanica del tatto a una serie di impulsi elettrici che corre lungo i circuiti nervosi afferenti), i moduli sono sistemi che la elaborano. Questa elaborazione avviene però in modo rigido perché consiste nell'applicare un processo di trasformazione prefissato geneticamente. L'esempio più chiaro e semplice di trattamento modulare dell'informazione è dato dalle illusioni percettive. Si pensi a quella di Müller-Lyer, già incontrata nel cap. 5 (§ 5.1.1). La percezione di strutture come questa costituisce un processo modulare perché da un lato non conserva l'informazione oggettiva dei sensi (i due segmenti, fisicamente uguali, ci appaiono diversi) e dunque non rappresenta il risultato di una semplice trasduzione; dall'altro è un processo di elaborazione automatico, insensibile alle nostre credenze. Anche se sappiamo che i due segmenti sono uguali, quelli continuano ad apparirci diversi. I sistemi centrali, infatti, si distinguono dai moduli per due caratteristiche di fondo: sono isotropici e quineiani (ivi, pp. 163 sgg.). Con il primo termine Fodor si riferisce a ciò che abbiamo chiamato in precedenza "aspecificità di dominio", trattare qualunque tipo di dati; con il secondo si riferisce al carattere sistemico che è connesso a una simile aspecificità. Il cambiamento di contenuto di una credenza incide, o può incidere, sulle altre. Cambiare idea a proposito del rapporto tra il sole e la Terra e passare da una concezione tolemaica dell'universo a una copernicana non ha solo effetto sulle nostre credenze astronomiche ma sull'intero sistema di ciò che sappiamo o che credevamo di sapere. La semantica del linguaggio verbale, ciò di cui le parole possono parlare, costituisce il caso tipico di processore centrale poiché manca di specificità di dominio e fa della sistemicità uno dei cardini della propria strutturazione interna. Per questa ragione, la semantica costituisce il tallone d'Achille per l'approccio modulare alla mente e alla natura umana. Fodor (ivi, p. 193) lo ammette limitandosi ad affermare che i moduli sono l'unico aspetto della nostra cognizione che è possibile studiare in modo scientifico. Altri, come Steven Pinker, sostengono invece che è possibile avere una visione del progetto modularista meno pessimistica: forse ciò che crediamo centrale è, in gran parte, il risultato dell'intreccio particolarmente complesso di sistemi modulari. È per questa ragione che Pinker si spinge oltre: il linguaggio è un istinto e dunque un modulo. Il problema consiste nel fatto che un modulo, per definizione, è ciò che il linguaggio non è: specifico per dominio e non sistemico. Per questa ragione, secondo buona parte dell'approccio cognitivo o perlomeno per coloro che seguono la linea del cosiddetto "modularismo massivo", la semantica del linguaggio verbale finisce per costituire semplicemente un mistero. Un animale come tutti gli altri, inserito in un certo ambiente, con certi trasduttori (cioè degli organi di senso) improvvisamente ha a che fare con qualcosa di radicalmente diverso: sistemi centrali, facoltà del linguaggio. La mente modulare fornisce un'immagine molto tradizionale del nostro apparato percettivo poiché si concentra solo sulla vista e sull'udito (su quest'ultimo solo per parlare del linguaggio). Il problema del modularismo, si badi, non è costituito dalle relazioni intermodali. Fodor ne prende in esame una delle più note, "l'effetto McGurk" (ivi, pp. 84-85). Si tratta dell'illusione percettiva sulla quale si basa la fortuna dei ventriloqui che utilizzano pupazzi parlanti o dei doppiatori dei film in lingua straniera poiché porta ad attribuire la voce alla persona o all'oggetto che muove le labbra in sincronia con essa. Fenomeni di questo genere sono interpretati semplicemente come processi modulari intersensorialí: mentre i sensi sono tra loro separati, i moduli possono estendersi a zone di incrocio. Il modulo intersensoriale somiglia molto ai meccanismi scatenanti innati complessi ai quali si è accennato nel cap. 3 (§§ 3, 5): non è altro che una struttura un po' più complicata che rientra all'interno di una organizzazione gerarchica monosensoriale. La logica è sempre la stessa: Fodor spiega il sinestetico attraverso moduli intersensoriali dedicati; Pinker cerca di dar conto dei sistemi centrali accumulando istinti. In questo modo però non si riesce a comprendere nessuno dei due fenomeni: si rischia di postulare moduli ad hoc per ogni aspetto della plasticità percettiva umana (che sono virtualmente infiniti perché cangianti) e per i diversi domini semantici (ancora una volta infiniti perché storici). Il risultato è di incappare in una versione aggiornata del paradosso di Zenone: dividendo la linea in punti, Achille non riesce a raggiungere la tartaruga; scomponendo la natura umana in infiniti sistemi di input il modularismo finisce col rimanere sul posto. Ciò non vuoi dire, naturalmente, che l'architettura cognitiva umana non preveda moduli: semplicemente non è questo a fare la differenza con il resto del regno animale. O meglio: può fare la differenza ma solo in negativo, perché l' Homo sapiens ha meno sistemi di input delle altre specie e, dunque, deve fare affidamento sulle altre due strutture. I suoi trasduttori sono meno specializzati, non monosensoriali ma sinestetici; i sistemi centrali (in una parola: il linguaggio verbale) più pervasivi. La natura della nostra specie si fonda su sinestesia e linguaggio proprio perché costituisce un caso di collasso modulare. La sinestesia è il luogo d'origine della aspecificità di dominio della semantica verbale poiché ne costituisce il fondamento percettivo. Grazie al radicale ridimensionamento del filtro modulare, trasduttori e sistemi centrali si trovano in una condizione insolita, cioè a stretto contatto: tanto stretto che la logica dei primi può incunearsi nei secondi.
Gli animali non umani sono incastrati in un dominio semantico
ristretto perché ambientale. L'organizzazione monosensoriale dei loro
apparati di senso si articola in una successione di gerarchie, soppiamente
rigida: sia perche si tratta di "gerarchie", sia perché la loro è una
relazione per "successione". Si pensi ancora una volta all'esempio dello
squalo: in ogni fase della caccia un senso ha il sopravvento sugli altri
(in una vede, in una annusa, in una tocca e così via) e solo in quella. Se
il susseguirsi delle fasi è sovvertito, l'animale perde ogni forma
d'orientamento e le sue azioni risultano improvvisamente inefficaci: lo
squalo non mangia pesci incredibilmente vicini, attacca oggetti solidi
non commestibili (cfr. cap. 4, § 3). Poiché l'animale umano nasce privo
di un contesto prefissato (monosensoriale), ha bisogno di un istitutore
di contestualità, il linguaggio. A sua volta però il linguaggio eredita la
plasticità del suo luogo di origine: fornisce contesti sempre ritrattabili
ed esposti, precari e a rischio. La forza e la debolezza della sinestesia
diventano, a un altro livello, la forza e la debolezza delle parole: scarsamente
modulari, poco automatiche, non molto veloci ma sensibili al
contesto. E dalla scarsità dei nostri moduli che la sinestesia acquista
significato e consente alla metafora di avere origine.
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